dossier Georges
Brassens
Ricordando un
uomo libero
della redazione
di “A”
Appena
appresa la notizia della morte di Brassens, telefonammo a
Fabrizio De André proponendogli di scriverne lui un
ricordo.
Fabrizio si schermì e in "A" 97 (dicembre
1981/gennaio 1982) questo è quanto pubblicammo.
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Parigi,
1947, nel negozietto lungo il canale Saint-Martin, dove si trova
dall’indomani della Liberazione la redazione de Le
libertaire, l’organo della federazione anarchica,
si affaccia un giovane ventenne. Si presenta, milita nel gruppo
anarchico del 15° arrondissement: nel corso del
colloquio con i compagni presenti, viene fuori la necessità
di trovare un giovane che collabori per le spedizioni del giornale.
Il ragazzo si offre.
Con questo ricordo si apre il lungo articolo che Maurice Joyeux,
anziano militante della federazione anarchica, dedica sul n.
417 de Le monde libertaire (diretta continuazione de
Le libertaire sopra citato) al cantautore Georges Brassens.
Quel ragazzo, che per alcuni mesi restò poi a lavorare
con il gruppo editore del giornale, era infatti Brassens. Negli
anni successivi, quando ormai era diventato famoso, partecipò
a numerosi gala, le feste promosse dalla federazione anarchica
per sostenere la stampa e altre iniziative: furono queste feste
ad assicurare i fondi necessari per tirare avanti. E Brassens,
per un periodo, ne costituì la principale attrazione.
Ma l’anarchismo di Brassens, osserva Joyeux che ne restò
amico anche quando smise di frequentare l’ambiente anarchico,
viene fuori soprattutto dai suoi testi, dalla sua musica, dalla
sua personalità. In Italia è stato Fabrizio De
André a farne conoscere, nella sua versione, alcuni dei
testi più significativi, più graffianti –
negli anni ’60. In tempi più recenti Nanni Svampa
ne ha proposto una sua originale versione in dialetto milanese,
smussandone però la violenza verbale e la provocatorietà
espressiva. Invece no. Brassens andrebbe conosciuto nella sua
integralità, senza ritocchi o presunti abbellimenti.
Perché se l’uomo è morto, la sua dolcezza
e la sua rabbia sono più che mai vive, provocanti.
la redazione di "A"
Se n’è andato
quasi come un personaggio delle sue canzoni, appoggiando la
chitarra al muro, senza voler disturbare nessuno. Probabilmente
infastidito dal suono dei tromboni che inevitabilmente sarebbero
risuonati. I tromboni che prendevano una rivincita su anni
di sberleffi, su anni di insulti giostrati sulle corde. «Chi
resta ha sempre ragione» diceva in una sua canzone.
E chi resta si trova tra le mani le sue canzoni, si trova
tra le mani il suo sorriso un po’ triste, i suoi gatti,
le impronte di vita che egli ha lasciato con della musica
addosso.
È morto un anarchico, come gli anarchici ha preso per
il culo la vita e la morte, forse per esorcizzarle, forse
per strizzar loro l’occhio, per farsele amiche. Come
gli anarchici ha cantato la vita con il suo odore aspro, il
suo alito di fiori e aglio, ha corteggiato la morte, forse
senza paura, forse sentendo il suo fiato sul collo. Come gli
anarchici ha puntato il dito, armato solo della spada di legno
della sua chitarra, della sua cultura di uomo e non di sapiente.
Armato solo delle parole che gli suggerivano gli occhi. Come
gli anarchici è stato accusato, insultato, deriso,
come gli anarchici ha accusato, insultato, deriso, avendo
però dalla sua, la forza di chi non ha nulla da perdere.
La forza di chi ha perso l’unico bene per cui val la
pena di lottare: la libertà, e lo rivuole indietro.
Retorica? Illusione? Forse. La stessa retorica e la stessa
illusione, se così vogliamo chiamarle, di chi crede
che possa esistere una realtà migliore. Di chi lotta
perché questa realtà si… realizzi.
Brassens non ha mai legato con gli altri «colleghi»
quelli del maglione, del whisky nella mano, della sigaretta
all’angolo della bocca, del conto in banca, dell’angoscia
di esistere senza in realtà vivere. Il suo sberleffo
aveva il sapore di un saporito pernacchio che veniva dal profondo,
non era isterico, né angosciato, né voleva dimostrare
chissà cosa, era un pernacchio e basta, fatto in prima
fila, fatto dal balcone. Era il: «Scemi, scemi!»
di uno che vive, che azzanna il sedere alla vita e non ha
tempo di fermarsi a spiegare agli altri che sono statue di
sale, ma li dileggia dalla strada passando. Erano due occhi
spalancati sul mondo, con il gusto di un bambino che morsica
una mela e non ha nulla da temere. Erano due mani pronte al
gestaccio, pronte a tirare il sasso, come pronte a carezzare,
come pronte a strozzare. Era una voce neanche tanto bella,
ma che era fatta di parole e non di suoni da baraccone. Era
la voce che sempre corre tra la gente, che grida: «Il
re è nudo!», anche quando sembra che non ci sia
più speranza, che tutto sia perduto. Era un uomo, forse
come tanti, con in più il pregio di una lingua come
bisturi e di un cervello colmo fin all’orlo di vita.
Tutta da gustare, fino alla tomba, fin sotto terra a guardare
le radici, ma che siano radici di fiori. «Non lascerò
chiudere la cassa, voglio passare prima dal mio barbiere»,
e anche dopo morto «se mi toccano i gatti lo giuro farò
il fantasma per spaventarli!».
È morto un anarchico, aveva il pregio d’aver
preso la vita e la morte sotto il braccio per portarle a bere,
aveva il pregio d’aver preso i potenti e loro scagnozzi,
per il sedere e per le palle, tirando forte. Aveva il pregio
di essere un uomo che voleva libertà come aria, scusa
se è poco!
“G”
G. era Gabriele Roveda, all'epoca componente del nostro collettivo
redazionale
I
testi di qualche canzone |
La
non demande en mariage
........
De servante n'ai pas besoin,
Et du ménage et de ses soins
Je te dispense...
Qu'en éternelle fiancée,
A la dame de mes pensée’
Toujours je pense...
J'ai l'honneur de
Ne pas te demander ta main,
Ne gravons pas
Nos noms au bas
D'un parchemin. |
La
non richiesta di matrimonio
........
Non ho bisogno di serva,
e dal peso delle faccende domestiche
ti dispenso...
Come a un’eterna fidanzata,
alla signora dei miei pensieri,
sempre io penso...
|
La
ballade des gens qui sont nés quelque part
.........
Mon Dieu, qu’il ferait bon sur la terre des hommes
Si l'on n'y rencontrait cette race incongru’,
Cette race importune et qui partout foisonne:
La race des gens du terroir des gens
(du cru.
Que la vi’ serait belle en toutes circonstances
Si vous n'aviez tiré du néant tous ces
jobards,
Preuve, peut-être bien de votre inexistence:
Les imbéciles heureux qui sont nés quelque
part. |
La
ballata di quelli nati in qualche posto
........
Mio Dio, come si starebbe bene sulla terra degli uomini
se non vi si incontrasse questa razza di scorretti,
questa razza molesta e che abbonda dappertutto:
la razza della gente del suo paese d’origine,
della gente
(del posto.
Come sarebbe bella la vita in ogni momento
se tu non avessi tratto dal nulla questi balordi,
che sono la prova, forse, dalla tua inesistenza:
i beati imbecilli che sono nati in qualche posto. |
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