In un editoriale scritto su
Repubblica due giorni dopo lo svolgimento del primo
turno delle presidenziali francesi, Bernardo Valli affermava
che il successo relativo del Fronte Nazionale di Marine Le
Pen è la diretta conseguenza delle evidenti difficoltà
che il popolo francese attraversa. La crisi –
scrive Valli – ha votato – provocando
un movimento tellurico non previsto dall’intero arco
politico d’Oltralpe, che ne aveva sottovalutato i sintomi.
Sono d’accordo con la tesi di Valli, ma sino ad un certo
punto.
Sono convinto, infatti, che le molte insicurezze innescate
dal momento drammaticamente difficile che attraversano i Paesi
della Vecchia Europa abbiano in una certa misura favorito
un voto di pura protesta. Ma se ci fermassimo a questa considerazione,
avremmo evidenziato solo un aspetto della realtà, certamente
il più scontato e consolatorio perché limitato
ad una contingenza drammatica, ma superabile come sono state
superate le ricorrenti, cicliche crisi del mondo capitalistico.
Il problema vero è, a mio giudizio, che si sono confusi
le lingue e i comportamenti dei diversi schieramenti politici,
tanto che risulta ormai difficile comprendere la diversità
delle ricette proposte per venir fuori dal tunnel.
Se si seguono le spericolate escursioni nel campo avverso
di Marine Le Pen si chiarisce meglio il senso di quel che
voglio dire. Sentite ciò che afferma la dirigente del
Fronte Nazionale in un estemporaneo omaggio alla storia della
Sinistra: “Dalla sua nascita, la Sinistra ha sempre
condotto enormi lotte di liberazione. Ha iniziato la sua storia
politica in nome della Ragione e contro le verità rivelate:
i Filosofi e gli Enciclopedisti attaccarono la Chiesa, l’infame
perché ritenevano che opprimesse le coscienze”.
Ma poi tenta di scavalcarla ancora più a sinistra affermando
che la sua lettura di un classico, come Adam Smith, le avrebbe
permesso di capire perché la Sinistra ha tradito i
suoi ideali, abbandonando “…il terreno della
difesa delle classi popolari, degli operai, per dissolversi
nella difesa dell’escluso o dei sans papiers”:
così dicendo, con un colpo solo, la Le Pen accusa la
sinistra di avere abbandonato la lotta di classe per ergersi
a difesa di un sottoproletariato e di un’immigrazione
non regolarizzata, ritenuta dalla Le Pen implicitamente non
degna di difesa solidale.
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Francois
Hollande, Marine Le Pen, Nicolas Sarkozy |
Il ruolo dei Le Pen
Del resto, il problema dell’immigrazione, lungi dal
connotarlo di toni razzisti, la Le Pen tenta di affrontarlo
in chiave socio-nazionalista, affermando, come fanno in tanti
e non solo in Francia, che una manodopera così a buon
mercato, quale è quella offerta dagli immigrati, toglie
lavoro ai francesi, in un momento di recessione e di disoccupazione
montante. Tutto questo – dice Marine Le Pen –
non è una tesi sostenuta dalla destra, ma è
in linea con quanto a suo tempo affermato da un presidente
del consiglio socialista, Pierre Mendes France, il quale,
nel gennaio del 1957 affermò che “il Paese
doveva riservarsi il diritto di limitare l’immigrazione
in Francia, soprattutto quando la congiuntura economica lo
richiedesse e di tutelarsi contro il rischio di disoccupazione
e di un abbassamento del livello di vita importati dall’esterno”.
Queste contraddizioni – che, da parte della Le Pen,
sono palesemente strumentali – non sono le uniche a
frastornare un elettorato che non sa più a chi credere.
Certo il pedissequo allineamento di Sarkozy alla politica
rigorista della Merkel aveva creato molti malumori in Francia,
anche tra le fila della compagine presidenziale e tali insofferenze
crebbero poi per le derive xenofobe e populiste del presidente
uscente nel suo maldestro tentativo di convincere l’elettorato
del Fronte Nazionale a votarlo nel secondo turno elettorale.
D’altra parte, il fronte moderato teme che il successo
del candidato socialista Hollande possa spostare troppo a
sinistra l’asse della politica francese per i prossimi
cinque anni, creando conflitti ulteriori in una Comunità
europea che già non sa come tenere insieme Paesi tra
loro diversissimi, spesso attraversati da spinte centrifughe
molto consistenti.
Si accredita l’immagine di Hollande uomo semplice e
schivo, poco propenso a scapigliature rivoluzionarie, ma,
intanto, alcune sue dichiarazioni programmatiche appaiono
in controtendenza rispetto alle politiche arroccate sul pareggio
dei bilanci nazionali oggi prevalenti. Dice Hollande che,
se dovesse prevalere sul suo avversario nella corsa alla presidenza
della Repubblica francese, richiederebbe subito alle istituzioni
europee di rinegoziare il Patto di stabilità e la struttura
di governance della Comunità. Questo significa entrare
in rotta di collisione con la Germania della cancelliera Merkel,
che, a tutela degli interessi tedeschi, non vuole mutamenti
di rotta e non cede di un passo sulla priorità assoluta
del pareggio dei bilanci dei Paesi membri, quali che siano
i sacrifici che le popolazioni debbano affrontare.
Ma anche in politica interna Hollande mostra di volere agire
in assoluta autonomia e in direzione di una più marcata
attenzione ai problemi della crescita. Basta guardare ai tre
settori che, per esempio, da noi in Italia hanno elevato il
livello del conflitto sociale: quello del lavoro, delle pensioni
e delle iniziative per la crescita.
Per quel che riguarda il lavoro, Hollande promette una politica
fiscale che favorisca l’ingresso dei giovani nelle imprese
disposte ad occuparli e ha garantito 60 mila nuovi posti di
lavoro nei settori dell’istruzione e dell’educazione.
Per quel che riguarda le pensioni, intende riportare a 60
anni il diritto alla pensione, alla condizione di aver versato
41,5 anni di contributi.
Per la crescita prevede la creazione di una banca pubblica
d’investimento a sostegno delle imprese, e, per il pareggio
di bilancio che non gravi solo sulla parte più debole
dei contribuenti, una riforma fiscale con aliquota del 75%
per i redditi superiori ad un milione di euro.
Al confronto con quanto avviene oggi da noi in Italia, queste
prospettive appaiono impensabili.
La nostra è una società malata, sino a ieri
distratta dai balletti di Villa Grazioli e depistata dall’economia
creativa di un ministro berlusconiano, Tremonti, che, dopo
aver devastato, complice del suo mentore, il tessuto economico,
politico e morale del Paese, adesso osa dichiararsi dalla
parte del leader socialista francese; oggi nelle mani di una
Confraternita governativa della Buona Morte, sortita in prevalenza
dai sarcofagi di università confessionali imbalsamate,
questa povera Italia, precipita nella depressione più
profonda, senza che, a giro d’orizzonte, si profili
un’oasi in qualche misura salvifica.
Decadenza irreversibile
Il momento è difficilissimo per tutti, ma proprio
in circostanze simili si misura la statura di un popolo. La
Francia, scossa da un’opinione pubblica, da un ceto
politico che, pur tra spinte contraddittorie e in alcuni casi
persino radicalmente reazionarie, mostra di reagire alle difficoltà
senza appiattirsi nel vuoto conservatorismo delle istituzioni
europee, mette alle corde il suo presidente in carica contestandogli
il rapporto acritico col Cancelliere tedesco, nella prospettiva
velleitaria di un’asse Parigi-Berlino destinata a egemonizzare
la Comunità europea. Senza considerare che, nel rapporto
tra i due Paesi, la Germania tutelava, con il rigore che imponeva
agli altri componenti dell’Unione, suoi interessi ben
consolidati, mentre la Francia inseguiva solo l’affermazione
illusoria di una grandeur ormai sepolta negli strati geologici
di remoti tempi passati.
Così la meteora Sarkozy ha attraversato rapidamente
il tratto di cielo di una Francia tutt’altro che sonnolenta,
pronta ad invertire la tendenza di un conservatorismo privo
di prospettive, indifferente verso la sofferenza dei popoli,
attestato a difesa di poteri supernazionali che volano alti
sulla testa dei cittadini.
Non è detto, purtroppo, che questa levata di scudi
basti a conseguire un’inversione di rotta di un’Europa
frammentata e sostanzialmente priva di politiche credibili
per un suo futuro meno precario. Quanto meno, però,
i francesi, a prescindere da contraddizioni e da zavorre ingombranti,
hanno dato segnali di non essere rassegnati.
In Italia, la decadenza irreversibile di un ceto politico
impresentabile, l’incapacità di un’opinione
pubblica, drogata da vent’anni di governi impotenti
quando non addirittura indecorosi, a trasformarsi in attiva
presenza politica, hanno determinato la cloroformica atmosfera
nella quale si muovono solo i quasi-vivi esponenti di un potere
clerico-reazionario che un velario pietoso avrebbe dovuto
seppellire da tempo.