Piazza Fontana
Una storia non solo mia
di Paolo Finzi
Nella seconda edizione de “Il
segreto di piazza Fontana” Paolo Cucchiarelli dedica
mezza pagina a un nostro redattore.
Sarebbe, in sostanza, un doppio bugiardo e un vigliacco (verso
Pinelli). Ma Finzi non ci sta e qui spiega perché ha
deciso di agire per diffamazione contro Paolo Cucchiarelli
(e Roberto Gremmo).
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Milano
12 dicembre 1969. L’interno della Banca Nazionale
dell’Agricoltura sventrato dalla bomba |
Il mio 12 dicembre 1969
Influenzato, sono a letto a casa mia, in via Marcora 7, a
Milano. Nel pomeriggio si diffonde la notizia di un’esplosione
in centro. Telefono al mio amico Giammarco Brenelli, per sapere
se ne sa di più. È un mio compagno di scuola
(non di classe) al liceo classico “Carducci”,
io animatore del gruppo anarchico Carducci, lui liberale,
moderato, di centro: aldilà delle divergenze, siamo
amici e il dialogo tra noi dura da tempo.
La sera, non ricordo esattamente a che ora, si presentano
due uomini delle forze dell’ordine. Due vicini di casa
hanno aperto loro il portone sotto, sono saliti al quarto
piano e ai miei genitori dicono che devo seguirli, sarei –
a detta di uno dei due – uno dei potenziali responsabili
dell’attentato che con 17 morti ha insanguinato la città.
Mia madre mi fa coprire bene, sciarpa, maglione e poi si precipita
al telefono. 25 anni prima era partigiana combattente a Roma,
quella sera si limita a tirar giù dal letto l’avvocato
Mario Boneschi, vecchio liberale, una delle figure di punta
del Partito Radicale. Dopo poco parte un telegramma per la
Questura, “non torcete un capello a mio figlio, è
reduce da un grave incidente motociclistico con trauma cranico
e commozione cerebrale, vi ritengo fin d’ora responsabili
di quanto possa accadergli mentre è nelle vostre mani”.
La vecchia socialista non si è mossa male. Naturalmente
apprenderò dopo questo dettaglio.
Vengo caricato in auto, il tragitto fino alla Questura è
breve. Il posto non mi è del tutto sconosciuto. Ho
alle spalle un paio di fermi, in entrambi i casi durante manifestazioni
di piazza: la prima volta due anni prima, manifestazione in
piazza Duomo, il famoso commissario Vittoria fa suonare la
tromba e poi la carica della polizia. Vedo tutti che scappano,
io non sono mica scemo, sto tranquillo davanti a una vetrina,
così non mi succede niente. Mi caricano su di una camionetta
verde e con altre decine di persone vengo portato in Questura.
La seconda volta ero in via Manzoni, un poliziotto in borghese
mi prende sottobraccio e molla la presa solo dentro la Questura.
Per il primo fermo arriva l’imputazione di “adunata
sediziosa”, in tribunale finirà tutto nel niente
(per me e per gli altri fermati/denunciati). Il mio avvocato
difensore era Mario Boneschi.
Nel gennaio 1969, poi, cioè quasi un anno prima del
12 dicembre, vengono un po’ di agenti a casa mia, effettuano
una perquisizione di alcune ore alla ricerca di materiale
esplodente, in camera mia sollevano anche il parquet, non
trovano niente. Ma dopo quella perquisizione i miei genitori
mi spediscono dal citato avv. Mario Boneschi, che mi fa stendere
una lettera che viene inviata in Questura e forse altrove.
Io, allora diciassettenne, rivendico il mio anarchismo e al
contempo il mio essere nonviolento.
Torniamo alla notte tra il 12 e il 13 dicembre 1969. Nel corso
della notte vengo interrogato (“Dov’eri lo scorso
pomeriggio? Chi pensi sia stato l’autore dell’attentato?”),
poi come quasi tutti vengo portato nelle celle della Questura,
strapiene di fermati, quasi tutti rilasciati nel pomeriggio
di sabato 13 dicembre. Quasi.
Nel salone al quarto piano della Questura ricordo qualche
volto noto, Sergio Ardau, Pino Pinelli (con il quale scambio
qualche battuta), Cesare Vurchio (che si ricorda di me imbacuccato,
con una sciarpa al collo: ero febbricitante e la mamma prima
di vedermi uscire con i poliziotti mi aveva coperto bene).
Resto in Questura fino al pomeriggio di sabato 13 dicembre.
Questo, in sintesi, il mio 12-13 dicembre.
Il mio 12 dicembre 1969 (secondo Cucchiarelli)
Cucchiarelli, nella seconda edizione del suo libro (quello
della tesi delle 2 bombe contemporaneamente messe nella Banca
dell’Agricoltura), ricostruisce in maniera un po’
diversa quelle mie ore.
Molto probabilmente, secondo Cucchiarelli, io sarei quel Paolo
Erda che si trovava verso le ore 17.15 del famoso venerdì
12 al Circolo anarchico “Ponte della Ghisolfa”,
quando vi si recò Pinelli, proveniente dal bar dove
aveva giocato a carte al momento dell’esplosione in
piazza Fontana. In realtà era già agli atti
del giudice D’Ambrosio (interrogatorio di Ivan Guarnieri,
23.11.1971; interrogatorio di Ester Bartoli 23.11.1971; interrogatorio
di Ivan Guarnieri 21.02.1972) che Paolo Erda era il soprannome
di Paolo Stefani, quindi non ero io. E anche nell’edizione
2009 del libro “Bombe e segreti” di Luciano Lanza
è scritto chiaramente che Erda era Stefani.
Se io fossi, come sostiene Cucchiarelli, Paolo Erda, sarebbe
interessante – scrive sempre Cucchiarelli –
sapere perchè io abbia sempre taciuto e non mi sia
presentato a confermare l’alibi di Pino Pinelli. Peccato,
che non essendo io Paolo Erda, tale facoltà non mi
fosse data.
Poi Cucchiarelli cita Roberto Gremmo, fondatore e direttore
della rivista Storia Ribelle e autore di improbabili
libri “storici” spesso caratterizzati da un uso
approssimativo delle “fonti” e denigratori verso
gli anarchici. Questo Gremmo, nel suo “Il triangolo
delle bombe” (stampato come supplememto al n. 30 della
rivista Storia Ribelle nel novembre 2011), sostiene
che io avrei mentito riguardo al mio fermo la sera del 12
dicembre. E lo fa, da instancabile ricercatore quale
lo qualifica Paolo Cucchiatelli, rifacendosi a una fotocopia
questurinesca riprodotta nel libro di Vincenzo Nardella “Noi
accusiamo!” del 1972: tale fotocopia contiene 25 nomi
e cognomi di fermati il 13 dicembre (e non il 12 dicembre)
ed è comunque un elenco sicuramente incompleto, visto
che i fermati furono complessivamente oltre un centinaio.
In questo elenco parziale mancano, tra gli altri, i nomi di
Giuseppe Pinelli e di Virgilio Galassi, nomi riportati anche
dai giornali, il primo per le note successive ragioni e il
secondo perché era il responsabile del Centro Studi
della Banca Commerciale, anarchico “in sonno”
da lungo tempo, per la cui scarcerazione si mosse subito il
numero uno della Commerciale, Raffaele Mattioli, una delle
personalità più importanti della finanza italiana
di allora.
Secondo quanto riporta Gremmo, invece, Finzi non risulta
affatto nell’elenco dei fermati – unico tra i
compagni anarchici di Pino –, e bisognerebbe capire
perché. Con queste parole Cucchiarelli chiude
la mezza pagina a me dedicata. Non è roba da poco:
con un piccolo passo in avanti, bisognerebbe chiedersi dov’era
Paolo Finzi alle 16.37 di quel venerdì 12 dicembre,
visto che a letto a casa sua non c’era (se era il Paolo
Erda al “Ponte della Ghisolfa”) e poi ha millantato
un fermo di polizia che non risulta.
Situazione un po’ kafkiana
Alla fine dello scorso mese di marzo, una volta letto, su
segnalazione di Adriano Sofri, quanto Cucchiarelli ha aggiunto
su di me nella seconda edizione del suo libro, mi sono recato
dall’amico avvocato Luca Boneschi: una mia vecchia conoscenza,
visto che lo conosco fin dal 1968, intanto perché allora
bazzicavo anche la sede, in via Lanzone, del Partito Radicale
(e Luca per un periodo era iscritto al PR) e poi perché
il giovane avvocato Luca era nel comitato di difesa degli
anarchici arrestati per gli attentati del 25 aprile 1969 alla
Fiera Campionaria e alla Stazione Centrale di Milano (come
successivamente lo sarebbe stato in quello di Valpreda). E
poi Luca era nipote proprio dell’avvocato Mario Boneschi,
il legale di fiducia dei miei genitori, che già si
era occupato di me sia in relazione alla perquisizione del
gennaio 1969 sia al precedente fermo (con denuncia) nel corso
di una precedente manifestazione. Fu Luca Boneschi, dopo la
morte di Pinelli, a suggerirmi di andare dal giudice Ugo Paolillo
a rendere testimonianza del mio colloquio con Pinelli in Questura
durante la notte tra il 12 e il 13 dicembre. Paolillo –
al quale poi vennero avocate le indagini sulla strage di Piazza
Fontana e sulla morte di Pinelli – era interessato a
qualsiasi testimonianza di persone che lo avessero incontrato
durante il suo fermo, per sapere in che stato psicologico
si trovava. E io testimoniai che, pur nella palese concitazione
dell’ambiente (eravamo tutti fermati in relazione a
un attentato con morti e feriti) Pino era sereno e –
per quanto mi riguarda - rassicurante nei confronti di un
diciottenne quale ero.
Trascorsi 43 anni da quei giorni, ho dovuto raccogliere alcune
testimonianze a conferma della “mia” verità
sul mio 12-13 dicembre 1969. L’avvocato Gianmarco Brenelli,
liberale oggi come allora, testimonia del nostro colloquio
telefonico, prima citato, e allora non c’erano cellulari,
se chiamavi da casa eri a casa. Mio fratello Enrico testimonia
dell’arrivo delle forze dell’ordine in casa nostra
e del mio fermo. L’anarchico Cesare Vurchio, allora
il più stretto amico e compagno di Pinelli (erano anche
coetanei), testimonia di avermi visto in Questura quella notte.
Situazione un po’ kafkiana. Dopo 43 anni devo io dimostrare
quella che per me non è solo la certezza dei fatti,
ma è anche la data che ha segnato profondamente la
mia vita, trasformandomi in un convinto militante anarchico.
Di Pinelli, di quelle giornate, ho reso spesso pubblica testimonianza
in conferenze, scritti... Ho curato il dossier su Pinelli
e la strage di piazza Fontana, che abbiamo realizzato come
rivista “A”. Tutto falso? Tutto basato su di un
mio millantato protagonismo, con menzogne e reticenze?
Gremmo e Cucchiarelli mi hanno profondamente offeso, cercando
di farmi apparire un personaggio ambiguo, bugiardo e ancor
peggio vigliacco con una persona, come Pino, nel ricordo della
quale ho condotto da allora un certo tipo di esistenza e di
impegno politico mai abbandonati.
Chiudo ricordando che nella primavera del 1970, in una riunione
del gruppo “Bandiera Nera” a casa di Amedeo Bertolo,
chiesi di poter “entrare nel gruppo”. Aspettai
fuori dalla stanza in cui si svolgeva la riunione… E
quando mi dissero che ero stato accettato, ne fui orgoglioso:
ero il primo compagno a entrare nel gruppo dopo la morte di
Pino. Ai miei occhi, “prendevo il suo posto”.
E oggi c’è chi crede di poter scrivere che su
Pino io avrei sempre taciuto e non mi sarei presentato a confermarne
l’alibi. Oltre a essermi inventato tutta la storia della
malattia e del fermo in Questura. È un’offesa
che mi ferisce e anche per questo ho dato mandato al mio legale
di agire per diffamazione contro Roberto Gremmo e contro Paolo
Cucchiarelli (e le loro case editrici).
Paolo Finzi
43 anni dopo
Questa notizia l’ha data l’Ansa»:
nel mondo della carta stampata, un tempo, voleva dire:
notizia certa e verificata. Ma se un giornalista di
quella agenzia, Paolo Cucchiarelli, riesce a mettere
insieme più di 600 pagine traboccanti di invenzioni,
macroscopici errori, fantasie bisogna forse ripensare
quel giudizio.
Dopo le varie recensioni della prima edizione di Il
segreto di Piazza Fontana (fra le altre ricordo
quella molto puntuale di Enrico Maltini su Libertaria
(n. 3 del 2009) adesso è in rete (ma sarà
presto pubblicato) 43 anni. Piazza Fontana,
un libro, di Adriano Sofri.
Ecco un capitolo importante del lavoro di Sofri:
Promemoria sugli errori di fatto più
vistosi
Per dare un po’
di ordine alle pagine, premetto un elenco sommario di
alcuni degli errori contenuti nel libro, sui quali i
documenti disponibili fanno inequivocabilmente luce.
- Dei due taxi abbiamo
detto. Cucchiarelli dice che ci furono due taxi, identifica
il secondo, oltre a quello guidato da Rolandi (con
Valpreda, secondo lui), e gli mette dentro un passeggero
attentatore.
Io gli dico chi viaggiava nel secondo taxi, e perché.
- “Paolo Erda
o Ergas”. Nome citato da Pinelli come quello
di un compagno incontrato il pomeriggio del 12 dicembre.
Cucchiarelli prima lo associa con un Ivan –
altra persona, Ivan Guarnieri – e li scambia
per fratelli. Poi li dichiara inesistenti. Non si
cura degli anarchici che dicono che Erda era un soprannome,
e che conoscono bene la persona. Quando si accorge
dell’errore, attribuisce il cognome a una persona
che non c’entra niente. Io qui gli dico, sulla
scorta degli atti processuali, che il nome vero di
Paolo “Erda” – Paolo Stefani - vi
era ripetutamente contenuto. Anche a questo madornale
errore, Cucchiarelli lega conseguenze incredibili:
per esempio, che Pinelli in Questura l’avesse
formulato per anagrammarlo, così che, combinando
(e arrangiando) ‘IVAn e PaoLo ERDA’, venisse
fuori VALPREDA!
- “L’altro
ferroviere”. Cucchiarelli ipotizza che ci fosse
a Milano “un altro ferroviere finto-anarchico”,
e anche a lui assegna un ruolo essenziale nel turbamento
finale di Pinelli. Lo identifica in un noto terrorista
ordinovista. Solo che il noto ordinovista non era
ferroviere, né tutto il resto. Come nell’amaro
tango “La Chorra”: “Y he sabido
que el “guerrero” / que murió lleno
de honor, / ni murió ni fue guerrero como m’engrupiste
vos”. Questo errore è stato dimostrato
non da me, ma da attenti recensori, sulla scorta di
un documento di polizia ritrovato da Aldo Giannuli.
L’“altro ferroviere” faceva il postino
a Genova.
- Il “misterioso
compagno”. Avevo scritto, ne La notte che Pinelli,
che Pinelli nel tardo pomeriggio del 12 dicembre,
prima di arrivare al circolo Scaldasole dove fu fermato,
si era brevemente intrattenuto con un compagno. Cucchiarelli
mi attribuisce la rivelazione e si chiede chi mai
fosse quel “misterioso compagno”, prova
a identificarlo (“Paolo Erda”), vi intuisce
conseguenze importanti. Nella carte, che io semplicemente
citavo, viene fatto il nome di quella persona, che
abitava lì: e naturalmente qui ne faccio il
nome.
- Il numero “7”.
Nella borsa contenente la cassetta inesplosa e fatta
brillare il 12 dicembre alla Banca Commerciale milanese,
era stampigliato il numero 7. Cucchiarelli sostiene
che fosse presente anche sulla cassetta, e che, invece
che di un segno di fabbricazione, si trattasse di
un modo degli attentatori di numerare le loro bombe:
questa era la settima. E ne ricava una conferma alla
sua convinzione che le bombe di quel giorno non fossero
cinque – due a Milano e tre a Roma – ma
sette, e che le altre due di Milano non fossero esplose
perché in extremis Pinelli le aveva neutralizzate.
Mostro come il calcolo delle bombe fatto da Cucchiarelli
stesso in un altro capitolo le riduce – inavvertitamente
– a sei (6).
- Dalle mani del “mussoliniano-anarchico”
Nino Sottosanti, figura centrale di questa storia,
passa una cassetta portagioielli “simile”
a quella della bomba alla Comit. Donde varie deduzioni.
Mostro qui, con le carte di polizia, che quella cassetta
era stata rivenduta da Sottosanti ben prima del dicembre.
- Cucchiarelli fa un
continuo e inaccettabile ricorso a “fonti già
di estrema destra” che vogliono restare anonime.
Mostro come, nei casi in cui un argomento perentorio
di Cucchiarelli “confermato” dalle sue
fonti anonime viene dimostrato per tabulas fallace,
ne risulta a maggior ragione fallace la “conferma”
anonima.»
Sofri, oltre a questo promemoria, passa poi a un altro
«nodo fondamentale» della fantasiosa ricostruzione
di Cucchiarelli: le fonti anonime. Scrive Sofri:
Le fonti anonime
Abbiamo detto che c’è
nel libro di Cucchiarelli un increscioso ricorso a fonti
anonime. Tanto anonime quanto spettacolose. Ogni volta
che la sua ricostruzione si fa più spericolata
e rocambolesca, ecco che interviene una fonte, anonima
ma affidabile affidabilissima, autorevole autorevolissima,
a fornirne una puntuale conferma, sicché, a prenderla
in parola, c’è da chiedersi se sia nato
prima l’uovo dell’elucubrazione di Cucchiarelli
o la gallina della fonte anonima.
Le “due bombe inesplose” a Milano? «Se
non bastassero il ‘7’ su borsa e cassetta
[non basta, no!], le voci a caldo degli anarchici, le
tracce sui quotidiani dell’epoca e le testimonianze
dei fascisti, ce lo conferma anche una fonte qualificata
di destra, che ci ha chiesto esplicitamente di non essere
citata: i due ordigni erano “sicuramente”
pronti a esplodere».
La miccia vera o supposta alla BNA? «In più
di un colloquio privato, una fonte qualificata di destra
ci ha confermato l’utilizzo della miccia a Piazza
Fontana. E ci ha dato anche un’indicazione sui
tempi…».
Gli itinerari delle borse usate per gli attentati? «Dai
nostri colloqui con un esponente dell’estrema
destra che partecipò all’operazione, che
vuole rimanere anonimo…». Perché
Valpreda prese un taxi per fare l’equivalente
di centosettanta passi a piedi, e lo fece fermare oltre
la banca, facendo dunque centosessanta passi a piedi
nella direzione opposta? « “Perché
qualcuno gli aveva semplicemente detto che doveva prendere
il taxi. Gli si diedero 50.000 lire e il ballerino non
si pose di certo il perché… Tutto qui”
rivela una fonte qualificata di destra che, naturalmente,
non vuole essere citata».
La riunione del 9 dicembre a Roma per dare il via all’operazione?
«Il fatto ci è stato confermato da una
persona che a quella riunione partecipò».
E così via, ancora e ancora. Non è difficile
scrivere libri di storia innovatori facendo un così
ampio ricorso a fonti qualificate che “naturalmente”
vogliono restare anonime. E che, se fossero autentiche,
e si lasciassero conoscere, risolverebbero “il
segreto di Piazza Fontana” ben diversamente che
la favola brutta del Raddoppio.»
Ora, se non fosse che quel libro figura fra le fonti
del film Romanzo di una strage di Marco Tullio
Giordana basterebbe uno sberleffo per ridimensionare
il tutto, ma, come sappiamo bene, la suggestione delle
immagini troppo spesso supera di slancio quella della
parola scritta. E nel libro di Cucchiarelli come nel
film di Giordana assistiamo alla «fantasia delle
fantasie»: due attentatori, due taxi, due bombe.
Tutto tenuto insieme dal ritrovamento di un pezzo di
miccia assieme a un timer. La miccia che doveva far
esplodere prima anche la bomba con il timer. Ma, come
ho già scritto il mese scorso su questa rivista,
se la miccia non è bruciata tutta come ha fatto
a far esplodere la seconda bomba e con questa anche
la prima?
Luciano Lanza
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Ma io il film di
Giordana non lo andrò a vedere
Ci ho pensato un po’ su e credo
proprio che quel film sulla strage non andrò a
vederlo. Non per partito preso e senza nessun intento
polemico, per carità: ritengo anch’io che
la memoria di quei tragici eventi, come si dice, debba
essere conservata e diffusa con tutti i mezzi possibili
e non credo affatto che l’interpretazione che, a
quanto ho letto e sentito, ne dà l’opera
di Marco Tullio Giordana sia talmente insostenibile che
sia meglio farne a meno. Certo, sul giudizio che il regista
propone su uno – forse il principale – dei
suoi protagonisti non sono affatto d’accordo e nulla
e nessuno mi farà mai cambiare idea sulle responsabilità
e le colpe di quel personaggio e poi, probabilmente, mi
farebbe una certa impressione vedere agire sullo schermo,
interpretate da pur bravissimi attori, persone che ho
conosciuto in carne e ossa e a cui sono stato a suo tempo
legato, ma il problema non è questo. Di interpretazioni
se ne sono avute tante ed è giusto che regista,
attori e sceneggiatori siano liberi di proporre, ciascuno
mettendo a frutto le proprie competenze, la propria. Quello
che proprio non riesco a credere, sinceramente, è
che una ricostruzione narrativa, sia pure la migliore
e la più accurata possibile, possa restituire l’effetto
che i fatti di quel dicembre ebbero su noi che li vivemmo,
possa riportare me e miei compagni ai nostri sentimenti
e alle nostre impressioni di allora.
Perché, vedete, quando scoppiarono le bombe, prima
ancora che si palesasse la montatura contro gli anarchici,
in quei brutti momenti di confusione e paura, capimmo
subito che la nostra storia era irrevocabilmente cambiata.
Qualcuno aveva gettato sul piatto un nuovo elemento –
i morti, appunto – che cambiava il senso delle nostre
speranze e vanificava di colpo gli sforzi di rinnovamento
in cui eravamo impegnati. Le nostre lotte, le lotte dei
giovani, degli studenti, degli operai, non si sarebbero
fermate lì, naturalmente, quei protagonisti avrebbero
scritto ancora molte pagine importanti, il movimento,
nonostante tutto, era ancora in piedi, ma la necessità
di fronteggiare la ferocia che il nemico aveva messo in
campo ne avrebbe inevitabilmente modificato la natura,
facendone qualcosa d’altro. Gli anni ‘60,
con le loro follie e le loro illusioni, erano proprio
finiti e il futuro sarebbe stato ben diverso da come ce
l’eravamo immaginato. Da allora in poi avremmo dovuto
fare i conti con le armi, con le bombe, con la paura,
con la prospettiva di altri morti e altri delitti. E di
altre stragi, naturalmente, ancora più sanguinose
e crudeli (piazza della Loggia, l’Italicus, la stazione
di Bologna...), ma scaturite tutte dalla stessa terribile
logica. Eravamo giunti a un discrimine e il mondo non
era più quello di prima.
Non reagimmo male, credo. Nessuno finora ha scritto la
storia di come poche migliaia di militanti, con la sola
forza delle loro idee, riuscirono – nella sostanza
– a far fallire il disegno eversivo che stava dietro
le bombe. Perché furono loro – fummo noi,
– prima ancora delle indagini dei magistrati e delle
inchieste dei giornalisti, a stracciare il copione che
si voleva imporre al paese, rifiutando di cedere alla
violenza (non solo a quella delle bombe, ma anche a quella
della repressione, a partire dalle prime manifestazioni
di quegli ultimi giorni di dicembre) e affermando a gran
voce la consapevolezza incrollabile che la strage era
di stato. Su questa affermazione, in effetti, si fonda
tutta la storia successiva, non solo la nostra, e abbiamo
tutte le ragioni per esserne ancor oggi orgogliosi.
Di tutto questo non credo che parli il film di Giordana.
E forse è meglio così, perché è
stato un processo contraddittorio, difficile e faticoso,
che personalmente (e non credo di essere il solo) non
mi sento né di rivivere né di rimettere
in discussione. Per questo, solo per questo, non andrò
a vederlo. Ma è un problema mio personale –
al massimo di generazione – e naturalmente chi la
pensa diversamente ci vada pure. Non gli potrà
che fare del bene.
Carlo Oliva |
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