Clement Duval
E in cuor mio, non vi ho più
perdonato
L’uomo sulla
sedia aveva il capo chino in avanti e le braccia tese all’indietro:
le manette gli impedivano di crollare di faccia sul pavimento.
Sembrava svenuto, ma quando entrò uno dei suoi aguzzini,
strinse i denti contraendo i muscoli della mascella. Il detective
era in maniche di camicia, il nodo della cravatta allentato,
il distintivo del Bureau of Investigations appeso alla cintura
dei pantaloni, la faccia stanca e la barba di due giorni:
gettò il mozzicone a terra e lo schiacciò con
la punta della scarpa. Il pavimento era sporco di cenere e
cicche, qualche cartaccia, e nell’aria aleggiava un
odore acre, di fumo stantio misto a sudore rancido.
Il detective andò ad aprire la finestra, poi si voltò
a guardare il prigioniero.
“ Sai una cosa, macaroni? Puzzi come una carogna”.
Si avvicinò, lo squadrò di sbieco, gli prese
i capelli con la mano destra e lo costrinse a sollevare il
viso. Lo osservò per qualche istante: profonde occhiaie
scure, lividi ed ecchimosi su fronte e tempie, tracce di sangue
ai lati della bocca, intorno alle narici, e persino sulle
orecchie c’erano grumi scuri.
Il detective si spostò al tavolo, afferrò un
volume rilegato, che usò per colpire il prigioniero
sulla nuca: non forte come in altre occasioni, solo una botta
leggera per cercare di ottenere la sua attenzione. Ma quello
si limitò a un debole sobbalzo, per poi tornare inerte
come prima, lo sguardo fisso sul pavimento.
“Oggi parliamo di questo”, disse il detective
mettendogli il libro sotto il naso. Lo aprì alla prima
pagina, e l’uomo, emettendo un sospiro, lesse mentalmente
l’intestazione, in italiano.
“È nella tua merdosa lingua, possiamo farlo tradurre
dalla prima all’ultima parola, ma non puoi farci perdere
altro tempo… Quindi, me lo racconti tu, cosa diamine
c’è scritto in questo libro e soprattutto chi
cazzo è questo Clemente Duval. Chiaro?”
Il prigioniero non mutò espressione e non rispose.
Il detective scorse rabbiosamente qualche pagina e gli sbatté
sulla faccia quella con la prefazione: era firmata L’Editore,
e sotto, tra parentesi, A. Salsedo.
“C’è il tuo nome, qui. Questa merda l’hai
scritta tu”.
Non riusciva a leggere, troppo forte il dolore alla testa,
e poi, gli occhi si chiudevano, per il bruciore e il gonfiore,
ma quella pagina la conosceva a memoria…
…Lungo l’erta di un calvario che non finisce
mai, che ha in vetta la ghigliottina e a ogni tappa l’aceto
e il fiele di tutti i tormenti, la passione quotidiana di
un iconoclasta che ha intraveduta la libertà, ne ha
colto i sorrisi e le promesse… sfidando impavido sdegni,
odii, vendette cieche e collere inesauste… esempio di
audacia e di tenacia, di coraggio e di fede…
Stavolta il colpo sferrato con il libro fu più forte,
intenzionalmente inferto per provocare dolore, sull’orecchio
da cui riprese a scendere un esile rivolo di sangue.
…Densa d’insegnamenti ogni pagina, degna di
esser meglio custodita che dalla dubbia fortuna del foglio
di battaglia… è di una promessa l’assoluzione
fedele, e il comune proposito di veder in volume raccolte
le Memorie di Clemente Duval, è entrato nella via dell’attesa
realizzazione, e a questo primo volume gli altri seguiranno
fino ad opera compiuta… se non mi manchino le forze…
Il pugno nello stomaco gli spezzò il respiro.
“Ascoltami bene, figlio di puttana: tu sei l’editore
di questo libro, e se in due mesi non hai ancora confessato
niente sui volantini che inneggiavano agli attentati che tu
e i tuoi compari avete commesso, ora mi spieghi almeno a che
ti serviva stampare questo”.
… se non mi manchino le forze…
|
Clèment
Duval |
Il “suiciodio” di Andrea Salsedo
L’uomo in stato di arresto si chiamava
Andrea Salsedo, tipografo, militante anarchico, nato a Pantelleria
nel 1881 ed emigrato a New York nel 1910. Si trovava lì
da ormai due mesi, sottoposto a interrogatori pesanti, pestaggi,
torture fisiche e psichiche. La stanza era al quattordicesimo
piano del Park Row Building, sull’isola di Manhattan,
sede del Bureau of Investigations, che solo una quindicina
di anni dopo sarebbe diventato FBI, giocando sulle iniziali
di Fidelity, Bravery, Integrity, ma allora, quel
2 maggio del 1920, era soltanto il Bureau, braccio operativo
del Dipartimento di Giustizia statunitense con funzioni di
polizia federale e al tempo stesso servizio quasi
segreto. A New York, il Bureau si stava impegnando a mettere
in pratica l’esortazione del “Washington Post”,
che in un articolo di qualche anno addietro, aveva detto senza
mezzi termini: “Tutti gli anarchici dovrebbero essere
messi a morte”.
Il 1920 era iniziato con una vasta operazione contro gli “immigrati
sovversivi”: nel solo gennaio erano state arrestate
quattromila persone ed espulsi tremila immigrati. Organizzazioni
sindacali di ispirazione anarchica vennero sciolte e messe
al bando, chiuse le redazioni di alcuni giornali e riviste,
persino diversi circoli sociali furono bollati come covi eversivi.
Gli anarchici italiani erano il bersaglio perseguito con maggiore
accanimento, scatenando così un’ondata di razzismo
contro i macaroni. E quando si verificarono alcuni attentati
dinamitardi, politici reazionari e tutori dell’ordine
si ritennero in dovere di non rispettare più neppure
le fondamentali regole di quella che si autodefiniva la più
grande democrazia del mondo, poco importa che le esplosioni
fossero il risultato dell’esasperazione o spesso provocazioni
architettate ad arte. In seguito alla deflagrazione di una
carica dinamitarda a Washington, in cui era morto soltanto
il solitario attentatore, vennero ritrovati alcuni volantini,
e ricorrendo alla delazione di un losco individuo che si vorrebbe
infiltrato negli ambienti anarchici, il Bureau nel febbraio
del 1920 perquisiva la tipografia Canzani a New York, diretta
da Andrea Salsedo, che era anche editore in proprio e stampava
la rivista anarcosindacalista “Il domani”, oltre
a vari libri, tra i quali, le memorie di un anarchico francese
deportato alla Guyana, Clément Duval…
Secondo gli agenti del Bureau, nella tipografia di Salsedo
avrebbero trovato alcuni caratteri “riconducibili”
ai volantini dell’attentatore. E il 25 febbraio Andrea
fu prelevato dalla sua abitazione in cui viveva con la moglie
Maria, senza un formale mandato di arresto, e condotto non
in un commissariato o in una prigione, ma al 21 di Park Row,
l’edifico in cui aveva la sede più o meno segreta
il Bureau, sorta di territorio extragiudiziale dove interrogare
i sospetti senza “intralci”.
Salsedo era già schedato per renitenza alla leva, quando
aveva deciso di rifugiarsi in Messico per evitare la chiamata
alle armi durante la Grande Guerra, assieme ad altri anarchici
residenti a New York tra i quali Luigi Galleani, Nicola Sacco
e Bartolomeo Vanzetti. Non era solo il pacifismo, a unirli
in quella scelta, ma la netta convinzione che il bagno si
sangue in Europa fosse un massacro fra poveracci usati come
carne da macello per gli interessi dei capitalisti. Dunque,
Salsedo e gli altri erano al centro del mirino da tempo, si
aspettava solo l’occasione propizia.
Sottoposto per giorni e notti a interrogatori spietati, Salsedo
non parlava. Certo, negava di avere a che fare con quell’esplosione
avvenuta così distante dalla sua città, ma rifiutava
di riferire i nomi – “l’organigramma”,
come sostenevano i suoi torturatori – dei militanti
anarchici italoamericani su tutto il territorio nazionale.
Gli fu negato un avvocato di fiducia e gliene assegnarono
uno che era in realtà un confidente del Bureau. E ben
presto il suo volto divenne una maschera tumefatta, non riusciva
a dormire per i lancinanti dolori alla testa, non reagiva
più ai colpi e non rispondeva. La rabbia dei detective
aumentava… E quando, trascorsi ormai oltre due mesi,
il Bureau si vide costretto a regolarizzare la sua posizione,
e quindi a rilasciarlo per mancanza di indizi, dopo che lo
stesso avvocato connivente aveva annunciato alla moglie che
entro pochi giorni sarebbe tornato libero, Andrea Salsedo
precipitò dal quattordicesimo piano sfracellandosi
sul marciapiede. “Suicidio”, fu la versione ufficiale
a cui nessuno dei suoi compagni avrebbe creduto neppure per
un istante. Tutti loro erano convinti che Andrea fosse stato
scaraventato dalla finestra per coprire la morte sotto tortura:
gli agenti del Bureau avevano tentato così di cancellare
le prove di un “omicidio di stato”, quando si
erano ritrovati tra le mani un cadavere che non reagiva più
ai colpi inferti. Bartolomeo Vanzetti e Nicola Sacco, assieme
ai compagni del loro giro, organizzarono subito un comizio
per denunciare pubblicamente l’omicidio di Salsedo,
manifestazione indetta per il 5 maggio.
Questo pezzo di carta è mio
Il “Nonno” si infilò a fatica le scarpe,
quel mattino, e uscì cercando di non strascicare i
piedi per non far rumore e svegliare la giovane coppia di
compagni che lo ospitava. L’artrite era un tormento
quotidiano, e camminare, un supplizio a ogni passo. Decise
di prendere un taxi, perché da Brooklyn, anche se la
distanza non era eccessiva, usare mezzi pubblici sarebbe stato
per lui arduo, senza qualcuno che lo aiutasse a salire e a
scendere. E quel giorno, non voleva nessuno con sé,
e tanto meno la pietà di chicchessia. Anche se così,
avrebbe speso quanto gli sarebbe servito a pagarsi il pranzo.
Giunse in Park Row che era ancora molto presto, il sole primaverile
appena spuntato, pochi i passanti e scarso il traffico. Si
fece lasciare a un centinaio di metri dall’edificio,
non voleva che il taxista vedesse dove era diretto di preciso,
e percorse faticosamente quell’ultimo tratto appoggiandosi
al bastone. Poi, si fermò davanti al lugubre palazzo,
e alzò lo sguardo al cielo. Individuò il quattordicesimo
piano, immaginò quale fosse la finestra tra le tante
della lunga fila. Ed ebbe un sussulto, come un singhiozzo.
Cos’hai provato, fratello, volando da lassù…
Forse nulla, se ti avevano già ucciso… Ma se
fossi stato ancora vivo, cosa avrai pensato, amico mio, compagno
di sventura, qualche attimo prima di raggiungere il selciato…
Che ti avevamo abbandonato? Che nessuno qui fuori lottava
per riaverti tra noi? Quanta solitudine, mon frère,
quanta solitudine…
E abbassò lo sguardo, tremando, fino a fissare la macchia
scura, che debordava dalle tracce di gesso che il giorno prima
lasciavano intuire vagamente la posizione del suo corpo sfracellato.
Un giovane nero si avvicinò con secchio e ramazza:
gettò l’acqua sul sangue rappreso, poi lo sfregò,
compiendo gesti meccanici, indifferenti. La schiuma sporca
scivolava verso il tombino, e il vecchio non riusciva a distogliere
lo sguardo. Finché un secondo addetto alla pulizia
del marciapiede non attirò la sua attenzione per lo
strano compito che stava assolvendo: frugava tra i cespugli
delle aiuole vicine e, ogni tanto, trovava dei fogli spiegazzati,
bagnati forse dall’irrigazione o dal lavaggio della
strada, e lo metteva in un sacco di juta. Sul sacco, c’erano
le iniziali “B.I.” E, particolare ancor più
singolare, a poca distanza da lui, un tipo in completo scuro,
cravatta e cappello poggiato indietro sulla nuca, ne seguiva
le mosse, come se sorvegliasse il suo lavoro. Dopo un po’,
il giovane inserviente nero si voltò verso quello che
sembrava un detective del Bureau e fece un’espressione
interrogativa, alzando le spalle e porgendogli il sacco: a
suo avviso, non c’era altro da recuperare. Il detective
prese il sacco e lo congedò con un cenno sbrigativo.
Poi, andò verso l’ingresso del Park Row Building.
Passando all’altezza del vecchio, lo notò. Li
separava una ventina di metri. Il vecchio sostenne lo sguardo.
E il detective, fissando quegli occhi chiari, gelidi, che
sembravano scrutarlo dentro, provò una inspiegabile
inquietudine. Quello stesso sguardo, decenni addietro, aveva
costretto aguzzini ben più crudeli e spietati di lui
a mollare la preda, a rinunciare allo scontro sapendo che
avrebbero potuto avere la peggio…
Il detective, nella baldanza dei suoi trent’anni o forse
meno, forte del proprio ruolo, fece il gesto di andare verso
il vecchio, che restò immobile e cupo come la statua
di un eroe morto. Forse voleva chiedergli chi fosse e cosa
ci facesse lì, magari lo avrebbe costretto a qualificarsi,
ma fu fermato da un collega spuntato sulla soglia, che lo
chiamò dentro indicando il sacco che aveva in mano.
Il detective rimase indeciso per un istante, gettò
un’ultima occhiata a quel vecchio rudere con il bastone,
e infine si voltò e rientrò nella sede del Bureau
of Investigations.
Assassins, mormorò il vecchio tra i denti, nella sua
lingua dimenticata da tempo, o forse lo pensò soltanto.
Il giovane nero, intanto, era andato dal collega con il secchio
e la ramazza. Quest’ultimo gli disse: “Ne hai
trovate ancora, di quelle pagine?”
Il primo annuì, rispondendo: “Sì, ma erano
le ultime. Che brutta faccenda, fratello. Se penso alla fine
che ha fatto quel poveraccio…”
“Già. Mi sono scordato di darti anche questa”,
disse il secondo, tirando fuori dalla tasca un foglio stropicciato:
la pagina iniziale di un libro, come poté vedere da
poca distanza il vecchio. Che si avvicinò e tese la
mano, con un gesto che voleva essere garbato, quasi di supplica,
ma ai due parve imperioso, un ordine perentorio. Rimasero
a guardarlo perplessi. E ancora una volta, gli occhi in quel
volto percorso da rughe profonde, quel bagliore metallico
che incuteva rispetto, mise in imbarazzo i giovani inservienti.
“Per favore”, mormorò il vecchio, sempre
con la mano tesa.
“Vuoi… vuoi questo pezzo di carta? E che te ne
fai?”
“È mio”.
Il nero con la pagina in mano non si soffermò sull’assurdità
di quell’affermazione. Poi, con uno scatto, quasi si
liberasse di un peso, mise la pagina in mano al vecchio.
“Oh, se proprio ci tieni, prendi! Ma ti do un consiglio:
togliti dai piedi, prima che quelli là dentro vengano
a chiederti perché diamine te ne vai in giro a ficcanasare
da queste parti”.
Il vecchio salutò con un cenno di inchino solenne,
e si allontanò con quei suoi passi incerti, dolenti,
trattenendo un gemito a ogni movimento, a ogni fitta nelle
sue ossa deformate e dei suoi muscoli rattrappiti.
Poco più in là, fermandosi a riprendere fiato,
appoggiandosi al bastone con la mano sinistra, usò
la destra per spianare il pezzo di carta sul petto. Infine,
guardò quella pagina staccatasi assieme a tante altre
nell’impatto sul selciato, notò una traccia di
sangue in un angolo, e pensò: “Andrea teneva
il mio libro stretto a sé, durante quel volo. Ma perché?
Perché?”
Era la prima pagina, l’intestazione, in italiano: Memorie
autobiografiche di Clemente Duval.
Sante Pollastro
Il ciclista con la pistola
Il 15 dicembre 1919 alla stazione di Reggio Emilia scende
un giovane con una piccola valigia in mano. Ha vent’anni,
una chioma di capelli neri e un bel volto su cui spicca un
leggero strabismo all’occhio sinistro che rende un po’
indisponente il suo sguardo svagato, è piuttosto alto
e agile di movimenti, ha l’aspetto fine e una certa
innata eleganza nonostante il vestiario dimesso. Esce dalla
stazione, guarda il cielo plumbeo e pensa: “Meno male
che non piove”. Posa la valigia a terra, e comincia
a spogliarsi. Cappotto, giacca, pantaloni, indumenti un po’
lisi ma decorosi, che ripiega con cura e mette nella valigia.
Qualcuno si ferma a osservarlo, e quando toglie anche la camicia
e resta in mutande, gli sguardi dei presenti da perplessi
diventano stupefatti: Ma el matt, li lò?
E dopo aver riposto le scarpe e i calzini, si toglie anche
le mutande. Prende la valigia e si avvia a passo lento e disinvolto
verso il centro. Completamente nudo. Le donne e gli uomini
che incrocia restano allibiti. C’è chi pensa
più al freddo che fa, cul matt là al ciaparà
so na polmonite, puvrein, ma anche chi nota la muscolatura
perfetta, polpacci robusti e cosce snelle, da buon ciclista.
Lo stupore, in molti passanti, produce una strana indifferenza:
il giovane è talmente tranquillo, cammina e guarda
dritto davanti a sé come se fosse perfettamente a suo
agio, che nessuno si ferma. Giusto qualche occhiata da dietro,
quando è ormai passato oltre.
Un ferroviere ha avvertito gli agenti di servizio in stazione.
Non ci vuole molto per raggiungerlo. Lo superano e gli si
parano davanti: non sanno bene cosa fare, sono indecisi se
afferrarlo di peso o provare a chiedere che diamine gli passi
per la testa. E non lo toccano. Lui si ferma, sorride, e non
dice niente. “Giovanotto, ti senti bene? Guarda che
è vilipendio al pudore…” Sorride, alza
un sopracciglio e fa un’espressione enigmatica, quasi
volesse dire che non dipende da lui.
Uno dei tre agenti compie finalmente il gesto: lo prende per
un braccio. Ma non è una stretta, appena un contatto
timido, perché un conto è avere a che fare con
i delinquenti, tutt’altra storia è trattare coi
matti. Il giovane guarda prima la mano sul braccio, poi alza
gli occhi al cielo e respira a fondo. Neanche fosse in alta
montagna in piena estate.
Arriva l’ambulanza, un po’ scassata, residuato
della Grande guerra. Gli infermieri gli mettono una coperta
sulle spalle. Li segue docilmente.
Incompatibile con la vita militare
In stato di fermo, scoprono che si chiama Sante Pollastro
e ha una fedina penale fitta di denunce e arresti, il primo
risale a quando aveva appena tredici anni, e a quindici era
già considerato “recidivo”. La questura
lo ha consegnato alle cure dell’ospedale, ma ora, appurato
di chi si tratta, la polizia non ha dubbi: con questa sceneggiata
del nudismo nel centro della città emiliana, sta provando
a farla franca perché è un disertore, sulla
sua testa pende una condanna a quindici anni emessa dal tribunale
di guerra di Alessandria. Certo, la guerra è finita
da oltre un anno, ma lo stato pretende che vada comunque sotto
le armi. Ecco perché si trovava su quel convoglio militare,
da cui è sceso durante una sosta alla stazione di Reggio
Emilia. Non è pazzo, decretano i medici impietosi dell’ospedale,
dopo aver ricevuto una lunga velina dalla Questura. Con gli
schiavettoni ai polsi, lo rispediscono alla caserma di Torino.
Poi, il tribunale militare accetta di considerare come una
forma di demenza l’avversione di Pollastri Santo o Pollastro
Sante – già era difficile stabilire come davvero
si chiamasse – alla vita castrense. Forse quella corte
marziale era stanca delle innumerevoli fucilazioni di soldati
renitenti durante la guerra, meglio un “mezzo pazzo”
che l’ennesimo lavativo in una cella, che se la brigassero
gli psichiatri, i generali avevano altre incombenze a cui
far fronte. E lo rinchiusero nel manicomio di Collegno, a
fare lo smemorato come tanti altri, in largo anticipo sul
famoso caso del 1926.
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Pino
Cacucci |
Una rabbia sorda
In effetti lo avevano iscritto all’anagrafe come Santo
Decimo Pollastri, nato a Novi Ligure il 14 agosto 1899, figlio
di Giuseppina Cabella e di Vincenzo, sellaio. Un padre che
prima abbandona la famiglia e poi muore di pellagra quando
lui ha solo sette anni. Intanto, tutti lo chiamano Sante,
e quando qualcuno storpia il cognome in Pollastro, non lo
corregge, anzi, presto comincerà a farlo suo, quando
gli chiederanno le generalità ai primi fermi dei carabinieri.
Non era ancora orfano che già lavorava in una fornace
di mattoni. A casa c’era da sfamare la sorellina, Carmelina,
tre anni meno di lui: Santino la adorava, non sopportava di
vederla patire la penuria che stava scivolando nella miseria
nera, e così, l’infanzia se ne sarebbe andata
via presto, tra un impasto e l’altro e i mattoni da
caricare in spalla.
Quel sapore amaro che sente sempre in bocca non è dovuto
al fumo e alla polvere rossastra. È rabbia sorda: per
i padroni che gli danno un salario indegno, per i capoccia
che sbraitano e rifilano scoppole, per i “signori”
che se la spassano mentre i poveracci ingoiano umiliazioni.
E la gente del borgo che si accalca davanti alla caserma del
44° Reggimento in attesa di una mestolata di zuppa, gli
avanzi della mensa del Regio Esercito, lui la guarda non con
commiserazione ma con rancore: a che serve sgobbare dodici
ore al giorno se la miseria non te la scrolli mai di dosso…
Rubare è giusto, anzi doveroso, per Santèin
che a undici anni non si sente più un bambino. Ha un
pugno di amici fidati, coetanei avvezzi alla vita di strada.
Lì vicino c’è lo scalo ferroviario di
San Bovo, con tutti quei treni merci carichi di ogni cosa.
Carbone, tanto per cominciare, ché a Novi d’inverno
fa un freddo cane. Sante e i suoi imparano presto a scardinare
i portelloni. E una volta riempita la carbonaia di casa, va
a distribuirne con una carriola alla gente miseranda del borgo.
Lui, Sante Pollastro, non aspetta l’elemosina di una
scodella di zuppa davanti alla caserma: va a prendersi ciò
che occorre a sopravvivere dove ce n’è in abbondanza.
Si ingegna a farsi un’imbragatura per appendersi ai
vagoni provenienti dal porto di Genova e diretti in Svizzera,
che a Novi rallentavano permettendo a lui e i suoi di saltare
sui predellini, agganciarsi ai portelloni e aprirli con i
piedi di porco. I ragazzini della banda lo considerano ormai
un capo, e lo soprannominano Rangugnìn, rissoso, attaccabrighe,
perché tiene testa a chiunque. Ma non è spavaldo,
men che mai un prepotente. Al contrario, nel borgo lascerà
di sé un ricordo di ragazzino dal cuore buono e generoso,
sempre disponibile quando c’è da dare una mano
a qualcuno. Insomma, Santèin è precoce, nell’individuare
amici e nemici. Questi ultimi, sono i signori ben pasciuti
e gli sbirri che li difendono.
Gli “sbirri” non tardano a piombargli addosso.
Il 25 maggio 1912 lo acciuffano dopo che ha “svaligiato”
un vagone di mattonelle per la stufa, gliene trovano solo
quattro, ma bastano per buscarsi quindici giorni di gattabuia.
Santino non lo sa, ma appena un mese prima è morto
Jules Bonnot, l’anarchico che inventò la rapina
in banca in automobile, crivellato di pallottole dopo un lungo
assedio in una cascina alle porte di Parigi. Più avanti,
la figura di Bonnot sarà per lui un costante riferimento.
In quanto alle automobili, preferirà sempre la bicicletta,
prima per tentare una improbabile carriera di corridore, poi
per fuggire. E già allora, da ragazzino, Costante Girardengo
è un idolo. Il campione di Novi Ligure ha sei anni
più di lui, comincia a mietere vittorie mentre Santino
va e viene dalla prigione – altri quindici giorni, poi
trenta, e sessanta… – e non possono certo conoscersi
e frequentarsi, distanti come sono le loro condizioni e l’età
che li separa, e anche se Novi è piccola, uno è
già un campione, l’altro il futuro bandito.
Passeggiata nudista
Sante adolescente ha una Bianchi da corsa. Non l’ha
rubata, ma è grazie ai furti che ha potuto comprarla.
Sogna di eguagliare le imprese di Girardengo, eppure, nelle
gare di provincia non arriva mai tra i primi. La bicicletta
resta una passione, nonché il mezzo per sfuggire alle
guardie: non a caso Lombroso scriveva già nel 1900
un saggio dal titolo “Il ciclismo nel delitto”,
definendo quel mezzo di locomozione come un pericoloso strumento
generatore di delinquenza, “la passione del pedalare
trascina alla truffa, al furto, alla grassazione”. Ma
è con la pistola che Sante eccelle: nella villa di
un conte che ha svaligiato, si è portato via una pistola
francese da tiro a segno, una Flobert di piccolo calibro,
con cui ben presto fa la prodezza di centrare una moneta a
venti metri. Poi, si esercita a sparare pedalando: lampioni,
isolatori di corrente, addirittura i fili. Chiude l’occhio
strabico e prende la mira al volo con quello destro: infallibile.
Il borgo dove vive protegge i ladri per solidarietà
proletaria e coltiva ideali socialisti e anarchici. Sante
prende a frequentare un vecchio anarchico che sulle prime
lo tratta in modo scorbutico, un tipo un po’ misantropo
che chiamano Umèto e se ne sta per conto suo in una
decrepita bicocca. Sante ha sete di sapere, l’ideale
è ancora vago e Umèto gli parla di Gaetano Bresci,
il vendicatore venuto dagli Stati Uniti per giustiziare Umberto
I, il re che aveva decorato il generale Bava Beccaris per
la bella impresa di aprire il fuoco con i cannoni sui milanesi
che chiedevano pane, un centinaio i morti e mezzo migliaio
i feriti. E gli fa leggere pubblicazioni anarchiche, dove
Sante nota spesso gli articoli di un certo Renzo Novatore,
singolare figura di pensatore passato all’azione, poeta
e prosatore di invettive individualiste intrise di futurismo,
profondo conoscitore di Max Stirner, estimatore di Wilde e
Baudelaire, Nietzsche e Schopenauer. Non può immaginarlo,
in quelle giornate trascorse a parlare di anarchia con Umèto,
che di lì a pochi anni lui e Novatore avrebbero legato
tragicamente i propri destini.
E poi, c’è Girardengo… che nel 1918 vince
la Milano-Sanremo e l’anno successivo addirittura il
Giro d’Italia, maglia rosa dalla prima all’ultima
tappa. Intanto c’è stata la guerra, Sante Pollastro
non si è presentato alla chiamata alle armi, “ragazzo
del ‘99”, convinto che quella macelleria tra poveracci
fosse un crimine vile e non una parata di eroi, e comunque,
ormai aveva messo assieme una banda di ladri esperti scassinatori,
continuava a distribuire refurtiva ai poveri del borgo, facendosi
benvolere da quelli e odiare dalle guardie del re.
Fatto curioso, anche Girardengo aveva rischiato una condanna
per diserzione. Arruolato nei bersaglieri, quando si era vista
negare una licenza per correre la gara del campionato italiano
nell’alessandrino, se l’era svignata: al traguardo
di Spinetta Marengo aveva battuto tutti in volata, poi, tornato
in caserma a Verona, si era beccato quindici giorni di cella
di rigore più un mese di carcere. Niente corte marziale,
grazie a un medico fanatico di ciclismo che gli aveva diagnosticato
una malattia inesistente per tenerlo al riparo da carcere
e trincee.
Strani anni, quelli della guerra, quando Sante Pollastro doveva
essere ricercato per diserzione eppure girava tranquillo per
le osterie di Novi, dove Girardengo, giovanotto semplice e
alla buona, andava a bere mezzo bicchiere con i compaesani.
Fu così che un comune amico, Cavenna, li presentò.
Sante ammirava Costante, e il campione sapeva che l’altro
pedalava forte, e lo invitò ad allenarsi nella sua
squadra. Ma era troppo tardi. Non per l’età,
che Sante era più giovane di Costante, ma per le scelte
irreversibili ormai fatte. E mentre Girardengo vinceva anche
il Giro della Lombardia, Pollastro inscenava la passeggiata
nudista a Reggio Emilia.