MEDITERRANEO.
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In alto, sul monte Srd
di Melita Richter
Dubrovnik. Il Centro Documenta,
i processi ai boia degli anni ‘90, il negazionismo,
le donne.
Pochi giorni dopo aver visto
il filmato “Il colore del vento” mi è
capitato di trovarmi a Dubrovnik, città-gioiello
della costa meridionale dell'Adriatico, l'antica città
mediterranea che ha sempre celebrato la propria indipendenza,
prima ancora della ricchezza e della bellezza che la distinguono
e la rendono unica al mondo. Mi sono trovata in alto sul
monte Srd, il monte che sovrasta la città. Da qui
si apre una splendida vista sulle sue mura, sui bastioni,
sulle torri di difesa, sui tetti delle case patrizie e quelle
più umili, sui campanili e corti e monasteri, sulla sinagoga,
sui campielli e sulle piazzette, sulle vie strette e sul
ritto e fiero Stradone/Stradun, sulle fontane, sui monumenti
e ripide scalinate… Visione straordinaria. Basta poi
spostare lo sguardo e la vista spazia sulla costa frastagliata,
sull'Isola di Locrum e le Elafiti con una corona di isolotti
che si perdono lontani all'orizzonte. Ma la struggente bellezza
della natura viene annebbiata dalla memoria di fosche immagini
di guerra, di una follia incomprensibile, di un indicibile
urbicidio. Le immagini dell'ormai lontano, mai dimenticato
dicembre del 1991, quando da queste alture l'intera città
venne esposta all'assedio e alla folle voglia di distruzione.
Perché di altro non si tratta che di un massacro, che come
ogni altro massacro, rimane indicibile, ancor più di fronte
a un'urbanità gioiello che per la sua bellezza e
la secolare storia stupisce ogni visitatore. Su quel monte
alto e roccioso esposto ai venti di ogni sorte sotto il
quale la città si offre come sul palmo di una mano
e dal quale i movimenti delle persone sono chiaramente percettibili,
mi si è rivelato chiaro il significato della parola
urbicidio: “una opposizione manifesta e violenta
ai più alti valori della civiltà”. Il termine
è stato coniato da Bogdan Bogdanovic (1),
grande architetto e urbanista jugoslavo che per sfuggire
all'arrogante nazionalismo serbo ha dovuto riparare a Vienna,
dove è morto in esilio nel giugno 2010.
Ad ogni essere che potrebbe sparare su questa città
augurandosi la sua morte e scaricare centinaia di migliaia
di granate e di cannonate sul delicato tessuto urbano e
sulla sua anima cosmopolita, sullo spirito di convivenza,
non potrebbe essere riservato un altro aggettivo che “barbaro”,
“incivile” “non-umano”. Di questa
città che, tra le altre, appare nel filmato “Il
colore del vento”, parlano i protagonisti dell'intervista
attraverso le cui testimonianze ci arriva, ancora una volta,
l'eco dei tempi bui della guerra che ha devastato l'essere
della Jugoslavia, e allo stesso tempo, segnato l'ultimo
triste decennio del secolo scorso.
Nessuno avrebbe potuto prevedere che sul suolo europeo,
alla fine del secolo, gli uomini e le donne, e anche i bambini,
sarebbero di nuovo stati stipati negli scantinati tremanti
e impaurati per la propria sopravvivenza si chiedevano se
il riparo sarebbe sufficientemente forte a contrastare la
ferocia che stava impazzando fuori, sui tetti della città
e sulla sua integrità. E alla fine di quel secolo
horribilis, rintanati come topi avrebbero annotato
i propri pensieri su fogli di carta sotto la flebile luce
di candela, tagliati fuori dal mondo e da una distante e
disattenta Europa.
***
I criminali di guerra raccontano le loro verità.
Come ha fatto Miloševic davanti ai giudici dell'Aia,
come lo sta facendo il boia Karadic che chiede la
proroga dell'udienza per poter documentare meglio la propria
difesa, o un dimesso e “malato” Mladic, carnefice
di Srebrenica, e altri innumerevoli “piccoli pesci”,
soldati del crimine organizzato, lontani da ogni pentimento,
spesso liberi e volonterosi di raccontare le loro verità.
Perché, ognuno ha la propria verità. Questa è
una cosa preoccupante, in quanto si vuole con una verità
parziale negare i fatti, negare quanto è successo.
Con la negazione dei fatti – che, secondo la denuncia
dall'avvocato belgradese Srdja Popovic, ha investito la
società serba post-miloseviciana –, si vuole
arrivare alla relativizzazione dei crimini di guerra,
alla loro de-etnicizzazione. Con il primo termine si vuole
sminuire l'atto criminoso secondo il quale “tutti
in guerra commettono crimini”, oppure si pone la questione:
“E loro? Cosa hanno fatto loro a noi?”,
intendendo “gli altri”, gli appartenenti a un
gruppo etnico diverso, per cui un crimine vale l'altro e
addirittura lo si giustifica come atto di difesa. La de-etnicizzazione
del crimine è la tendenza a non vedere che i crimini
commessi sono stati eseguiti con lo scopo della pulizia
etnica e proprio perché l'altro apparteneva a un'etnia
diversa, o si distingueva per un'appartenenza non
desiderata. Non si tratta quindi di un crimine,
ma di quel crimine, commesso in nome della propria
identità etnica nel cui nome è lecito annientare
l'Altro (2).
Sul crimine si tace e, come ha affermato nel lontano 2002
Latinka Perovic, figura di spicco dell'allora dissidenza
politica belgradese, “il crimine non viene considerato
tale, ma lo strumento di una politica che è stata
sconfitta nei fatti, non nelle menti. Non bisogna ingannarsi:
quanto è avvenuto rappresenta una profonda regressione
delle coscienze” (3).
I fatti narrati e trasmessi alle nuove generazioni, diventati
tessuto fondante della storia degli Stati-nazione e il vissuto
dei singoli, delle persone, delle famiglie dei dispersi
e di quelle che hanno visto le uccisioni dei propri familiari…
a volte, questi fatti non combaciano.
Per confrontarsi con simili tematiche e per cercare di documentare,
utilizzando diversi strumenti, le violenze e i crimini di
guerra commessi dal 1991 ad oggi in Croazia e approfondire
il dialogo pubblico sul tema del confronto con il passato,
a Zagabria è nato nel 2004 il Centro Documenta, alla
cui guida si trova Vesna Teršelic, donna eccezionale,
già insignita nel 1998, assieme alla dottoressa Katarina
Kruhonja, quest'ultima direttrice del Centro per la pace,
non violenza e diritti umani di Osijek, con il prestigioso
riconoscimento internazionale per meriti di una vita dedicata
alla pace – The Right Livelihood Award.
Ci preme subito sottolineare che il Centro Documenta non
ha mai avuto un anima monoculturale e “etnica”.
Documenta è nato su iniziativa di quattro organizzazioni:
il Comitato di Helsinki per i diritti umani, il Comitato
cittadino per i diritti umani e due organizzazioni pacifiste:
il Centro per la pace di Osijek e il Centro di studi per
la pace di Zagabria. Oltre alle associazioni fondatrici
della rete croata, Documenta ha firmato nel 2004 il Protocollo
sulla cooperazione regionale con il Centro per il diritto
umanitario di Belgrado (Humanitarian Low Center, Belgrade)
diretto da Nataša Kandic e con il Centro di documentazione
e ricerca di Sarajevo, diretto da Mirsad Tokaca. Insieme
a più di 200 organizzazioni è stata fondata la Coalizione
regionale per la commissione sulla verità e la ricerca
della verità sui crimini di guerra e sulla violazione
dei diritti umani avvenuti sul territorio dell'ex Jugoslavia.
La Coalizione è stata firmata a Priština, Kosovo,
nell'ottobre del 2008.
Ritengo importanti questi dati “tecnici” che
ci indicano l'esistenza di una rete allargata e transfrontaliera
che consente ai ricercatori, storici e attivisti delle ONG
di cercare di completare il mosaico degli avvenimenti criminosi
avvenuti durante la guerra. Tali eventi erano ispirati dall'aberrante
ideologia della pulizia etnica. Si intende ricomporre un
quadro più completo e reale, senza esagerazioni numeriche
e il consueto “balletto dei numeri” delle vittime
e il loro utilizzo nei progetti ideologici nazionali. Tipo:
più morti ha la mia parte, maggiori diritti vanno
alla mia componente nazionale, etnica e/o politica.
Per poter realizzare la rete transnazionale si sono dovuti
predisporre tre sistemi informatici (croato, serbo e bosniaco),
indipendenti e complementari, al fine di avviare la raccolta
di documentazione sulle persone scomparse, sui massacri,
sulle uccisioni delle vittime civili e militari e sulle
circostanze delle loro morti.
In diverse occasioni a Vesna Teršelic è stato
chiesto se non fosse meglio lasciar perdere le memorie di
sangue e soprusi, memorie della guerra, e guardare avanti.
Ecco quali sono state le sue risposte:
Credo che senza il confronto con il passato non possiamo
spezzare il cerchio della violenza. Ogni vittima ha un
nome. Le famiglie degli uccisi hanno bisogno di sapere
che riconosciamo la loro sofferenza e rimpiangiamo la
morte dei loro famigliari. I criminali di guerra devono
essere incriminati, perseguiti. Possiamo sperare nel processo
di ricupero, di ripresa, di guarigione, solo se i sopravvissuti
ricevono il supporto materiale e psicologico e se i nomi
delle vittime sono iscritti sui memoriali dedicati a tutte
le vittime quale segno della nostra comune riflessione
sulle uccisioni e sul lutto.
(…) è molto importante verificare i nomi
di tutte le persone, soprattutto per rispetto di coloro
che non ci sono più. Si deve riconoscere la sofferenza
di ogni persona che è stata uccisa e, se in qualche
modo è possibile, scrivere il nome in un posto
che resti nel tempo, un libro o un monumento. è
importante per la famiglia, per la comunità della
persona uccisa e per la società intera, onde evitare
nuove manipolazioni. Questo è stato già
fatto con il numero delle vittime della Seconda guerra
mondiale eppure si continua a manipolare il numero di
vittime degli assassinii per vendetta dopo quel conflitto
(4).
Istaurare una “verità dei fatti” è
lavoro arduo, le interpretazioni sono e rimangono molteplici,
diverse.
Il confronto con il passato si dimostra essere un processo
sociale lungo. Si deve prestare attenzione e ascolto ai
gruppi che sostengono diversi sistemi di valori e raccogliere
le differenti posizioni: una volta confermati i fatti, non
dovrebbero più – si spera – nascere le diatribe
e i litigi su quanti sono stati uccisi, chi è stato
ucciso, ecc. Ma la speranza che nutrono i ricercatori coinvolti
nell'immenso lavoro di Documenta è di riuscire a
costruire un nuovo spazio di confronto. Per questo i nomi
delle vittime e le memorie raccolte dai sopravvissuti sono
importanti. I nomi parlano. Quando invece si parla genericamente
delle vittime di una o dell'altra, o di una terza parte,
si inchiodano le persone alle identità etniche collettive
e a queste si da una grande valenza ideologica. Allora la
persona scompare, come dirà Elvira Mujcic nel suo
libro di testimonianze. Elvira, all'epoca una ragazzina
di soli 12 anni, sopravvissuta al genocidio di Srebrenica:
“Si parla del genocidio, sparisce praticamente il
mio dolore, il mio cosiddetto ‘caso'; spariscono delle
perdite personali, quelle della famiglia.”
Quando questo avviene, quando si parla di grandi numeri
di vittime, il meno che si possa fare è di dare loro
un nome, un volto, riconoscere la loro soggettività
e fare questi monumenti, dei memoriali per il mantenimento
della memoria della loro esistenza.
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Guerra
in Jugoslavia 1991-1995 profughi bosniaci, immagine
di repertorio |
Una delle richieste delle Donne in Nero di Belgrado, noto
movimento antimilitarista e femminista che dall'inizio del
conflitto del 1991 aveva espresso il proprio profondo rifiuto
della politica della guerra del regime serbo, richiesta
ossessivamente ripetuta, consisteva prima di tutto nell'attivare
la rottura con il consenso nazionale sull'argomento della
“guerra giusta è difensiva”, l'interpretazione
diffusa nella società serba. In seguito si trattava
di “demolire gli schemi culturali, ideologici e i
valori che hanno generato la guerra, che l'hanno giustificata
e che ancora giustificano i crimini di guerra” (5).
Tra gli obbiettivi proclamati come fondamenta etiche del
loro movimento, le DiN individuano nella società
civile un ruolo indispensabile nel superamento del passato
criminale. La stessa società civile, secondo l'approccio
delle DiN, detiene “l'obbligo e la responsabilità
di esercitare pressione permanente sulle istituzioni statali
affinché si denuncino i crimini e si puniscono tutti gli
organizzatori, i comandanti e gli esecutori dei crimini
di guerra” (6).
Un lavoro arduo, visto che tuttora la gran parte della società
serba mantiene l'orientamento negazionista per quanto è
stato fatto a nome del popolo serbo agli appartenenti ad
altri popoli, fino a ieri popoli fraterni, i co-cittadini
di diverse appartenenze etniche e religiose. Ancora nel
2002, prima della sua morte prematura, la femminista Zarana
Papic denunciava l'indifferenza e la tollerata distruzione
dell'Altro corpo come parti costituenti della cultura
della normalità della società serba. La
Papic ha descritto la costruzione delle fonti di un “nuovo
trauma serbo” che annienta tutti gli altri traumi
e non permette che il crimine compiuto in nome della propria
nazione venga riconosciuto (7).
Il meccanismo non è proprio soltanto della società
serba; esso agisce con le stesse matrici anche in Croazia,
in Bosnia ed Erzegovina, in Kosovo … I criminali di
guerra ricercati dal Tribunale dell'Aia (Tribunale penale
per i crimini in ex-Jugoslavia), vengono spesso considerati
eroi nazionali, la loro cattura viene ostacolata e contrastata
dall'opinione pubblica. Nella notizia della cattura del
generale croato Gotovina, accusato di crimini di guerra
compiuti sulla popolazione civile serba durante l'azione
militare “Tempesta”, in una civilissima Spalato,
città mediterranea e cosmopolita, sono uscite in
piazza a protestare 100.000 persone! Oggi questo numero
non sarebbe più tale, sarebbe sensibilmente diminuito; oggi
la percentuale delle persone che ritengono che ogni crimine,
indipendentemente della sua matrice etnica debba essere
punito, è in aumento. Ma lo scoraggiamento è
ancora diffuso, in modo particolare in Bosnia dove le vittime,
spesso donne, tuttora incrociano sulle strade dei villaggi
o delle città, gli esecutori delle uccisioni dei
propri cari o i propri seviziatori, stupratori… (8)
Lo testimonia anche Elvira nel suo libro:
Si crede che basti lasciar passare del tempo, che
so, dieci anni, e poi ricominciare tutto come prima. Pochi
(gente valorosa) si sono presi la briga di portare un
po' di giustizia in Bosnia in corso di questi anni. Non
è possibile costruire la pace mentre abbassi la
testa davanti al carnefice di tuo padre. Si costruisce
solo timore, che provoca silenzioso rancore, che piano
si accumula fino a diventare odio puro e poi… Poi
i Balcani tornano a essere più sangue e meno miele. (9)
Il ruolo della giustizia si pone oggi come un grande tema
politico, sociale ed etico e come premessa di ogni percorso
di riconciliazione. La Teršelic ha detto:
Il ruolo della giustizia è cruciale e molto
significativo nel percorso di dialogo e purtroppo sappiamo
già che le istituzioni giudiziarie non potranno
sollevare accuse o condurre indagini contro tutti i possibili
criminali. Il TPI dell'Aia ha emanato un totale di 141
accuse e l'anno scorso in Croazia sono stati avviati solo
23 processi. Se consideriamo che in Croazia ci sono stati
tra i 10 e i 15.000 morti, in Bosnia Erzegovina circa
100.000, è chiaro che non si riuscirà ad
indagare su tutti i crimini. (10)
Consapevoli delle stesse difficoltà (11),
Donne in Nero e alcuni giuristi dei movimenti pacifisti
serbi hanno promosso il concetto della giustizia transizionale,
che include non soltanto sanzioni penali, ma anche quelle
non penali in cui la società civile gioca un ruolo
principale e si assume responsabilità sostanziale.
Secondo la definizione di Nenad Dimitrijevic:
“La giustizia transizionale è un insieme
di istituzioni, processi, misure e decisioni morali, legali,
politiche e sociali che vengono stabiliti e implementati
nel processo di transizione democratica, cioè nel
passaggio dai regimi dittatoriali verso la democrazia.”
(12)
Questo prevede l'attivazione di tutte le forme di responsabilità:
individuale, collettiva, morale e politica, tutti i meccanismi
per provvedere al risarcimento e alla riabilitazione delle
vittime.
Sulla responsabilità individuale e sul coraggio esemplare
nei tempi più tetri e vergognosi come quelli di guerra vorrei
riportare un ulteriore esempio.
Nel libro che ho curato assieme a Maria Bacchi abbiamo pubblicato
l'esperienza di una donna portatrice di profondi principi
etici ed umanitari, abbiamo reso pubblica una parte del
suo diario dal Kosovo. Si tratta di Nataša Kandic,
direttrice del Centro di diritto umanitario di Belgrado,
una delle poche persone che durante le fasi più accese della
repressione scatenata dal regime serbo contro la popolazione
albanese (marzo del 1999), inferocito e ferito dai bombardamenti
NATO, era partita dalla capitale serba diretta in Kosovo
a “tirare fuori” i suoi collaboratori albanesi
e agevolare il loro viaggio verso luoghi dove potessero
sentirsi più protetti e liberi. Con un costante rischio
per la loro e per la propria vita, ha viaggiato in lungo
e in largo in quelle terre messe a ferro e fuoco, annotando
accuratamente quanto stava accadendo, tutto quanto lei poteva
osservare direttamente: le case sventrate, bruciate, il
panico della popolazione perseguitata, il vagare della gente,
le loro sofferenze, le narrazioni, le umiliazioni subite,
i crimini dei quali sono stati testimoni forzati, le morti
inflitte ai loro familiari dalle incursioni di uomini in
uniforme, mascherati, oppure da quelli a volto scoperto,
spavaldi e tuttora non giudicati.
Vorrei ricordare che nello stesso periodo che si preannunciava
infernale, le forze della delegazione OCSE, circa 1600 osservatori,
sono tutte state ritirate dal territorio del Kosovo, come
del resto i giornalisti stranieri. Era un segnale certo
che i bombardamenti NATO sarebbero stati imminenti. E così,
se ne era andata, l'unica forza internazionale che fungeva
da protezione della popolazione civile locale e che aveva
il compito di vigilare su quanto stava succedendo per prevenire
le violazioni dei diritti umani. La rappresaglia serba scatenata
sulla popolazione albanese come punizione per aver richiesto
l'intervento NATO, non sarebbe stata seguita né documentata
da nessun organismo internazionale. è stata Nataša
Kandic, autorevole pacifista, ma anche donna serba, a raccogliere
frammenti di storie raccapriccianti, che raccontano nei
dettagli come avvenivano i crimini, chi li commetteva e
chi li subiva. Nomi e cognomi dei morti, assassinati, sgozzati.
Intere famiglie, giovani, vecchi, indistintamente. Il dossier
del Centro di diritto umanitario di Belgrado è inverosimilmente
spesso. Oggi nella capitale serba, nonostante il nuovo governo
democraticamente eletto, esso procura molto fastidio, soprattutto
a coloro che non vogliono vedere il volto del proprio nazionalismo
e riconoscere i misfatti commessi in nome del proprio popolo
(13).
Questo dossier è l'unico che testimonia il crimine
commesso dai serbi in Kosovo ed è il dossier che
è stato richiesto dal Tribunale dell'Aia come uno
dei documenti decisivi per stabilire come sono andati i
fatti durante l'offensiva delle forze militari e paramilitari
serbe in Kosovo.
Questo voglio dire: quanto il coraggio di una donna possa
fare non per sé, per la propria famiglia, ma per un ideale,
per l'affermazione della giustizia, per la ri-costruzione
della fiducia e della speranza delle persone, per contribuire
con la propria denuncia alla costruzione della verità,
alla distribuzione delle responsabilità. E a salvare
la faccia infangata della propria nazione.
Sono stati tanti gli spunti sollecitati dalla visione del
documentario “Il colore del vento”. I temi del
Mediterraneo avrebbero dovuto suscitare in me altri ricordi,
dolci e lievi come le brezze del Maestrale e le nostalgie
di cieli striati dal fuoco dei tramonti. Invece ho parlato
di guerra, di responsabilità, di ruolo delle donne,
di un “no” possibile ai nazionalismi e alle
follie ideologiche che vedono nell'Altro Nemico, una minaccia
alla propria identità. Forse è bene non dimenticare
neppure questi temi che, in diverse forme e interpretazioni
rielaborate, affiorano nelle terre bagnate dal mare Mediterraneo.
è giusto ricordarli perché, “non sapere è
orribile. Abituarsi a non sapere è la peggior cosa”
(14).
Melita Richter
Note
- Bogdan Bogdanovic, è l'autore del termine “urbicidio”
inventato per definire l'atroce attacco nelle guerre balcaniche
degli anni '90, portato alle città e alla società
cosmopolita che esse rappresentavano. Si intende con esso
non solo la distruzione fisica delle città, ma
anche la distruzione simbolica della cultura espressa
dalle città, dello spirito e della convivenza urbana.
- Vedi Melita Richter e Maria Bacchi (a cura di), Le
guerre cominciano a primavera. Soggetti e genere nel conflitto
jugoslavo, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2003.
- Intervista a Latinka Perovic, settimanale “Dani”,
Sarajevo, n. 277, pubblicato il 3 ottobre 2002.
- Andrea Rossini e Nicole Corridore, “La memoria
di Zagabria”, intervista a Vesna Teršelic pubblicata
sul sito www.osservatoriobalcani.org
il 8. 10. 2007.
- Staša Zajovic, Un approccio femminista nell'affrontare
il passato e la giustizia transizionale. L'esperienza
della Serbia. Relazione alla Conferenza della Rete
internazionale delle Donne in Nero, Gerusalemme/Israele
12-16 Agosto 2005.
- Staša Zajovic, ibid. p.2.
- Vedi in Melita Richter e Maria Bacchi (a cura di), op.
cit.
- Un'ampia testimonianza su questi temi in Melita Richter,
“Sconfitta nei fatti, non nelle menti”, in
Maria Teresa Sega (a cura di), Se questa è una
donna, Cierre Edizioni. Resistenze, Venezia, 2010.
- Elvira Mujcic, Al di là del caos. Cosa rimane
dopo Srebrenica, ed. Infinito, Roma, 2007, p. 97.
- In Andrea Rossini e Nicole Corridore, “La memoria
di Zagabria”, intervista a Vesna Teršelic pubblicata
sul sito www.osservatoriobalcani.org
il 8. 10. 2007.
- Nella relazione già citata, Staša Zajovic
scrive: “Solo un numero davvero minimo di processi
per guerra e per crimini di guerra si stanno svolgendo
nelle corti locali. Altre forme di giustizia transizionale
– non penale – così come commissioni per la
verità e la riconciliazione / pulizia / risarcimenti
/ compensazione / restituzione, che sono alcuni esempi,
o non vengono affatto prese in considerazione o si praticano
esclusivamente sotto la pressione di fattori esterni,
per ragioni pragmatiche e non sono il frutto di una sentita
e reale esigenza di superare il passato.”
- Staša Zajovic, ibid, p. 2.
- Vedi Melita Richter e Maria Bacchi, op. cit., pp. 56-58
e pp. 317-332.
- Elvira Mujcic, op. cit., p. 108.
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