in direzione
ostinata e contraria 5
Giocherellare a palla con il proprio cervello...
Intervista a Massimo
di Renzo Sabatini
La droga è tra gli argomenti del
lp di Fabrizio De André “Tutti morimmo a stento”,
che tra l'altro è stato il primo concept-album della
discografia italiana, il primo cioè incentrato su di
un discorso unitario, non sulla sequenza di brani tra loro scollegati.
L'intervistato ha chiesto di restare anonimo.
Ti abbiamo contattato dopo aver letto una tua “lettera
a Fabrizio De André” nel libro “Gli occhi
della memoria” (Edizioni Elèuthera, Milano 2007)
di Romano Giuffrida. Di te sappiamo solo che sei un musicista.
Ti va di parlarci un po' di te, di presentarti al nostro pubblico?
Sono nato nel 1960 e gli anni Settanta sono stati quelli della
mia formazione. Avevo un padre musicista e anch'io ho cominciato
a studiare uno strumento da giovane e mi sono poi diplomato
in flauto al conservatorio. Gli anni Settanta però non
sono stati dei più semplici e io li ho vissuti in maniera
confusa. Quelli erano gli anni delle mie ribellioni nei confronti
della famiglia, della società, del potere. Dopo il liceo
ho cominciato gli studi di scienze politiche ma li ho poi abbandonati
per dedicarmi completamente all'attività di musicista.
Però anche se la mia formazione musicale è classica,
i miei interessi erano diversi, più legati all'istinto
ribelle di quegli anni e perciò seguivo anche altri percorsi
musicali: musica nera, jazz, rock, punk; successivamente la
musica etnica e poi le avanguardie colte contemporanee. Romano
Giuffrida l'avevo conosciuto in quegli anni, poi ci siamo persi
di vista per un lungo periodo e ci siamo incontrati di nuovo
recentemente e così abbiamo cominciato a raccontarci
cosa era stato di noi nel frattempo. Così è nata
la mia collaborazione al libro.
Visto che hai seguito tanti generi musicali, qual è
quello più importante per te in questo momento?
Per quello che sto facendo io adesso, direi che i miei interessi
musicali rimangono molto aperti. A me piace lavorare sul suono
e con il suono. Sto facendo dei lavori in questo senso anche
con lo stesso Giuffrida. Mi piace suonare musiche del globo
intero e ho anche formato un piccolo trio che propone proprio
i canti del mondo e va alla ricerca di quelle che sono le sonorità
dei vari continenti, le matrici popolari utilizzate sia nella
musica colta che nella stessa musica popolare.
Nel contributo che hai scritto per il libro di Giuffrida ti
riferisci alla tua condizione di tossicodipendente all'inizio
degli anni Ottanta. Giuffrida scrive, presentandoti, che tu
sei di quelli che oggi possono: “ascoltare il vento tra
le foglie, sussurrare i silenzi che la sera raccoglie”.
Di altri amici invece resta il ricordo. Puoi parlarci di quegli
anni in cui ti sei ritrovato, per citare ancora De André,
a “giocherellare a palla” con il cervello?
Erano davvero anni in cui si giocava a palla col proprio cervello!
Erano anni confusi e rifiutare le regole voleva dire mettersi
in gioco e quell'impegno, se vogliamo, era anche una fatica:
il rifiutare tutte le indicazioni che venivano dai gruppi parlamentari,
anche quelli della stessa sinistra, il volersi trovare schierati
da un'altra parte, tutto questo è stato faticoso. In
quei momenti i poteri forti hanno immesso sul mercato sostanze
che creano dipendenza. Hanno utilizzato un'arma letale per sciogliere,
smembrare il movimento alternativo al sistema.
Questa per me ormai è storia. E io mi sono ritrovato
in questa condizione di dipendenza in maniera inconsapevole.
Ho rivisto poi, dopo, questo periodo, a distanza di dieci anni,
come un buco nero della mia memoria: più cresceva la
dipendenza e meno erano gli interessi legati al sociale, alla
vita reale. Io a quegli anni ci sto pensando ora, perché
allora non avevo proprio tempo per pormi delle questioni politiche,
era veramente una condanna, in quel senso. Io sono convinto
che i poteri forti creassero a misura queste devianze, per controllare
meglio quelle che erano aspettative altre, il dibattito politico
di quegli anni, le diverse istanze che venivano dai giovani
schierati al di fuori dei gruppi parlamentari.
Una
sorta di premonizione
Nel 1968 De André pubblica “Tutti Morimmo a
Stento”, mettendoci di fronte a un'umanità che
fino a quel momento non aveva mai trovato posto nelle canzoni.
Il disco si apre proprio con il “Cantico Dei Drogati”.
In Italia all'epoca di droga non si parlava, il fenomeno non
era ancora esploso. Come mai secondo te De André già
ne parlava?
In quegli anni la Psichedelia aveva già avvicinato i
giovani all'utilizzo delle sostanze come veicolo di conoscenza.
De André ne parlava perché già in quegli
anni si usavano delle sostanze allucinogene. Già Timothy
Leary1 infatti distingueva fra
sostanze buone e cattive e quelle che creano dipendenza sono
da considerare, tuttora, le sostanze cattive. Certo, quella
di De André era una sorta di premonizione, perché
questo pensare all'annullamento della persona, che troviamo
in quella canzone, è un fatto che poi si è verificato
puntualmente alla fine degli anni Settanta, in maniera massiccia,
quando è stato usato come strumento per abbattere un
fenomeno politico in crescita. Quindi lui è stato proprio
un antesignano, ha capito quello che sarebbe accaduto con grande
anticipo.
La canzone probabilmente avrà colpito molti, aprendo
uno spaccato su un mondo che all'epoca era sconosciuto. Per
un tossicodipendente che gli capitava di ascoltare questa canzone,
che significato poteva avere?
Io ho provato a scriverlo in questa lettera che ho pubblicato
sul libro di Giuffrida. La canzone, inizialmente, aveva creato
in me, che ero vittima di quella condizione di dipendenza, un
senso di profondo fastidio. Mi sembrava un'intromissione in
quella che ormai era la strada che avevo preso, un percorso
masochistico. Mi infastidiva questo essere solleticato nella
mia coscienza. Ripensandoci dopo ho scoperto che era importantissimo
quello che diceva quella canzone: metteva di fronte le persone
a una scelta ben precisa.
Il Cantico dei Drogati è scritto in prima persona.
Il protagonista parla di sé, si guarda e si descrive
in questa sua deriva. Tu che sei passato attraverso questa esperienza
trovi che la canzone colga nel segno, trovi che le immagini
utilizzate da De André siano quelle giuste?
Si, assolutamente. Qui lui utilizza le parole proprio in maniera
strepitosa e sa quali corde andare a toccare. Proprio per quel
motivo mi infastidiva, perché evocava le paure, il proprio
malessere, la consapevolezza di essere allo sfascio, allo sbando.
Una condizione che fa paura e la paura a volte diventa incontrollabile.
Per cui si cerca di risolvere il proprio bisogno proprio per
non aver paura ed è una tensione continua fra paura e
bisogno, bisogno e paura. Questo ti crea la condizione di malessere,
di completo disagio. Lui in questa canzone, bellissima, premonitrice,
aveva colto tutti gli aspetti che la tossicodipendenza comporta.
Nella strofa che chiude la canzone il protagonista lancia
una specie di richiesta di soccorso a chi lo ascolta. Ti sembra
realistico? Ti è capitato di lanciare questi segnali,
magari restando inascoltato?
Lanciare segnali, sì, mi è capitato, anche in
maniera piuttosto ingenua, se vuoi, perché in realtà
non sai mai esattamente a chi rivolgerti, quando vivi in una
condizione di paura e di disagio e sei dipendente. E quindi
cerchi qualcuno. Innanzitutto però devi arrivare ad un
momento di assoluta decisione nel voler smettere di assumere
determinate sostanze. Di questo devi essere consapevole. Poi
non è detto che tu ci riesca, ma la consapevolezza è
il primo passo. Il tentativo deve nascere da una necessità,
non da un'imposizione. Le imposizioni poi te le crei tu, per
poter favorire questo processo di disintossicazione. La richiesta
di aiuto può essere fatta a degli amici, però
gli amici generalmente avevano paura quanto me, quindi non era
quello l'appiglio al quale potevo aggrapparmi.
Dopo mille tentativi di disintossicazione fatti chiudendomi
in casa, in realtà, mi hanno aiutato molto altre sostanze
farmaceutiche che hanno creato una sorta di antagonismo alla
sostanza oppiacea e quindi quello mi ha aiutato a risolvere
il problema fisicamente. Ma psicologicamente poi, dopo, devi
ricostruire tutto. È una cosa che uno fa continuamente,
che faccio ancora adesso, perché poi le dipendenze non
sono solo legate alle droghe ma anche a tante altre cose, quindi
il percorso di disintossicazione è continuo, quotidiano.
Quindi l'aiuto farmacologico mi è servito ma la ricostituzione
psicologica, il contatto con la realtà, con il quotidiano,
è avvenuto in maniera molto più lunga e graduale.
Anche passando attraverso altre disintossicazioni: quelle alcoliche
e quelle che mi hanno portato ad affrontare la necessità
di disintossicarmi da altre sostanze ancora. Oggi mi sento di
poter dire che questa poltiglia di vita che ho fatto mi ha portato
finalmente ad un momento più sereno, che mi consente
anche di riflettere su tutto questo passato.
In seguito De André descriverà questo disco
come: “polveroso, cattedratico, barocco”. Dirà
che: “questa processione di vittime cantate potrebbe finire
per far ribrezzo”. Tu la condividi questa sua riflessione?
Il Cantico dei Drogati poteva essere magari meno crudo e più
poetico?
Ma proprio perché è così crudo questo brano
è molto poetico. Mi sembra strano che lui possa aver
tacciato di barocchismo un disco così crudo. Per come
la vedo io di barocco ce n'è ben poco nel “Tutti
morimmo a stento”. Anzi proprio quell'esercito di altri,
di diversi, di marziani, come li chiamava Camerini2
in quegli anni, credo che possa far riflettere ancora oggi.
Quindi non saprei proprio perché lui abbia descritto
questo suo album in maniera così negativa. Forse quando
ha detto queste cose era già alla ricerca di altro e
credo che avesse ancora molto da dire. Però per me è
importantissimo anche quello che diceva in quegli anni. Questo
l'ho anche scritto in quella lettera pubblicata sul libro di
Giuffrida ed emerge anche da un lavoro di riflessione su tutta
la produzione di De André, un lavoro che ho fatto con
Giovanna Panigali e con un gruppo musicale sardo, gli Andhira.
Dal “Cantico
dei drogati” (1968)
“Ho
licenziato Dio
gettato via un amore
per costruirmi il vuoto
nell'anima e nel cuore.
Le parole che dico
non han più forma né accento
si trasformano i suoni
in un sordo lamento.
Mentre fra gli altri nudi
io striscio verso un fuoco
che illumina i fantasmi
di questo osceno giuoco.”
|
Il
problema dell'alcool
I drogati ritornano nel “Recitativo” che chiude
l'album in una sorta di invocazione. De André ci dice
chiaramente che i drogati, le prostitute, i condannati a morte
che popolano questo album sono le vittime della società
e non i colpevoli. Chiede a chi ascolta di non giudicare ma
di avere pietà. Tu pensi che questa esortazione abbia
avuto un qualche risultato, che chi ha ascoltato si sia messo
in sintonia, abbia smesso di giudicare e abbia cercato di cominciare
a capire?
Ma non direi. Forse il disincanto di cui parlavamo prima rispetto
a questo disco sarà nato in lui proprio dallo scoprire
il fallimento di questa esortazione. Perché purtroppo
non credo che da allora siano mutati di molto gli atteggiamenti
generali nei confronti dell'altro, del diverso. Lo vediamo adesso
rispetto alle migrazioni, al tema dei clandestini, insomma rispetto
a tutto ciò che rappesenta l'altro, il diverso. Forse
quella esortazione che ha fallito nel suo intento era ciò
che lui considerava un esercizio barocco. Forse però
qualcuno è riuscito ad ascoltarla, a capire che, rispetto
all'altro, ci sono molto modi per potersi porre, che non sono
necessariamente quelli del rifiuto. Io credo che anche il mio
lavoro tenda un po' a questo. Cerco di vedere le reazioni di
chi ascolta certe proposte artistiche, cerco di coinvolgere
chi ascolta anche su questi temi. Le reazioni positive ci sono,
ma la tendenza generale non è che mi lasci molto ottimista.
Tornando a parlare del Cantico Dei Drogati, De André
ha detto che scriverla, assieme all'amico e poeta Mannerini,
ebbe per lui un valore libertorio, perché all'epoca era
totalmente dipendente dall'alcol. Disse anche che c'era una
sorta di autocompiacimento, frequente fra i tossicodipendenti.
Come la vedi, ti sembra che l'alcolismo di De André potesse
essere paragonabile ad esempio alla condizione del tossicodipendente?
Si assolutamente. Sono condizioni molto simili. Anche se i termini
sono diversi, perché si frequentano ambienti diversi,
ma fondamentalmente lo stato psicologico è lo stesso.
Credo che per lui fosse proprio una liberazione, il cantare
o lo scrivere di sé in quel senso. Quanto all'autocompiacimento,
per dire la verità, quando sei dipendente da una sostanza
non hai proprio tempo di compiacerti di te, perché sei
preso da un gioco osceno, come lo chiama giustamente De André.
Non stai troppo a guardarti. Direi invece che qui De André
sapeva raccontare bene le cose, a sé stesso e anche agli
altri.
Anni dopo De André ha scritto Amico Fragile,
una delle sue canzoni più importanti, durante una solenne
ubriacatura. In effetti De André, che ha poi rinunciato
a bere, a quanto pare, per mantenere una promessa fatta al padre
sul letto di morte, diceva che l'alcol gli rompeva i freni inibitori
consentendogli di esprimere a pieno la sua creatività.
Tu hai avuto una simile esperienza con la droga? E non si potrebbe
dire che un simile atteggiamento, da parte di una persona che
aveva tanta presa fra i giovani, fosse potenzialmente pericoloso?
Beh, effettivamente il rischio c'è. Comunque bisogna
dire che ci sono delle differenze, su questo piano, fra le droghe
pesanti e l'alcol. Perché le droghe pesanti tendono a
implodere, quindi a non dare espansività, l'alcol al
contrario te ne dà, quindi forse in questo senso De André
utilizzava questo strumento, l'alcol, per potersi dare di più.
È chiaro che il “pentimento” successivo nasce
dalla consapevolezza che non è in quel modo che ci si
dà agli altri nel modo giusto, perché l'alcol
è semplicemente uno strumento, un ausilio che puoi avere,
ma che è fuorviante per sé e per gli altri. Parlo
a ragion veduta perché è un percorso che ho fatto.
Dopo il decennio “dedicato” alle droghe pesanti
ho affrontato anche il versante dell'alcolismo. Psicologi e
sociologi abbinano le due sostanze in maniera manualistica,
le consorziano: prima viene la droga pesante e poi si finisce
nell'alcol e guardando le statistiche credo che sia abbastanza
vero che ci sia questo collegamento fra le due cose. De André
l'ha vissuto in prima persona questo problema.
Non so se l'abbia risolto davvero grazie alla promessa fatta
a suo padre. Forse l'ha risolto in realtà grazie a una
promessa fatta a se stesso. Perché credo che fosse un
rispetto che doveva a se stesso, da quel grande uomo di pensiero
che era. Doveva uscirne per potersi poi dare meglio anche agli
altri.
Dell'alcol De André disse anche che gli era servito
per evadere una realtà che per lui rappresentava una
dolorosa contraddizione, perché il mestiere con cui esprimeva
la rivolta sociale lo faceva anche arricchire economicamente.
Questa delle contraddizioni che ci capita di vivere fra quello
che pensiamo e quello che siamo è una delle strade verso
la droga?
Le contraddizioni spingono molto spesso a soluzioni di comodo:
tacitiamo la coscienza in modo da non averci più a che
fare. L'alcol euforizza, l'eroina e le droghe pesanti trattengono,
la differenza è questa ma il risultato non cambia: ti
alteri e alterandoti la coscienza viene “sistemata”.
Promettere a se stessi di far rinascere questa coscienza è
uno dei passi fondamentali del percorso di uscita dalla condizione
di dipendenza.
Intrico
fra droga, criminalità e politica
Nel corso di tante interviste abbiamo messo assieme quasi
involontariamente varie testimonianze sui contributi che Fabrizio,
sommessamente, senza pubblicità, dava a varie cause.
Emergency, l'Associazione per la pace, la stampa anarchica,
la comunità di Don Gallo a Genova, il gruppo Lupo di
Stefano Benni, il Comitato di Solidarietà che lavorara
con i profughi durante la guerra in Yugoslavia e così
via. Secondo te era anche questo un modo per riparare alla contraddizione
di cui si parlava?
Ma non lo so, forse. Ma comunque per me è importante
sottolineare che questo delinea la sua coscienza e sottolineare
il fatto che lui manifestasse il suo aiuto in maniera non eclatante,
pur facendo parte del mondo dello spettacolo. Fortunatamente
Fabrizio era così e ben venga questo suo rimanere nell'ombra
in quello che faceva per gli altri, perché è molto
facile poi farsi della pubblicità con del falso buonismo.
Magari, perché no, finanziava anche qualche comunità
di recupero per tossicodipendenti, visto che era così
sensibile a questo tema, quello delle dipendenze, che è
molto importante per le sue conseguenze devastanti.
La droga è poi esplosa come problema sociale in Italia,
come si diceva prima. Tra l'altro un libro recente, “Romanzo
Criminale” di De Cataldo, ci fa capire quale intrico ci
sia fra droga, criminalità e politica. Ne accennavi proprio
tu all'inizio dell'intervista. De André però non
è più tornato sull'argomento se si escludono brevi
passaggi, come la “Pilar del mare” in Sally che
si “addormentava il cuore con due gocce di eroina”.
Anche il Cantico dei Drogati non ha fatto quasi mai parte delle
scalette dei suoi concerti. Secondo te perché? Con Il
Cantico aveva detto tutto quello che c'era da dire su questo
argomento, oppure andavano meglio le canzoni di autori più
giovani come “Lilly” di Venditti o “Silvia
lo sai” di Carboni?
Io credo che De André avesse già detto tutto quello
che c'era da dire in quel brano e lo aveva detto, secondo me,
in maniera assai più convincente rispetto agli altri
brani che hai citato, che sono brani un po' più epici,
se vogliamo, romanzati. La crudezza del brano di De André,
di cui dicevamo prima, è quella che alla fine mi risulta
più vicina, esprime bene il mio modo di sentire le cose.
Che poi non sia più tornato sull'argomento secondo me
dipende dal fatto che lui stava dedicandosi ad altro e in fondo
l'argomento l'aveva affrontato dicendo già allora quello
che poi si è puntualmente verificato. Evidentemente non
aveva ragione di tornarci e forse era il caso di affrontare
altri argomenti più urgenti, più impellenti.
Hai scritto che il ritornello del Cantico Dei Drogati, il:
“come farò a dire a mia madre che ho paura”,
ascoltato un giorno a casa di un amico, è rimasto per
te un tarlo fastidioso che ti risuonava nella testa. Già
prima ci hai parlato delle tue paure ma, come mai questo tarlo
ti risuonava?
Mi risuonava perché quando vivi quella condizione di
tossicodipendenza, tutto quello che ti infastidisce rispetto
al tuo percorso ti provoca rabbia, fastidio, e quindi lo vuoi
assolutamente rimuovere. Però il tarlo resta, lavora
dentro, perché la coscienza non la puoi cancellare più
di tanto, e quindi quello restava e dentro di te ti dicevi:
“fondamentalmente ha ragione, però adesso non ho
tempo di pensarci, perché devo andare là, fare
questo, quello...”. E la madre è il primo punto
di riferimento, è un riferimento proprio ancestrale e
credo che lui l'utilizzasse in quel senso. Non è che
pensi come farai a dirlo agli amici o a un SerT3.
A livello inconscio c'è questo richiamo ancestrale ed
è alla mamma che ci si rivolge per chiedere aiuto.
La questione droga, l'abbiamo accennato, è ormai un
problema mondiale con un intreccio di poteri forti, criminalità,
interessi enormi, interi apparati statali complici. In questo
quadro il Cantico dei Drogati secondo te, almeno a livello di
testo, è invecchiato o resta sempre attuale? Potrebbe
essere usato a livello educativo, di prevenzione?
Secondo me non è invecchiato e potrebbe essere usato
a livello educativo, perché lui in questo testo ha descritto,
ha raccolto tutti gli aspetti da prevenire. Pensiamo a quando
dice: “mi citeranno di monito”, una frase che mi
ha molto colpito. Credo che basti dire questo, perché
la condizione che lui descrive, che vive: giocare a palla col
proprio cervello, finire per essere emarginato socialmente senza
più alcun tipo di aspirazione e di ispirazione, è
una condizione assolutamente tragica dell'esistenza. E il fatto
che lui sottolinei questo: “guardatemi, perché
voglio esservi di monito”, rende questo brano ancora oggi
unico e si può senz'altro utilizzarlo a livello educativo.
Il senso
che possono avere i brani di De André
Nella tua lettera a De André scrivi che avresti preferito
telefonare piuttosto che affidare alla penna il tuo intervento.
Ecco se adesso invece di essere al telefono con me fossi al
telefono con Fabrizio che cosa ti piacerebbe dirgli?
Mah, gli direi: “Caro Fabrizio, quello che ti ho scritto
è nato dall'immediatezza, è una cosa che tenevo
dentro per me, che cercavo di risolvere. Perché già
allora tu avevi descritto così bene la mia condizione”.
In realtà mi sarebbe piaciuto conoscerlo e magari non
solo avere un rapporto dal punto di vista umano ma anche professionale,
perché faceva delle cose che tuttora mi interessano,
il modo stesso con cui esplorava non solo il mondo della parola
ma anche il mondo dei suoni, era per me interessantissimo, tanto
che lo sto riascoltando tuttora con grande interesse. Quindi
probabilmente, al di là dei temi tragici della vita,
poteva anche esserci uno scambio di opinioni, di percorsi, di
cammino.
Penso a quello che Luigi Nono4
scriveva nel titolo di una sua composizione che più o
meno suonava così: “caminante, no hay caminos,
hay que caminar” . Ovvero chi cerca l'altro non ha una
strada precisa da seguire, deve solo camminare. Io penso che
probabilmente ci saremmo incontrati su questo terreno del cammino.
Visto che hai appena raccontato che stai riascoltando
l'opera di De André, a parte il Cantico dei Drogati,
quali sono le sue cose che ti hanno colpito di più?
Io apprezzo soprattutto l'aspetto musicale e da quel punto di
vista mi piace soprattutto la produzione da Creuza de ma in
poi, perché mi piacciono le soluzioni che ha trovato
con Pagani nel fare quel disco che resta per me un grandissimo
lavoro. Se però guardiamo ai testi, proprio in questi
giorni stavo riguardando il brano: “Coda di Lupo”,
che mi richiama agli anni che stavo raccontando prima, gli anni
settanta, gli anni di un movimento che si è concluso,
che ha gettato dei semi senz'altro, perché sono tuttora
evidenti i germogli degli anni Settanta, si vedono anche adesso,
ma che comunque si è concluso. Ebbene rileggendo il testo
di Coda di Lupo trovo che possa fare il paio con il Cantico
dei drogati, anche se è stato scritto a dieci anni di
distanza. Il fatto di rievocare quel clima, quegli anni, utilizzando
certe immagini, come per esempio quella di Lama fischiato a
Roma, questo lo trovo interessante, tuttora molto importante5.
Un brano così mi dà il senso che possono avere
i brani di De André non solo nel rileggere il passato
ma anche nell'analizzare quello che abbiamo adesso davanti e
mi rendo conto di quanto fosse premonitore nel suo modo di affrontare
le questioni politiche e sociali.
Renzo Sabatini
Note
- Lo psicologo e scrittore americano (1920-1996) promotore
dell'uso delle droghe psichedeliche a fini terapeutici.
- Si riferisce probabilmente al cantautore italo
brasiliano Alberto Camerini.
- SerT: Servizio Tossicodipendenze, nell'ambito del
Servizio Sanitario Nazionale.
- Luigi Nono (Venezia, 1924-1990): musicista,
compositore, ricercatore musicale.
Aveva musicato questi versi del poeta sivigliano Antonio Machado.
- Si riferisce al verso: “Capelli Corti generale
ci parlò all'università dei fratelli Tute Blu
che seppellirono le asce / ma non fumammo con lui, non era venuto
in pace”. Luciano Lama (1921-1996), all'epoca
Segretario Nazionale della CGIL, fu contestato a Roma dagli
studenti, il 16 febbraio 1977.
(intervista realizzata via telefono il 09.05.2005.
Registrata presso gli studi di Rete Italia – Melbourne.
Andata in onda nell'ambito della trasmissione radiofonica settimanale:
“In Direzione Ostinata e contraria“, dedicata ai
personaggi delle canzoni di Fabrizio De André)
In
direzione ostinata e contraria
Con
questa intervista prosegue la pubblicazione su “A”
di una parte significativa delle 27 interviste radiofoniche
realizzate da Renzo Sabatini e andate
in onda in Australia nel programma “In direzione
ostinata e contraria” sulle frequenze di Rete Italia
fra il maggio 2007 e l’agosto 2008. In tutto si
è trattato di sessanta puntate (ciascuna della
durata di circa quaranta minuti, per un totale di quasi
40 ore di trasmissioni), nel corso delle quali sono state
trasmesse le 27 interviste e messe in onda tutte le canzoni
di Fabrizio De André. Si tratta dunque della più
lunga e dettagliata serie radiofonica mai dedicata al
cantautore genovese.
Se proponiamo questi testi,
è innanzitutto per dare ancora una vlta spazio
e voce a quelle tematiche e a quelle persone che di spazio
e voce ne hanno poco o niente nella “cultura”
ufficiale. E che invece anche grazie all’opera del
cantautore genovese sono state sottratte dal dimenticatoio
e poste alla base di una riflessione critica sul mondo
e sulla società, con quello sguardo profondo e
illuminante che Fabrizio ha voluto e saputo avere. Con
una profonda sensibilità libertaria e – scusate
la rima – sempre in direzione ostinata e contraria.
Precedenti interviste
pubblicate: a Piero
Milesi (“A” 370, aprile 2012), a Carla
Corso (“A” 371, maggio 2012), Porpora
Marcasciano (“A” 372, maggio 2012), Franco
Grillini (“A” 373, estate 2012).
la redazione di “A” |
|