economia
La crisi della Enron
di Valerio Moggia
Il grande successo della Enron era basato sul nulla:
una gigantesca bolla finanziaria fondata su valori probabili,
incassi futuri e bilanci gonfiati. Storia del fallimento
di un'impresa. E di un sistema economico.
Quando si sente dire che il mercato
va liberato dalle leggi, perché è perfettamente
in grado di autoregolarsi, che la causa delle crisi economiche
del passato e dell'instabilità del mercato è il
controllo troppo restrittivo dello Stato, vi stanno mentendo.
Questa è la storia del fallimento di un sistema, un fallimento
di cui il mondo sembra essersi accorto tardi, troppo tardi.
Verso la metà degli anni Ottanta, all'apice dell'era
reaganiana – quella della deregolamentazione e del neoliberismo
sfrenato – la Houston Natural Gas e la Internorth, due
aziende energetiche americane, si fondono, dando vita alla Enron.
Nel giro di pochi anni, la nuova società diventa leader
indiscussa nel settore energetico (dal petrolio al gas, dall'elettricità
fino alle materie prime) e, nel 1996, viene indicata dalla rivista
Fortune come l'azienda più innovativa d'America;
nel 2000 è nominata dal Financial Times azienda
energetica dell'anno e ancora Fortune la posiziona al
settimo posto tra i principali colossi dell'industria a stelle
e strisce. Contemporaneamente, la Enron è diventata un
modello – anzi, il modello – d'industria d'eccellenza,
grazie al suo sbarco in Borsa e alle sue nuove attività
nel settore della finanza derivata, che hanno portato il suo
giro d'affari annuo a circa 130 miliardi di dollari. In particolare,
essa fornisce un ottimo servizio di copertura del rischio alle
imprese, che riguarda non solo gli aspetti più prettamente
economico-finanziari, ma addirittura le condizioni meteo. Si
impone come intermediatore finanziario, lavorando come una banca
d'affari, ma, non essendo ufficialmente riconosciuta come tale,
è estranea al controllo della Fed. I rating di Standard&Poore
Moody's la classificano in una posizione di massima solidità,
e la Sec, adibita al controllo della Borsa, non riscontra alcuna
irregolarità.
Ma il mondo dorato della Enron nasconde un'oscurità insondabile.
Allo scadere dell'amministrazione di George H. W. Bush, nel
1993, la Commissione per la negoziazione dei futures sulle materie
prime aveva approvato una norma proposta dalla Enron per sottrarre
i contratti dei derivati energetici al controllo statale. A
capo della Commissione c'era Wendy Gramm, che sarebbe poi entrata
alla corte della Grande E, moglie del senatore repubblicano
del Texas Phil Gramm, che ottenne da Enron 97.350 dollari per
la campagna elettorale del 2000. La norma sarebbe poi stata
ufficializzata e tramutata in legge sotto l'amministrazione
Clinton, il cui partito aveva ricevuto donazioni da Enron per
oltre 2 milioni di dollari.
Dietro
il no al Protocollo di Kyoto
La stessa cifra sarebbe stata elargita a George W. Bush, divenuto
presidente nel 2000, mentre il suo partito ricevette 400 milioni
dalla società nel periodo tra il 1999 e il 2001. L'intera
amministrazione Bush risulta avere legami con la Enron: possedevano
pacchetti azionari il vice-presidente Dick Cheney, il segretario
alla Difesa Donald Rumsfled ed il suo vice William Winkenwerder,
il capo di gabinetto Karl Rove, il ministro della Giustizia
John Ashcroft, il sottosegretario al Tesoro Mark Weinberger
e quello all'Economia Kathleen Cooper, il sottosegretario all'Educazione
Eugene Hickock, il consigliere economico Larry Lindsay, il rappresentante
Usa per il commercio Robert Zoellick, e diversi ambasciatori.
Cheney, in particolare, era azionista della ditta di costruzioni
Brown&Root, vincitrice dell'appalto per la costruzione del
nuovo stadio di Houston, finanziato per 100 milioni dalla Enron;
in cambio, la società ottenne un contratto da 200 milioni
di dollari per la fornitura elettrica della città. Dick
Cheney fu inoltre a capo della Commissione per la politica energetica,
che era stata incaricata di indagare sul clamoroso blackout
di Los Angeles del 2000: Enron era il fornitore energetico della
metropoli californiana e, secondo alcune voci, aveva staccato
la corrente a LA per convincere il sindaco ad abbandonare la
legge anti-inquinamento.
D'altronde, altre voci accusavano l'azienda energetica di aver
spinto il governo a non ratificare il Protocollo di Kyoto. Risaputo,
invece, l'intervento diretto sul presidente Clinton sul caso
Mozambico: Enron stava cercando di ottenere il permesso dal
governo locale per la costruzione di un oleodotto, che arrivò
solo dopo che il Presidente minacciò gli africani di
tagliare drasticamente gli aiuti umanitari. I legami politici
della società di Kenneth Lay arrivavano fino alla Gran
Bretagna, tramite il dipendente John Wakenam, già ministro
dell'Energia e supervisore delle privatizzazioni sotto il governo
Tatcher, ma anche per conto di Tony Blair, finanziato con circa
50.000 dollari in campagna elettorale.
Quello che nessuno sapeva, o voleva sapere, era che il grande
successo della Enron era basato sul nulla: una gigantesca bolla
finanziaria fondata su valori probabili, incassi futuri e bilanci
gonfiati; operazioni di facciata, come quella del Video on Demand,
che non portavano alcun guadagno, ma facevano levitare il valore
a Wall Street; una rete di società partner esterne, create
dagli stessi dirigenti della Enron, che prestavano fondi alla
casa madre in cambio di azioni. E mentre questo accadeva, i
top-manager dell'azienda di Houston si godevano bonus impressionanti
concessi su guadagni ipotetici, compravano auto e vestiti di
lusso e facevano la bella vita; come Lou Pai, che si portava
una squadra di spogliarelliste, a libro paga della società,
fino in sala contrattazioni. Lo stratagemma delle società
satellite (ne sono state individuate 881, tutte in paradisi
fiscali; si pensi che, in Italia, Silvio Berlusconi ne aveva
appena 64) aveva permesso ai dirigenti di nascondere l'enorme
debito che la Enron stava accumulando, e, allo stesso tempo,
di pagare tasse praticamente nulle: celebre il caso di un tassa
che, a conti fatti, si trasformò in un credito di circa
278 milioni che la società aveva nei confronti del governo.
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Houston
(Texas) - Le torri Enron |
Una
corruzione gigantesca
Nell'agosto 2001, il Wall Street Journal accusò
la Enron di una mancanza di trasparenza sui conti, preludio
alla tragedia imminente. Ad ottobre, il giornale economico ventilò
perdite possibili per oltre 1 miliardo di dollari, e denunciò
il colosso energetico per la storia delle società fantasma.
Nel frattempo, i dirigenti di alto livello della Enron vendevano
segretamente le loro azioni e, contemporaneamente, incitavano
i loro dipendenti a comprarne, così da far recuperare
fiducia al mercato e rilanciare l'azienda. Anche se, tra questi
ultimi, ci fosse stato qualcuno particolarmente scettico, non
avrebbe potuto far niente per evitare la tempesta: ogni dipendente
era vincolato, dal proprio contratto, a non vendere alcuna delle
sue azioni Enron fino al compimento dei 50 anni. Queste azioni
facevano parte del compenso, e venivano attribuite automaticamente
sul fondo pensione di ogni singolo dipendente (si stima che
esse rappresentassero il 62% di ogni portafoglio di fondo pensione).
Quando la bolla scoppiò, si scoprì che i dirigenti
avevano guadagnato 275 milioni di dollari vendendo le proprie
azioni, mentre i dipendenti avevano perso complessivamente 850
milioni. Non solo, poco prima del crollo gli stessi dirigenti
si erano concessi bonus per un totale di 55 milioni, mentre
ai dipendenti furono concesse liquidazioni irrisorie di 4.500
dollari. Circa 15.000 persone si ritrovarono senza un soldo
e senza un centesimo in fondo pensione dall'oggi al domani.
La settima azienda del Paese aveva perso 60 miliardi di dollari
in poche settimane, precipitando dal 86 dollari a soli 26 centesimi
per azione.
Ma non era finita. La Sec, fino ad allora misteriosamente all'oscuro
delle irregolarità della Enron, aprì un'inchiesta,
facendo richiesta delle carte della società al certificatore
Arthur Andersen. David Duncan, il dirigente di AA che si era
occupato dell'affare Enron, fu accusato da alcuni dipendenti
di aver dato l'ordine, tra il settembre e l'ottobre del 2001,
di distruggere ogni documento esistente sul loro rapporto con
la Enron. Davanti alla Commissione, egli si appellò al
V Emendamento, rifiutando di testimoniare contro sé stesso,
a meno di ottenere l'immunità. La Casa Bianca, che aveva
sempre negato di essere a conoscenza del crack, fu costretta
ad ammettere che alcune riunioni tra dirigenti della Enron ed
esponenti del governo c'erano state.
L'inchiesta assunse da subito un profilo tragicomico: l'intero
staff del Procuratore Distrettuale di Houston, incaricato dell'inchiesta,
dovette auto-ricusarsi per aver avuto legami economici con la
Enron (si sta parlando di un centinaio di persone, tra avvocati
e procuratori); il ministro della Giustizia Ashcroft, a libro
paga Enron, dovette ricusarsi a sua volta, così come
il giudice di Washington Lee Rosenthal, che rivelò di
aver avuto relazioni personali con alcuni dirigenti Enron. Altri
non furono così onesti: Joseph Lieberman, capo della
Commissione del Senato che indagava sul fatto, si scoprì
essere stato finanziato in campagna elettorale proprio dalla
Enron. Dei 248 membri del Congresso che componevano le undici
commissioni incaricate di indagare sul fallimento, 212 avevano
ricevuto denaro dalla Enron o dalla Arthur Andersen.
L'inchiesta distrusse la Arthur Andersen, e si allargò
presto ad altre società, accusate di aver nascosto le
proprie magagne attraverso la sopracitata: Tyco, Sunbeam Products,
Adelphia, Global Crossing, fino al colosso telefonico WorldCom.
Seconda azienda telefonica americana, WorldCom contava 60.000
dipendenti, era presente in 65 Paesi, aveva la più grande
rete ottica del mondo, e poteva vantare un patrimonio di 107
miliardi di dollari; si scoprì che i suoi dirigenti avevano
spacciato spese correnti per degli investimenti, falsificando
i bilanci per circa 4 miliardi, e creando un buco di 41 miliardi
di dollari. Enron era stato il più grande crack della
storia americana, dopo poche settimane WorldCom aveva ritoccato
il record.
Una
vera e propria giungla
I dirigenti della Enron ritenuti colpevoli della truffa hanno
subito condanne che vanno dai 18 mesi ai 24 anni di reclusione.
In particolare, l'ex-Ceo Jeffrey Skilling è stato condannato
a 24 anni di carcere, stessa pena che sarebbe toccata al presidente
e Ceo Kenneth Lay, morto d'infarto prima della condanna.
Il caso Enron presenta diversi punti di contatto con lo scandalo
del fallimento di Lehman Brothers, l'innesco della recente crisi
economica. Entrambi affondano le radici in un sistema dove,
a dispetto di quanto si racconta, imperano la corruzione e la
delinquenza pura, sollecitata dalla totale assenza di leggi,
come in una giungla nella quale sopravvive solo il più
forte, dove i leoni si sfidano senza aver cura delle formiche
che si muovono incuranti sotto ai loro piedi.
Valerio Moggia
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