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Fontana & dintorni
5. Il volo di Pinelli
Tra i militanti dell'estrema sinistra fermati la sera del 12
dicembre c'era Giuseppe Pinelli.
Pinelli era un esponente di spicco del movimento anarchico milanese
e uno dei principali animatori del Circolo anarchico «Ponte
della Ghisolfa». Era membro attivo della «Croce
nera», organismo creato nell'aprile 1969, sull'esempio
dell'inglese Anarchist Black Cross, per aiutare gli anarchici
in carcere.
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La
sede anarchica di via Scaldasole |
Pinelli faceva il ferroviere. La mattina del 12 dicembre era
rientrato a casa alle 6:00 dopo aver fatto il turno di notte,
come manovratore allo scalo della stazione di Porta Garibaldi.
La moglie Licia si era svegliata un'ora dopo, aveva accompagnato
le figlie a scuola ed era andata a fare la spesa. Verso le 11:00
stava facendo le pulizie quando arrivò a casa un conoscente
del marito che a lei piaceva poco: Nino Sottosanti, personaggio
ambiguo, amico di estremisti di destra, ex volontario della
legione straniera, ammiratore di Benito Mussolini e conosciuto
nell'ambiente come «Nino il fascista». Licia Pinelli
uscì poi per andare a prendere le figlie a scuola. Quando
rientrò trovò il marito che parlava con Sottosanti
di Tito Pulsinelli, che con altri giovani anarchici era in prigione
per gli attentati del 25 Aprile.
Sottosanti poteva fornire un alibi a Pulsinelli. L'uomo si era
infatuato del giovane anarchico e la notte dell'attentato l'avevano
passata insieme.
Pinelli staccò per Sottosanti un assegno di 15.000 lire
come rimborso delle spese di viaggio sostenute per venire a
Milano da Piazza Armerina e testimoniare a favore di Pulsinelli.
I due bevvero poi un caffè in un bar poco lontano, e
Sottosanti se ne andò per riscuotere l'assegno.
Alcuni avventori del bar, Mario Magni, Mario Pozzi, Luigi Palombino
e Mario Stracchi, sostennero che Pinelli aveva giocato a carte
con loro dalle 15-15:30 fino alle 17-17:30, confermando l'alibi
fornito poi da Pinelli alla Polizia. Il giudice istruttore Gerardo
D'Ambrosio, nella sentenza del 27 ottobre 1975, sostenne che
i testimoni si erano confusi con il giorno precedente.
Comunque sia, tra le 17:00 e le 18:00 Pinelli si recò
al circolo Ponte della Ghisolfa, in Piazzale Lugano 31. Lì
incontrò Ivan Guarnieri e altri due giovani anarchici,
Ester Bartoli e Paolo Stefani.
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La
sede anarchica del Ponte della Ghisolfa |
Poco prima delle 19:00, in sella al suo motorino Benelli da
48 cc., Pinelli arrivò al circolo di via Scaldasole,
una sede anarchica aperta da poco, in un seminterrato di un
antico caseggiato fatiscente, vicino a Porta Ticinese: doveva
incontrarsi con Sergio Ardau per aiutarlo a fare qualche lavoretto
di restauro. Ma quando Pinelli arrivò, Ardau non era
solo: c'erano tre poliziotti guidati dal commissario della squadra
politica Luigi Calabresi, che si rivolse a Pinelli dicendogli
di seguirli in questura con il suo motorino.
Arrivato in questura, Pinelli fu interrogato una prima volta
intorno a mezzanotte.
Sabato 13 dicembre 1969 Ardau fu trasferito al carcere di San
Vittore, mentre Pinelli restò in questura. Entro le 19:00
di domenica 14 dicembre la polizia avrebbe dovuto decidere la
sua posizione. Il fermo di polizia poteva protrarsi fino a quarantotto
ore a partire dal momento in cui veniva notificato. Oltre i
due giorni il fermato doveva o essere trasferito in carcere
o rimesso in libertà.
Pinelli, invece, restò in questura fino alla mezzanotte
tra il 15 e il 16 dicembre, quando precipitò da una finestra
del quarto piano di via Fatebenefratelli: il suo fu dunque un
fermo illegale.
La mattina del 14 dicembre un agente telefonò a casa
di Pinelli dicendo alla moglie di comunicare alle ferrovie che
il marito era malato.
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Milano,
20 dicembre 1969
I funerali di Giuseppe Pinelli |
Alle 9:30 di lunedì 15 l'anarchico ricevette una visita
dalla madre, Rosa Malacarne, che lo trovò tranquillo.
Ma verso le 14:30 dello stesso giorno la moglie Licia ricevette
un'altra telefonata dall'ufficio politico con la quale le si
chiedeva di dire alle ferrovie che il marito era fermato in
attesa di accertamenti. Il clima si faceva più pesante:
si cercava di intimidire Pinelli minacciandolo indirettamente
di fargli perdere il posto di lavoro.
Alle 22:30 lo stesso Calabresi telefonò per chiedere
il libretto chilometrico, il documento su cui venivano annotati
i viaggi di ogni ferroviere. I poliziotti cercavano di coinvolgerlo
negli attentati ai treni della notte tra l'8 e il 9 agosto.
Gli interrogatori miravano a trovare, attraverso Pinelli, un
collegamento tra gli attentati del 12 dicembre e la precedente
catena di atti terroristici. Per il suo ruolo centrale al circolo
anarchico e per i contatti che intratteneva non solo nell'area
anarchica, ma anche con numerosi esponenti della nuova sinistra,
gli inquirenti credevano che Pinelli rappresentasse un tassello
importante nelle indagini.
L'ultimo interrogatorio di Pinelli avvenne nell'ufficio di Calabresi
intorno alle 19:00 del 15 dicembre, secondo la ricostruzione
del giudice D'Ambrosio.
Un punto su cui insistettero gli interrogatori era il rapporto
tra Pinelli e Valpreda, soprattutto dopo che quest'ultimo era
stato fermato e trasferito a Roma.
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Il
processo in Pretura a Roma |
Valpreda non faceva parte del gruppo Ponte della Ghisolfa,
o almeno non più. Era stato proprio Pinelli a buttarlo
fuori dal circolo.
Pinelli stesso fece mettere a verbale: «La sera del 7
o dell'8 ottobre scorso [...] dissi a Valpreda che non lo stimo
in quanto nella zona di Brera avevo raccolto delle voci abbastanza
strane che lo davano come autore di vari attentati in quanto
lui stesso si era vantato della cosa. Il Valpreda negò
di essersi vantato e disse di essere venuto a Milano anche per
sfatare queste dicerie». I rapporti tra Pinelli e Valpreda
si erano raffreddati completamente.
Ma la polizia cercò di insinuare in Pinelli il dubbio
che il ballerino potesse essere colpevole e addirittura Calabresi,
nell'ultimo interrogatorio, a quanto parrebbe esordì
dicendo che Valpreda aveva confessato.
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Rachele
Torri, prozia di Pietro Valpreda |
Era la mezzanotte del 15 dicembre, il cronista dell'«Unità»
Aldo Palumbo aveva appena lasciato la sala stampa della questura.
Era nel cortile quando sentì tre tonfi: qualcosa che
sbatteva contro i cornicioni dei vari piani. Accorse e vide
un uomo per terra nell'aiuola. Era Giuseppe Pinelli, ma il cronista
ancora non lo sapeva, nessuno ancora lo sapeva. Subito corse
a chiamare agenti e colleghi.
La giornalista Camilla Cederna, dopo essere stata avvisata del
fatto, si recò all'ospedale Fatebenefratelli, dove l'uomo
era stato trasportato. Giunta sul posto trovò un gruppetto
di poliziotti che non la lasciarono passare. Ad un tratto gli
si fece incontro il medico capoturno, Nazzareno Fiorenzano,
che riferì che oramai per Pinelli non c'era niente da
fare.
Poco dopo in questura fu organizzata una conferenza stampa per
spiegare ai giornalisti la dinamica dei fatti, ma nessuna autorità
si preoccupò di avvisare la famiglia di Giuseppe Pinelli.
La moglie Licia era già a letto e non sapeva ancora cosa
era successo al marito. All'una e cinque di quella stessa notte
le suonarono al campanello. Erano due giornalisti del «Corriere
della Sera», i quali le dissero che doveva essere successa
una disgrazia a suo marito.
La donna si attaccò al telefono e chiamò la questura
per avere notizie. Le rispose lo stesso Calabresi che le riferì
che suo marito si trovava all'ospedale Fatebenefratelli. Chiedendo
perché non l'avessero avvisata, si sentì rispondere:
«Ma sa, signora, abbiamo molto da fare».
La mamma del ferroviere, Rosa, si precipitò all'ospedale.
Era pieno di poliziotti, tutti correvano freneticamente e nessuno
le diede retta.
Intanto nel palazzone della questura milanese si era tenuta
la conferenza stampa che aveva impegnato così tanto i
questurini da non lasciare tempo nemmeno per una telefonata
ai parenti di Pinelli.
Erano presenti il commissario Luigi Calabresi, il tenente dei
carabinieri Savino Lograno, il questore Marcello Guida, già
direttore del confinario fascista di Ventotene, e il capo dell'ufficio
politico Antonino Allegra.
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Licia
Pinelli durante un'udienza del processo Calabresi / “Lotta
Continua” |
I giornalisti presenti cominciarono a far domande su Pinelli
e su come si erano svolti i fatti e il questore rispose che
Pinelli era fortemente indiziato di concorso in strage, che
il suo alibi era crollato, che il ferroviere anarchico, vistosi
perduto, si era suicidato, e che il suicidio era una specie
di autoaccusa. Nessuno dei presenti smentì le parole
del questore.
Qualcuno chiese se era fermato o arrestato. La risposta fu che
il suo era un fermo di polizia convalidato dall'autorità
giudiziaria. Ma anche il magistrato incaricato delle indagini,
Ugo Paolillo, non ne sapeva nulla.
Il mattino dopo sui giornali comparve la versione della questura:
Pinelli si era lanciato intorno alle 23:50, nell'ultimo interrogatorio
il dottor Calabresi gli aveva rivolto contestazioni piuttosto
precise e lui era sbiancato in volto, il commissario se n'era
andato per riferire ad Allegra e, nonostante i cinque uomini
presenti nella stanza, Pinelli aveva spiccato un balzo felino
buttandosi nel vuoto.
L'ufficio dove Pinelli fu interrogato non era molto grande.
Misurava 3,56 metri per 4,40 metri. La porta si apriva su una
delle due pareti più corte e la finestra-balcone (che
misurava 1,50 metri) s'apriva sul lato opposto. La porta-finestra,
munita di una balaustra in ferro a filo di muro, esterna ai
vetri, alta 92 cm, s'apriva all'interno. L'arredamento del locale
era composto da una scrivania, un tavolino porta telefono, uno
scaffale per la macchina da scrivere, uno scaffale porta riviste,
uno schedario, un termosifone, un attaccapanni, una poltroncina
e quattro sedie.
Al momento del «balzo» erano presenti il tenente
dei carabinieri Savino Lograno, tra la porta e la scrivania,
i due sottufficiali Carlo Mainardi e Vito Panessa, vicino alla
finestra, Giuseppe Caracuta alla macchina da scrivere e Pietro
Mucilli accanto ad un mobiletto. Calabresi si era momentaneamente
assentato per portare un verbale ad Allegra.
Nell'ufficio c'erano quindi cinque persone, oltre a Pinelli,
e nessuno era riuscito a fermare il suo «balzo»
nonostante lo spazio ridotto e ingombro di mobili.
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Il
commissario Luigi Calabresi durante il processo da lui
intentato contro “Lotta Continua” |
La tesi del suicidio si basava su due motivi: che il suo alibi
fosse miseramente caduto e che Pinelli fosse crollato psicologicamente
alla notizia della confessione di Valpreda. Ma entrambe le motivazioni
erano facilmente confutabili. L'alibi non era crollato in quanto
diversi testimoni avevano confermato la sua versione. Se poi
avevano detto che Valpreda era colpevole, non era certo il tipo
di notizia che potesse sconvolgere Pinelli in quanto i rapporti
tra i due, come già detto, non erano dei migliori.
Ci sono poi molti particolari tecnici che riguardano il modo
di cadere di un suicida che si getta dall'alto. Non comparivano
graffi sulle mani, che nel volo pare si aggrappino inconsapevolmente
a qualsiasi sporgenza. Non si avvertirono urla, che nella maggior
parte dei casi escono involontariamente dalla gola del suicida.
Anche il modo di cadere era inusuale perché il corpo
non seguì la traiettoria curva dovuta allo slancio indispensabile
a chi si butta dall'alto. Fu invece un cadere che produsse tre
tonfi sordi: uno contro il primo cornicione, l'altro contro
il secondo e infine lo schianto al suolo. Aldo Palumbo disse
di aver pensato che stessero buttando uno scatolone dalla finestra.
Quindi l'impressione è che a cadere sia stato un corpo
già privo di sensi. Gli stessi medici furono stupiti
che non vi fosse sangue che fuoriusciva dal naso e dalla bocca.
A questo punto diversi quotidiani si sentono autorizzati ad
avvalorare le tesi più diverse. Una fu quella dell'incidente
sul lavoro, ovvero che i poliziotti, entrati nella fase calda
dell'interrogatorio, avessero picchiato l'anarchico per costringerlo
a dire qualcosa.
Sull'«Avanti!» comparve la tesi che il ferroviere,
colpito da un fatale colpo di karatè, si rialzasse per
prendere una boccata d'aria e precipitasse nel vuoto. Un'altra
ipotesi, suggerita dall'agenzia «In», fu che Pinelli,
subito dopo l'interrogatorio di Calabresi, fosse stato stroncato
da un infarto.
Scritte comparse allora sui muri di Milano dimostravano che
la teoria del suicidio non era più credibile: «Calabresi
assassino», «Pinelli innocente. Hanno suicidato
Pinelli».
Alcuni testimoni affermarono di aver sentito Calabresi minacciare
Pinelli già in altre occasioni. Una volta, insieme al
responsabile della squadra politica Allegra, gli avrebbe detto:
«Noi possiamo metterti dentro anche se attraversi la strada
con il rosso».
In settembre, durante un picchettaggio davanti a San Vittore
per chiedere la liberazione degli anarchici accusati delle bombe
del 25 Aprile, Calabresi si avvicinò a Pinelli e dopo
uno scambio di battute avrebbe esclamato: «Te la faremo
pagare», ricordò Cesare Vurchio.
Valitutti sostenne inoltre di aver sentito Calabresi dare ordini
affinché Pinelli non fosse lasciato dormire e fosse tenuto
sotto pressione tutta la notte.
Il 27 dicembre la madre e la vedova, quest'ultima anche a nome
delle due figlie, presentarono un atto di denuncia e di querela
nei confronti del questore Marcello Guida per diffamazione continua
aggravata dall'abuso delle pubbliche funzioni. Sotto accusa
frasi come: «È stato coerente con i suoi principi.
Se fossi stato in lui avrei fatto la stessa cosa. Quando ha
visto che la legge lo aveva preso si è tolto la vita»;
«è stato come un cupio dissolvi ... Non vorrete
pensare che l'abbiamo gettato noi ...».
Ma il giudice Amati depositò un verbale di archiviazione
accogliendo le richieste del pubblico ministero Giovanni Caizzi.
Contro questa decisione si schierarono uomini di cultura ed
esponenti politici democratici con un appello pubblicato sull'«Espresso».
In esso si sollecitava la ripresa di un aperto dibattito su
tutta la questione.
Amati rese nota la sua decisione il primo giorno di un lungo
sciopero dei giornali, una settimana di silenzio della stampa.
A sciopero ultimato la notizia uscì in cinque righe:
una notizia stantia, non più di attualità.
Sui muri di Milano comparvero nuove scritte contro la polizia.
Addirittura la targhe stradali in via Brera erano state sostituite:
da una parte si leggeva via Valpreda e dall'altra via Pinelli.
Il giudice Amati nel decreto d'archiviazione sul caso Pinelli
sostenne che non esistevano gli estremi per promuovere l'azione
penale. Convalidò la tesi della polizia basandosi esclusivamente
sulla deposizione dei suoi funzionari. Ma nel decreto di archiviazione
comparivano delle incongruenze. Le prime affermazioni indicavano
mezzanotte come orario dell'interrogatorio, l'ufficio di Calabresi
il luogo, «Valpreda ha parlato!» l'annuncio di Calabresi,
«È la fine dell'anarchia!» la risposta di
Pinelli, che con uno «scatto felino» si sarebbe
lanciato dalla finestra. Ora, a distanza di sei mesi, molti
punti cambiavano: la frase su Valpreda, dichiarava Calabresi,
lui l'aveva detta a Pinelli verso le 20:00; sentendola l'anarchico
si era turbato ed era uscito in quella esclamazione, ma non
si era buttato.
Il brigadiere Vito Panessa, dopo due deposizioni contraddittorie,
interrogato una terza volta per chiarire i fatti disse: «Ho
fatto sì certe ammissioni, naturalmente le confermo,
però adesso le cambio».
La polizia sostenne che al momento del volo Pinelli era in perfette
condizioni fisiche. Il tenente Lograno, che si trovava nell'ufficio
di Calabresi, disse di aver udito l'anarchico, dopo il volo
dal quarto piano, esclamare: «Ah, che dolore! Sto male,
sto male!». Invece i giornalisti accorsi nel cortile della
questura affermarono che Pinelli rantolava senza proferire parola.
Queste contraddizioni non furono prese in considerazione da
Amati.
Al caso Pinelli si intrecciò la vicenda del settimanale
«Lotta continua». Dal 14 Gennaio 1970 il settimanale
pubblicò vignette o articoli che riguardavano il commissario
Calabresi. Ogni volta lo accusavano di aver scaraventato l'anarchico
dal quarto piano di via Fatebenefratelli.
Nonostante le continue provocazioni il commissario non querelò
subito il giornale. Calabresi non ne aveva nessuna intenzione
perché meno si esponeva e meglio era oppure stava solo
temporeggiando perché nell'aria vi era la notizia dell'archiviazione
dell'istruttoria?
In tal caso Calabresi avrebbe potuto presentarsi al processo
praticamente già assolto dall'imputazione di omicidio.
Il 20 Aprile Calabresi si decise a sporgere denuncia per diffamazione
continuata ed aggravata dall'attribuzione di un fatto determinato,
contro Pio Baldelli, il direttore responsabile di «Lotta
continua».
L'intenzione di Lotta continua era chiara: trasformare il processo
per diffamazione in un'istruttoria pubblica sul caso Pinelli.
I legali di Baldelli, Marcello Gentili e Bianca Guidetti Serra,
erano decisi a chiedere al tribunale di acquisire tutte le prove,
sentire testimoni e raccogliere elementi necessari a chiarire
la morte del ferroviere.
Il 9 ottobre 1970 si aprì il processo presieduto dal
giudice Biotti.
Quella mattina, all'interno del palazzo di giustizia, un carabiniere
strappò da una colonna un manifesto con la testa di un
criminale, baffetti alla Hitler e svastica in fronte. «WANTED»
c'era scritto sopra e sotto si spiegava quale sarebbe stata
la ricompensa per chi avesse catturato vivo o morto Calabresi.
All'esterno del palazzo la zona di Porta Vittoria era blindata:
c'erano file di gipponi, decine di autopompe, agenti in tenuta
antisommossa.
Il clima era tesissimo anche dentro al palazzo di giustizia.
Studenti e anarchici si erano dati appuntamento per assistere
al processo e affollavano gli ampi corridoi perché l'aula
era piena. Intonarono l'internazionale durante il primo intervento
di Baldelli, gridarono cori contro Calabresi e chi era in aula
non poté fare a meno di sentire i rumori provocati dalle
cariche della polizia all'esterno.
Le dichiarazioni di Calabresi e degli altri presenti nel suo
ufficio la notte del 15 dicembre 1969 mostrarono uno scenario
completamente diverso da quello delineato nella prima conferenza
stampa tenuta in questura: Pinelli appariva sereno e disteso
in quanto non vi erano accuse a suo carico e non gli erano state
mosse contestazioni.
Si mostrarono tutti d'accordo sul suo buon umore probabilmente
per evitare di essere accusati di istigazione al suicidio o
addirittura di omicidio colposo.
Nessuno dei presenti vide come l'anarchico aveva spiccato il
salto, anche se nella versione data a Caizzi molti avevano parlato
di «salto», «lancio», «scatto
felino», «balzo repentino verso la finestra».
Lograno disse di essersi distratto, di aver sentito solo un
gran rumore di legno sbattuto, allora lo sguardo era tornato
alla finestra, che era completamente spalancata. Inquadrate
al centro, nel vuoto, le suole di Pinelli. Allora il tenente
dei carabinieri gridò: «Si è buttato, si
è buttato!».
Caracuta stava riordinando dei fogli, si voltò sentendo
il rumore dell'anta e vide il brigadiere Panessa che si sporgeva
per afferrare qualcosa.
Carlo Mainardi raccontò che il ferroviere, messa la mano
nello spiraglio tra le due ante, di colpo ne sbatté in
faccia una allo stesso poliziotto e si lanciò. Non poté
fare nient'altro che cercare di «cinturare» il brigadiere
che si era sporto per cercare di afferrarlo.
Lo stesso Panessa, che dopo l'accaduto aveva più volte
parlato di «scatto felino», disse che sentì
Pinelli dare un colpo all'anta e poi volò giù,
sfiorandolo con un piede, che vide nel momento in cui si voltò.
Il brigadiere, a un certo punto del processo, arrivò
a usare l'espressione «versione concordata», per
indicare la dichiarazioni fatte a Caizzi, ma dopo un ammonimento
di Biotti («lei parla troppo»), si corresse parlando
di uno scambio di idee.
La difesa di Baldelli ottenne un sopralluogo nella stanza in
cui venne interrogato Pinelli. Lo spazio era decisamente ridotto
rispetto a una piantina mostrata in precedenza, perché
i periti incaricati avevano ridotto le dimensioni dell'arredo
presente nella stanza.
Venne chiesto di poter visionare il registro dei fermati, che
confermò l'illegittimità del fermo del ferroviere,
ma comparve anche una raccapricciante annotazione fatta da un'anonima
guardia: alle ore 12:00 del 17 Dicembre Pinelli risultava messo
in libertà, mentre era già morto da quasi trentasei
ore.
Importante per chiarire il clima dell'interrogatorio fu la testimonianza
di Valitutti. Egli, che al momento del volo si trovava nel corridoio
adiacente all'ufficio, dichiarò di aver sentito un rumore
come di oggetti che si urtavano tra loro un quarto d'ora o mezz'ora
prima della caduta.
I difensori chiesero una nuova perizia per stabilire se Pinelli,
quando precipitò dalla finestra, era già in stato
di incoscienza; il che escluderebbe il suicidio.
Tale richiesta venne avanzata perché l'accertamento svolto
nell'inchiesta di Caizzi era assolutamente insufficiente per
stabilire le cause della morte e inoltre era stata trascurata
una lesione riscontrata alla base del collo (quella che diede
origine alla teoria del colpo di karatè).
Furono
così convocati periti esperti per accertare le cause
della macchia ovulare alla base del collo. Però dovettero
eseguire la perizia solo sulla carta utilizzando i verbali,
le fotografie del cadavere e le valutazioni dei primi esperti
intervenuti.
Ma dall'analisi di questi documenti emerse ben poco: secondo
i periti della parte civile la macchia ovulare era dovuta alla
lunga permanenza sul tavolo dell'obitorio, mentre quelli della
difesa non esclusero che si trattasse di un colpo di karatè.
Gli avvocati di Baldelli chiesero una perizia completa che avesse
come base i resti della vittima, previa riesumazione, tutti
i reperti che si trovavano all'Istituto di medicina legale e
tutti i rilievi raccolti dal tribunale.
Il tribunale concesse la riesumazione, andando contro un'agguerrita
parte civile.
Ma a questo punto vi fu un colpo di scena. L'avvocato di Calabresi,
Michele Lerner, ricusò il giudice Biotti.
Lerner sostenne che, in seguito ad un colloquio privato, Biotti
gli aveva confidato che alcuni giudici avevano fatto pressioni
su di lui perché assolvesse Baldelli e che tanto lui
che gli altri giudici erano convinti che il colpo di karatè
fosse stato inferto a Pinelli provocandogli la lesione del bulbo
spinale. Il giudice negò di aver mai riferito una cosa
del genere a Lerner.
Alla fine la tomba restò chiusa e il 7 giugno 1971 la
Corte d'Appello rimosse il giudice dall'incarico, accettando
la ricusazione; e il processo si arenò definitivamente.
Ma la vedova dell'anarchico non si arrese e il 24 Giugno, tramite
i suoi legali, chiese la riapertura dell'istruttoria e l'incriminazione
di tutti i poliziotti coinvolti per i reati di omicidio volontario,
violenza privata, sequestro di persona, abuso d'ufficio e abuso
d'autorità.
La procura generale decise di riaprire l'istruttoria e il fascicolo
fu assegnato al magistrato Gerardo D'Ambrosio che come prima
cosa, a distanza di ventuno mesi dalla morte dell'anarchico,
fece sequestrare la cartella clinica, ignorata dall'inchiesta
precedente.
Fu sequestrato alla Vigilanza Urbana il registro delle chiamate
delle autoambulanze richieste dalla questura, un documento che
avrebbe dovuto essere in mano alle autorità il giorno
dopo la morte di Pinelli.
Il 5 ottobre 1971 D'Ambrosio inviò sei avvisi di reato
contro Luigi Calabresi, e i sottufficiali di Pubblica Sicurezza
Panessa, Caracuta, Mainardi, Mucilli e il capitano dei carabinieri
Lograno.
Il 21 ottobre la salma dell'anarchico venne finalmente riesumata,
ma ormai era difficile scoprire qualcosa visto l'avanzato stato
di decomposizione. Comunque emersero due nuove fratture.
La sentenza finale, emessa il 27 ottobre del 1975, escluse l'ipotesi
dell'omicidio volontario, ma anche quella del suicidio. Questa
sentenza individuò la causa della morte di Pinelli nel
cosiddetto «malore attivo»: per fumare una sigaretta
Pinelli si avvicinò alla finestra, la aprì e «una
improvvisa vertigine, un atto di difesa nella direzione sbagliata,
il corpo ruota sulla ringhiera e precipita nel vuoto».
D'Ambrosio prosciolse tutti gli imputati perché «la
mancanza di prove che un fatto è avvenuto equivale nel
nostro sistema processuale [...] alla prova che un fatto non
è avvenuto». Calabresi, non più commissario
aggiunto, ma capo, era morto da tre anni: ucciso a colpi di
pistola il 17 maggio 1972.
Quando ricordiamo i fatti del 12 dicembre non possiamo ignorare
la vicenda dell'anarchico Pinelli. Ancora oggi la questione
rimane controversa, come dimostrano anche le due lapidi presenti
in Piazza Fontana.
Su una, quella posta dalle autorità, si legge: «A
Giuseppe Pinelli, ferroviere anarchico, innocente morto tragicamente,
nei locali della questura di Milano, il 15-12- 1969».
Sull'altra, collocata nella piazza dai compagni del ferroviere,
c'è scritto: «A Giuseppe Pinelli, ferroviere anarchico,
ucciso innocente nei locali della questura di Milano, il 16-12-1969».
Questa porta la firma degli studenti e dei democratici milanesi.
Nel 2009 il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano,
ha invitato la vedova e le figlie dell'anarchico Pinelli tra
i familiari delle vittime del terrorismo e delle stragi.
Ecco le parole con cui Napolitano, in questa occasione, ricorda
il ferroviere: «Ricordare la strage di Piazza Fontana
a Milano e con essa l'avvio di un'oscura strategia della tensione,
come spesso fu chiamata, significa ricordare una lunga e tormentatissima
vicenda di indagini e di processi, da cui non si è riusciti
a far scaturire una esauriente verità giudiziaria [...].
Rispetto ed omaggio dunque per la figura di un innocente, Giuseppe
Pinelli, che fu vittima due volte, prima di pesantissimi infondati
sospetti e poi di un'improvvisa, assurda fine [...]. Qui si
compie un gesto politico e istituzionale, si rompe il silenzio
su una ferita, non separabile da quella dei diciassette che
persero la vita a Piazza Fontana, e su un nome, su un uomo,
di cui va riaffermata e onorata la linearità, sottraendolo
alla rimozione e all'oblio. Grazie signora Pinelli, grazie per
aver accettato, lei e le sue figlie, di essere oggi con noi
...».
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