storia
La Repubblica nata dalla Resistenza
(molto fumo, poco arrosto)
di Dino Erba
Dietro alle quinte della retorica patriottarda, alcuni squarci di storia aiutano a comprendere come nacque questo Stato.
E il ruolo del PCI, in particolare di Togliatti.
Nessun sovversivo degno di
questo nome ha mai dato credito alla Repubblica nata dalla Resistenza,
anche se l'eroismo del parto – la lotta partigiana –
potrebbe alimentare illusioni su possibili e differenti sviluppi,
rispetto a quelli che oggi ci incombono. Ma le cose andarono
assai peggio di quanto molti – seppur disillusi –
si immaginano.
La Repubblica nata dalla Resistenza è frutto di un compromesso
deteriore tra le due grandi forze politiche della borghesia
italiana: i clericovaticani della Democrazia cristiana con Alcide
De Gasperi e i nazionalcomunisti del Partito comunista italiano
con Palmiro Togliatti.
Un compromesso
deleterio, ancor oggi dilagante
Lo sappiamo, il punto d'approdo di tale compromesso fu l'articolo
7 della Costituzione, che regola i rapporti tra lo Stato italiano
e la Città del Vaticano, in base ai Patti Lateranensi,
proposti da Mussolini e ben accetti dal papa (11 febbraio 1929).
Stabilendo così una sostanziale continuità tra
il nuovo e il passato (e deprecato) regime. Ma questo è
solo un aspetto, certamente significativo, ma forse secondario.
Dc e Pci avevano in comune una concezione politica nazionalpopolare
– e quindi aclassista – che, pur diversamente declinata,
dette fondamenta al condiviso percorso politico moderato, che
connotò la vita del Bel Paese nei cruciali anni del dopo
guerra, ma anche in seguito (e ancor oggi, direi, con la giunta
milanese Pisapia-Tabacci, che ha aperto la via al governo «tecnico»
Monti-Fornero-Passera). Tale percorso, il Pci lo compendiò
nel concetto di «democrazia progressiva», cui la
Dc rispose con quello di «progresso senza avventure».
Per poter percorrere senza «avventure» la strada
della «democrazia progressiva», Dc, Pci e «compagni
di merende» dovettero eliminare o emarginare ogni voce
fuori dal coro, a partire dai repubblicani anti-monarchici e
anti-clericali, passando per i socialisti di sinistra fautori
della democrazia consiliare, sostenuta peraltro da molti anarchici,
in cui prevalevano comunque inequivocabili sentimenti anti-statali,
finendo con i comunisti internazionalisti, decisamente orientati
verso una visione classista e proletaria dei rapporti sociali.
Tutti costoro furono coinvolti, spesso loro malgrado, nelle
vicende che dettero vita alla Repubblica – ovvero nella
guerra di Liberazione –, in cui tentarono di aprire spazi
per soluzioni politiche, se non rivoluzionarie, almeno foriere
di un progresso meno «frenato», che favorisse i
ceti subalterni, sul piano economico come su quello sociale
(famiglia, scuola, sanità ...).
La loro attività si svolse fuori o ai margini del Comitato
di Liberazione Nazionale, unico organismo preposto – con
il beneplacito degli Alleati ... e del Vaticano – a rappresentare
politicamente gli italiani. Come è noto, il Cln fu costituito
da sei partiti, di cui due, democristiani e nazionalcomunisti,
tiravano le fila, due – liberali e demoliberali –
gli reggevano la coda, spesso con proprio tornaconto, e altri
due infine – socialisti e azionisti – ingoiavan
rospi, raccattando però
Una
democrazia octroyé ...
Per quanto limitati potessero essere, i dissensi potevano
suscitare «malsane passioni» nel «popolo bue»,
turbando il delicato idillio tra i due loschi partner.
Il compito di braccio armato della ragion di Stato lo assunse
il Pci. Troppe, e troppo repentine, erano le giravolte che doveva
far digerire a militanti e a proletari con sangue nelle vene.
Che allora erano anche troppi. Senza andar per il sottile, alcuni
avversari furono passati per le armi; gli assassinî di
Fausto Atti e Mario Acquaviva sono noti. Ma quelli erano metodi
che se andavano bene nel «Paese del socialismo»,
erano ancora indigesti nel «Paese della democrazia progressiva».
E allora, complice la clerical prudentia, fu stabilita
una democrazia octroyé (concessa), in cui il diritto
di rappresentanza politica viene concesso in base a quei criteri
che George Orwell avrebbe descritto nella Fattoria degli
animali, dove alcuni sono più uguali, altri sono
meno uguali, o non sono affatto uguali. Non esistono.
Un banco di prova per la nascente democrazia italiana fu la
scelta dei membri della Consulta Nazionale, organismo costituito
nell'aprile 1945 per dare pareri sui problemi generali e sui
provvedimenti legislativi del governo e che restò in
carica fino al 2 giugno 1946, quando fu eletta l'Assemblea Costituente.
Della Consulta fecero parte di diritto gli ex parlamentari,
che il governo fascista aveva dichiarato decaduti il 9 novembre
1926 (inviandone molti nelle galere). Tra costoro c'era Onorato
Damen, deputato comunista ed esponente della dissidenza di sinistra.
Espulso dal partito nel 1929, restò sempre coerente al
suo orientamento, combattendo il «socialismo in un Paese
solo » di Stalin e tutte le deleterie conseguenze che
ne derivavano sul piano della pratica politica (nonché
carceraria). E tra mille difficoltà (non ultima mettere
insieme il pasto con la cena di moglie e figlia), animò
la corrente rivoluzionaria che, nel 1942-1943, costituì
il Partito comunista internazionalista. Un bel pedigree,
il suo, non c'è che dire, che provocò subito il
veto di Togliatti, contro la sua partecipazione alla Consulta.
In sede di Consiglio dei ministri, il «Migliore»
bollò Damen come fascista, collaboratore del fascismo
repubblichino, e chi più ne ha più ne metta. Calunnie
che ebbero il consenso dell'azionista Emilio Lusso e del socialista
Giuseppe Romita. Bontà sua, il liberale Manlio Brosio
definì invece Damen un «marxista vecchio stile»
[Verbali del consiglio dei ministri, Governo Parri, 21
giugno 1945-10 dicembre 1945, Edizione critica, Presidenza del
Consiglio dei Ministri, Dipartimento per l'informazione e l'editoria,
Volume secondo, p. 1105].
...
meschina e pavida
Romita e Lussu, oggi nel Pantheon dei padri della Repubblica,
si comportarono assai meschinamente. Essi avrebbero dovuto sapere,
anzi sapevano, che Damen, arrestato l'11 novembre 1926, era
stato condannato a 12 anni di reclusione dal Tribunale speciale
fascista; ne scontò sette in vari penitenziari, tra cui
Civitavecchia, dove organizzò una rivolta. Liberato alla
fine del 1933, fu inviato per cinque anni al confino; giudicato
un «comunista irriducibile», subì più
volte l'arresto e il fermo di polizia; con la guerra (giugno
1940), fu confinato nuovamente e riacquistò la libertà
al crollo del fascismo (25 luglio 1943). Dopo di che, dovette
guardarsi le spalle da nazi-fascisti e da stalinisti, e da questi
ultimi, anche dopo la «Liberazione» (25 aprile 1945).
Ma se non era fascista, Damen era ben più pericoloso,
per la pavida democrazia italiana; in quella delicata congiuntura,
egli denunciava il carattere imperialistico e antiproletario
di entrambi i fronti belligeranti, quello democratico e quello
fascista – entrambi impegnati a succhiar sangue operaio–,
e cercava di organizzare i proletari in un partito di classe,
indipendente. Con qualche successo.
Se fosse stato fascista, avrebbe dovuto aver solo pazienza;
e attendere il 22 giugno 1946, quando il guardasigilli Togliatti
varò l'amnistia che liberò uno stuolo di criminali
fascisti. Il «Migliore» lo fece in nome della «concordia
nazionale», che certamente «concordò»
i borghesi, che col fascio avevano conservato i propri privilegi;
ma non certo i proletari, che col fascio avevano conosciuto
soprattutto il bastone e l'olio di ricino, per digerire le poche
carote ricevute.
I meno compromessi col littorio, intanto, già avevano
preso la tessera del partitone, ed erano ben accolti e sistemati,
visto che uscivano tutti dalla buona borghesia. Uno di costoro
ha fatto carriera, e ce lo ritroviamo oggi alla presidenza della
repubblica, nata dalla Resistenza, a pontificar di libertà
e democrazia. Ma sempre con quella «moderazione e prudentia»
che in passato gli fece scegliere le soluzioni, e le compagnie,
più «rassicuranti», come i carri armati russi
che a Budapest, nell'ottobre 1956, spararono sugli operai. Salvando
così il «sistema di Yalta», voluto da Roosevelt
e Stalin.
Brevi
considerazioni sul «caso Damen»: fu un errore giovanile
o un vizio congenito della nascente democrazia repubblicana?
Di primo acchito, si potrebbe pensare che l'esclusione di
Onorato Damen dalla Consulta potrebbe essere stato un errore
giovanile della nascente democrazia repubblicana, causato da
fattori contingenti. Sarebbe stato quindi un incidente di percorso
che, debitamente corretto, avrebbe potuto evitare le «scandalose»
degenerazioni cui assistiamo oggi.
Ma era possibile correggere il processo in atto? Per rispondere
NO, non occorre il senno di poi. L'esclusione di Damen fu un
peccato originario della Repubblica nata dalla Resistenza, che
pretendeva di combattere il fascismo senza rimuoverne le cause,
ovvero il capitalismo, un sistema economico fondato sulla divisione
della società in classi. Cadendo così in un vicolo
cieco, in cui la lotta al fascismo finisce per essere affidata
allo Stato, proprio a quello Stato che il fascismo esaltò
e che la democrazia «moderna» ha ereditato con prefetti,
questori e questurini, ma soprattutto con il nascente welfare
– oggi diventato workfare –, affilandone
via via gli artigli che esso affonda nella società, e
di cui la Fornero ci offre l'ultima versione (in ordine di tempo)
Allora, un decisivo sostegno alla statolatria lo apportarono
i nazional-comunisti del Pci, trovando poca opposizione, nella
teoria e ancor meno nella pratica. I sovversivi (degni di questo
nome), anarchici e marxisti che dir si voglia, in quei tristi
frangenti non ebbero piena percezione dell'incombente deriva
statalista. I marxisti, perché non riuscivano a conciliare
la teoria «anarchica» del Lenin di Stato e Rivoluzione,
con la pratica della dittatura proletaria nella Russia dei Soviet.
Mentre gli anarchici – dopo gli esaltanti sviluppi delle
collettivizzazioni in Spagna nel luglio-settembre 1936 –
non capivano come lo Stato avesse potuto, poi, risorgere, e
massacrarli. Non videro, infatti, che il pragmatismo «leninista»
dei quattro ministri anarchici nel governo della repubblica
spagnola aveva contribuito a rianimare uno Stato, che era sul
punto di esalare gli ultimi respiri ... Ma questa è un'altra,
triste, storia.
Dino Erba |