teatro in Bolivia 2
La parola alla cultura indigena
di Federica Rigliani
Due registi cileni nell'altopiano boliviano alla fine degli anni '60 per realizzare il teatro Kollasuyo, popolare e atavico, costruito a partire dal mito e dal sogno.
Il Teatro Kollasuyo è
un'esperienza che segna un momento molto importante nel teatro
boliviano. Con questo gruppo, infatti, per la prima volta il
teatro entra in una comunità rurale autoctona per assorbirne
ritmi di vita e di lavoro, rispettare gli atavici e tradizionali
cicli di semine e raccolti dei suoi abitanti e ascoltare, silenzioso,
gli uomini morenos parlare e raccontarsi. Possiamo definirlo,
quindi, il primo teatro indigeno-campesino realizzato
con e da gli abitanti delle Ande.
Era la fine degli anni sessanta quando Gabriel Martínez
e sua moglie Verónica Cereceda fondarono il Teatro
Kollasuyo nella regione di Oruro, situata tra quelle di
La Paz e Potosí, nel sud della Bolivia. Ma la loro storia
ha inizio in Cile, terra di origine di entrambi, dove lavorarono
a lungo nella cittadina universitaria di Concepción.
Avevano un teatro-tenda chiamato El Caleuche.
Mito molto conosciuto nel sud del Cile, quella del Caleuche
è la storia di una nave fantasma che appare nel buio
della notte con le luci accese, le vele spiegate e l'equipaggio
condannato. Ogni qual volta Gabriel e Verónica issavano
il tendone e lo riempivano di tutti gli oggetti che servivano
al teatro, dalle tende ai teloni, dalle fioche luci di scena
ai suoi teatranti erranti, rievocavano questo mito e lo facevano
rivivere nei luoghi che visitavano. Durante la campagna elettorale
pro-Allende del 1964, la loro tenda-teatro divenne il
punto di contatto di numerosi artisti e intellettuali, e se
Gabriel e Verónica rappresentavano lì un teatro
di grande qualità, basato esclusivamente su drammaturgie
nordamericane ed europee, in quel tendone Pablo Neruda e Nicanor
Parra leggevano le loro poesie.
Man mano che El Caleuche visitava l'entroterra cileno,
avvicinando culture e tradizioni locali, la coppia percepiva
uno scontento professionale che la mise ben presto di fronte
a una crisi ideologica e artistica: “Io ero cosciente
che il nostro era un buon teatro d'intrattenimento, niente più
di questo... quello che facevamo non entrava profondamente nella
gente e nel pubblico, non eravamo capaci di produrre in loro
profondi processi spirituali”.1
Animati dall'ansia di una nuova ricerca teatrale indirizzata
in qualche modo verso l'esperienza mistica e catartica, i Martínez
non sapevano quale fosse la strada da seguire, né quali
obiettivi prefiggersi in questo cammino che sentivano assolutamente
necessario: “Quello che invece sapevamo con certezza era
che non volevamo continuare a fare quel tipo di teatro che avevamo
sempre fatto: il teatro europeo, il teatro spagnolo, il teatro
occidentale, l'ultimo grido di New York...”.
Cominciarono a pensare di lasciare il Cile, sia perché
delusi dal pubblico cileno “non ci incitava, non ci permetteva
di svolgere una ricerca così come noi volevamo farla”,
sia a causa della situazione politica interna. Quando la schiacciante
vittoria di Eduardo Frei Ruiz su Salvador Allende impedì
di fatto l'apertura a un rinnovamento politico, il loro desiderio
di partire si trasformò in un'esigenza. Divenne fondamentale
cercare un villaggio, una società dell'America del Sud
che rappresentasse un nuovo uditorio e l'occasione per lavorare
con artisti “per i quali l'esercizio del teatro fosse
realmente, ogni notte, con sacralità, una notte di consegna,
di sfida, di creazione e, pertanto, di disciplina interiore”2.
Indecisi tra Guatemala e Bolivia, alla fine optarono per quest'ultima:
“Quando giunse il momento di lasciare il Cile [...] la
scelta cadde sulla Bolivia, senza sapere esattamente che cosa
avremmo trovato. [...] Avevamo dei contatti. Eravamo stati a
Cochabamba, sapevamo che c'era qualche possibilità di
lavorare nell'università di Oruro, nient'altro. Andai
a parlare con il rettore, già intenzionato a creare un
teatro universitario, [...] noi non proponemmo un teatro legato
alla sperimentazione e allo stile dei teatri universitari esistenti
in America Latina. Noi volevamo fare un teatro nuovo”.
Volevano trovare nuove forme e nuovi contenuti per un teatro
“che parlasse al cuore della gente”, ancorato alle
tradizioni locali e alla cultura autoctona: “Sapevamo
chiaramente che il nostro teatro doveva essere molto, molto
vicino alla cultura tradizionale, alla cultura indigena, però
quale dovesse essere la sua forma concreta, quale il suo aspetto
reale, scenico e drammaturgico, non lo sapevamo proprio [...].
Per noi, fu davvero un'avventura, una ricerca, un'ansia di trovare
cose nuove”.3 E la Bolivia,
abitata per oltre il 60 per cento da indigeni che vivono con
forte spiritualità e intenso misticismo anche la ritualità
quotidiana, avrebbe offerto loro la formula.
Quando arrivarono, nella metà degli anni '60, continuarono
a fare i conti con una realtà sociale non molto dissimile
da quella da cui si erano allontanati. La società boliviana
era delusa e amareggiata dalla gloriosa Rivoluzione Nazionale
del 1952, all'indomani della quale il paese non incontrò
il reale processo di liberazione economica e di progresso sociale
che tanto si aspettava. L'originale sentimento rivoluzionario,
lo stesso che visse a fianco di Nuevos Horizontes e che
vide la nazionalizzazione delle miniere, l'istituzione del voto
universale e l'abolizione del latifondo, era stato lentamente
schiacciato dalla corruzione interna del MNR (Movimento Nazionalista
Rivoluzionario), il partito di governo. E il futuro sarebbe
stato ancor più oscuro: il colpo di stato del 1964 di
René Barriento Ortuño avrebbe inaugurato un periodo
di diciotto anni di potere militare alternato all'elezione di
tre presidenti civili per una durata complessiva di soli quattro
anni di governi democratici. Mentre tutta l'America Latina viveva
l'effervescenza della Rivoluzione Cubana, l'esperienza della
guerra del Vietnam e il sogno integralista nel continente, la
Bolivia, nonostante investita già da un decennio da sentimenti
rivoluzionari, fu tra i primi paesi a passare da un potere democratico
all'autoritarismo militare.
Il problema
linguistico
Nella cittadina di Oruro la collaborazione con l'Università
partì grazie al rettore Julio Garret che accettò
il loro progetto. Da questo momento in poi tutta la loro esperienza
teatrale si volse alla ricerca di quella spiritualità
che animasse e motivasse dal profondo i loro attori e il loro
pubblico. Inaugurarono un teatro universitario dai tratti nuovi:
“Era un teatro universitario di nuovo tipo, con un altro
stile, realizzato dagli studenti più poveri e umili,
non universitari al modo cileno o europeo che si dedicano al
proprio corso di studio approfondendo altre attività
culturali, ma meticci umili e indigeni più poveri della
città”. Sua moglie Verónica cominciò
a scrivere un'opera basandosi sugli scritti di Canal Fejó,
autore che guardò molto al folclore del nord dell'Argentina,
e questo materiale si avvicinava molto al mondo quechua,
l'etnia prevalente della zona scelta, e alla sua area culturale.
Il racconto fu drammatizzato e messo in scena con il nome El
atoj Juancito.
Già in questo primo lavoro il Teatro Kollasuyo
cominciò ad esprimere una revisione totale del punto
di vista della messa in scena e della scenografia: non più
il teatro frontale, non più il telone, non più
un sistema complesso di illuminazione, nella loro ricerca di
un contatto maggiore con lo spettatore il pubblico doveva circondare
la scena o trovarsi molto vicino ad essa. E questo rompeva con
tutti gli schemi scenici presentati fino a quel momento. L'altra
grande novità fu l'uso della lingua autoctona, il quechua:
“Presentammo la nostra opera in spagnolo chiedendoci cosa
sarebbe successo se avessimo reso delle battute in lingua quechua.
Facemmo una prova e, con l'aiuto di persone legate al mondo
universitario di Cochabamba che conoscevano molto bene il quechua,
scrivemmo l'introduzione e traducemmo un episodio.” Fu
proprio usando il quechua che capirono quanto uno dei
problemi maggiori della ricerca che si prefiggevano era quello
linguistico: per parlare al pubblico cui volevano rivolgersi
era necessario l'uso della lingua autoctona come lingua teatrale:
“Il nostro pubblico era un pubblico popolare. Noi non
facevamo pagare l'ingresso, distribuivamo semplicemente biglietti
gratis alle 'cholitas', ai meticci, alla gente del villaggio
di Oruro, alla gente del mercato, agli operai... Tutta gente
povera. [...] Improvvisamente, durante lo spettacolo [...] questo
pubblico ascoltò un episodio nella sua propria lingua
e, senza rendersi conto del passaggio linguistico, incominciò
a partecipare di più, cominciò a ridere, a integrarsi
allo spettacolo, a goderne pienamente. Poi tornò lo spagnolo.
Questo ci indicò chiaramente che una delle linee del
lavoro era la lingua, la lingua autoctona, la lingua che per
tutta questa gente è la propria lingua, la lingua che
danno con il latte quando allattano i bambini”.
Questo portò inevitabilmente a una immediata rivalorizzazione
della lingua nativa: la elevarono dal folklore locale cui era
stata confinata legittimandone l'uso in teatro, nei processi
creativi e in quelli artistici. Lo stesso Gabriel sosteneva
che per loro “valorizzare la lingua quechua [...]
come lingua teatrale significava darle la possibilità
di esprimersi artisticamente... Quello che sapevamo della lingua
rispetto al teatro è che in Bolivia si faceva e si era
fatto solo un teatro in lingua spagnola, tranne una piccolissima
parentesi antecedente [...], come la rappresentazione del Carnevale
di Oruro o la Morte di Atahualpa che non bastarono
a dare al quechua un posto nell'espressione artistica
locale, bensì nel folclore”.
Da queste premesse Gabriel e Verónica svilupparono la
fase forse più importante del loro lavoro: scendere in
profondità. Desideravano lavorare con i campesinos,
trovare con loro, nel loro mondo, la formula di un teatro nuovo
che non riuscivano a teorizzare, far fluire un nuovo processo
creativo per immaginare drammaturgie provenienti da quel mondo
e ad esso riconoscibili: “Vedevamo passare gli indigeni
a Oruro con i 'bastones de mando' e i vestiti peculiari,
isolati in loro stessi, padroni di un proprio essere che ci
risultava affascinante. Era quella la 'vera Bolivia' che volevamo
penetrare”. Si rivolsero ancora al rettore e gli esposero
la ferma intenzione di voler lavorare per un teatro 'popolare'
davvero indigeno che affondasse le proprie radici nella cultura
tradizionale andina: “Non vogliamo più fare né
El atoj Juanito, né il teatro che facevamo in
Cile. Ci dia il permesso per fare teatro con le comunità,
creiamo un teatro davvero indigeno, di lingua quechua,
che abbia i suoi propri contenuti e un'organizzazione drammatica
e scenica diversa”4. Non
più un teatro urbano, quindi, ma un teatro per le comunità.
Volevano lavorare con gli indigeni che non parlavano lo spagnolo,
sperimentare un teatro davvero indigeno-campesino, trovare
nuove forme sceniche ai nuovi contenuti che speravano di avvicinare
e generare risoluzioni artistiche come frutto della partecipazione
dei nativi al processo creativo.
Interessato al progetto, e di fatto di nuovo motivato ad appoggiarli,
Garret creò le condizioni perché i Martínez
potessero trasferirsi a vivere in una comunità rurale:
“Non conoscevamo molto bene la Bolivia, viaggiammo molto
per scegliere quale delle aree indigene ci sembrasse più
interessante e rimanemmo affascinati dalla zona di Charazani.
Era molto importante da un punto di vista culturale, oltre ad
essere parte integrante della cultura andina e delle sue tradizioni,
mantiene degli aspetti propri molto forti. Lunlaya fu la nostra
comunità, i suoi abitanti furono i nostri attori, il
quechua la nostra lingua e i materiali li estraemmo da
loro, dalla loro cultura.”
Come
un gioco
A proposito dell'incontro con la gente della comunità,
avvenuto nel 1968, Gabriel mi disse: “Sarebbe stato più
facile parlar loro di coltivazioni di patate... ma teatro? Non
conoscevano quella parola”. Il loro ingresso fu difficile,
gli abitanti avvezzi al loro atavico isolamento li guardavano
con diffidenza. Dovettero farsi conoscere, concedersi affinché
si manifestasse la fiducia che avrebbe garantito l'apertura
e l'integrazione, così trascorsero i primi sei mesi semplicemente
vivendo, incontrando le persone, partecipando ai lavori agricoli
e alle loro feste. Provando a parlare il quechua. Sapevano
che i comuneros non avrebbero capito le loro intenzioni
se non avessero imparato a confidare ciecamente in loro. Dopo
un periodo di convivenza, però, gli abitanti capirono
la nuova realtà che si era aggiunta ai loro ritmi vitali
e Gabriel e Verónica iniziarono a farli incuriosire con
la pratica di alcuni esercizi fisici e di improvvisazione. Inizialmente
furono presi come un gioco nel quale gli abitanti della comunità
dovevano “fare finta”, questo li incuriosiva. Ma
come procedere dopo il training, l'allenamento fisico e le improvvisazioni?
Come farli entrare in un processo creativo partecipato?
Pensarono al mito e al sogno. Secondo Gabriel e Verónica,
mito e sogni avrebbero potuto essere raccontati come una 'realtà
presente', sentita in maniera forte in ciascuno di loro, familiare,
autentica e ancestrale. A loro avviso lavorare su miti e sogni
avrebbe potuto offrire un 'materiale teatrale' capace di mettere
in scena l'interiorità autoctona e gli indigeni si sarebbero
riconosciuti facilmente nei temi rappresentati. Questo era un
aspetto molto importante strettamente legato alla storia andina
e alle tradizioni di questa gente, alla religione e a un forte
clima spirituale che avrebbe dovuto garantire una profonda partecipazione
emotiva interiore. Scelsero il mito regionale del Meqalo: “Quello
del Meqalo è un mito molto suggestivo. È un essere
antropomorfo che visita le valli di Lunlaya, che scendono giù,
fino alla conca amazzonica”. In estate, durante la stagione
delle piogge, la quantità di acqua che precipita genera
molta umidità e una nebbia sale dalle valli più
basse verso il canyon di queste terre frastagliate. Si dice
che il Meqalo, essere particolarmente elastico e un po' ondulante,
con una lunga coda e una luce intensa sul viso, si allunghi
e si accorci nei crepuscoli di Lunlaya risalendo la valle, volando
rasoterra per sedersi poi sulle rocce più grandi che
la sovrastano. Lì rimane per molto tempo osservando silenzioso
i luoghi che lo circondano con sguardo penetrante. Si dice sia
l'aiutante del Inca Rey e vigili i suoi tesori sotterrati in
questa valle per restituirglieli al suo ritorno. E proprio per
la sua vicinanza al mito panandino del Inca Rey fu scelto. Perché
del Inca si aspetta il ritorno. Lui restituirà a queste
popolazioni il maltolto, in termini materiali e morali, li salverà
dalla povertà e restituirà loro il rispetto negato
dalla storia degli uomini: “Per tutti loro questo mito
[...] incarnava il ritorno della dignità e della giustizia,
nonché la valorizzazione della cultura andina. Cosa succederebbe
se tornasse? Chiesi loro.” E tutti cominciarono a immaginarne
la venuta.
Per sviluppare questi temi Gabriel e Verónica tentarono
due vie parallele: lui curava l'attività fisica degli
attori, basata soprattutto sull'improvvisazione, cercando di
provocarli e stimolarli, immaginando come avrebbe dovuto verificarsi
la venuta del Meqalo; lei raccoglieva, registrandole e trascrivendole,
le testimonianze di lunghe conversazioni, soprattutto i racconti
dei sogni degli abitanti.
Tutto avrebbe portato alla realizzazione di Ukhu Ukhumanta,
'dal più profondo' in lingua quechua, spettacolo
che nella parte riguardante il mito doveva provocare un fatto
reale: l'arrivo e l'incarnazione del Meqalo in uno degli attori.
Gabriel sottolineava con fervore l'enorme pressione a cui il
gruppo di attori venne sottoposto: “Ottenemmo tutto attraverso
una pressione psicologica e spirituale molto forte che esercitammo
su di loro. Non si parlava di nient'altro che del Meqalo, se
qualcuno lo aveva mai visto o sognato [...]. Pian piano la sua
immagine si oggettivò nella loro fantasia e divenne sempre
più concreta; [...] lavoravamo tutta la notte, masticando
coca e conversando con la gente. Chiaramente non avevamo luce
elettrica, per cui parlavamo al chiarore di queste lampadine
molto fioche, in una penombra molto intima all'interno di un
piccolo spazio, una specie di capanna di rami e fango. Inoltre,
c'era sempre la musica. Non ricordo più se fui io o Verónica
o un campesino a suggerire la possibilità di evocarlo
con la musica, e la musica di Cherazani era molto impressionante.
Suonavano dei bombos grandissimi fatti con il tronco
degli alberi e il suono era molto grave, ti smuoveva le viscere”.
A questo dobbiamo aggiungere che la chiamata del Meqalo era
sempre legata a un rito propiziatorio, una cerimonia rituale
che consisteva nel salire sulle vette delle montagne e invocare
le divinità che abitano il loro interno, perché
sulle Ande le montagne rappresentano esseri divini. A loro chiedevano
aiuto affinché favorissero l'arrivo del Meqalo con chiamate
ogni volta più potenti e angustianti, quasi angosciose.
Gabriel voleva riprodurre una situazione “da riti woodu”:
“speravo che improvvisamente qualcuno si sentisse posseduto
dal Meqalo e diventasse egli stesso il Meqalo”. Secondo
lui, infatti, la presenza vitalizzante del Meqalo doveva passare
attraverso il corpo di uno degli attori producendo in lui uno
stato di estasi e rapimento. Ma durante l'interpretazione di
uno di questi rituali, un attore cadde in una specie di trance
e sbatté la testa contro le rocce. In quello stato di
semi incoscienza chiamava e richiamava il Meqalo piangendo disperatamente
“un pianto isterico di emozione religiosa”. La possibilità
che si verificasse davvero una possessione mise in difficoltà
i registi e Gabriel si rese conto di trovarsi, impotente, di
fronte a qualcosa più grande di lui: “Capii che
il cammino intrapreso era in realtà molto pericoloso,
non sapevo cosa sarebbe successo se si fosse davvero verificata
una possessione e, soprattutto, non avrei saputo come affrontare
il problema né cosa fare in una situazione del genere.
Io non avevo strumenti medici o psichici per uscire da quella
situazione, avevo paura. Non volli più seguire l'esperimento
e abbandonai la possibilità di lavorare in questo modo”.
Furono gli stessi attori a risolvere il problema e fornire la
soluzione drammaturgica, coreografica e scenica. Uno di loro,
Pedrito Condori, colse lo spunto da questa vicenda e, all'insaputa
di tutti, trovò una soluzione tipicamente andina. Raccolse
l'usanza secondo cui gli haiciris, fingendosi condor
che sbattono le ali e simulano un atterraggio, invocano nell'oscurità
le montagne e le divinità che le abitano, con tonalità
da ventriloqui e con voci ora femminili ora maschili. Pedrito
Condori finse una possessione, simulò l'arrivo del Meqalo,
batté le braccia come ali di un condor, cadde a terra
e parlò a lungo con quegli uomini commossi che continuavano
a fare domande sulla loro vita e sulle loro condizioni di miseria.
La partecipazione e il turbamento erano infiniti e la religiosità
dominava una scena nata nel preciso momento in cui si era data.
Il cerchio umano intorno al Meqalo iniziò a danzare all'unisono,
come se chi lo formava avesse studiato un'apposita coreografia
e tutto finì con una danza pacata e rispettosa della
venuta tanto invocata del Meqalo. La conclusione della prima
parte dello spettacolo era stata trovata. La forma scenica pienamente
raggiunta.
Per la seconda parte, quella riguardante i sogni, scelsero il
sogno di una giovane donna che aveva perso il suo bambino: lei
lo vedeva sospeso tra cielo e terra e cercava disperatamente
di afferrarlo senza riuscirci, lui si allontanava lasciandole
gli occhi pieni di pianto mentre la pioggia continuava a bagnarle
il viso.
|
Gabriel Martínez e Verónica Cereceda,
intervistati in queste pagine |
Alterne
fortune sceniche
La rappresentazione di Ukhu Ukhumanta all'interno della
comunità fu un momento mistico, quasi religioso, in cui
attori e spettatori realizzarono un processo di catarsi totale:
quando Pedrito Condori cadde a terra e si rialzò vestendo
i panni del Meqalo tutte le donne si tolsero spontaneamente
il cappello nell'esatto momento in cui lo fecero anche gli attori.
Nella capanna c'era un clima speciale che unificava tutti: pubblico
e attori erano in realtà un solo gruppo. Gabriel raccontava
di non aver mai visto nulla del genere. Ma quando lo spettacolo
venne portato nella cittadina di Oruro il pubblico urbano reagì
in modo molto negativo e nessuno riconobbe il valore di questo
lavoro. Per ricreare un'intima connessione con gli spettatori
si decise di distribuire all'inizio foglie di coca e praticare
insieme il rito di akullicar, masticare la coca, ma quando
gli attori più anziani cominciarono la distribuzione
il pubblico si sentì offeso. Il disprezzo verso tutto
ciò che rappresenta il mondo indigeno è una sorta
di autovergogna delle origini della Bolivia e impaurisce
chi in queste origini non vuole riconoscersi. I cittadini, legati
a una forma di pregiudizio e di discriminazione razziale, rimproverarono
ai registi di aver portato sul palcoscenico una Bolivia che
non volevano vedere: per tutti loro vedere miserabili indigeni
che mangiavano i loro pidocchi significò mettere in scena
la parte peggiore di questa terra. La ricezione dell'opera fu
freddissima, le critiche del pubblico negative e l'ambiente
teatrale si mostrò sfiduciato e dubbioso rispetto alla
direzione che la ricerca del Kollasuyo stava prendendo.
Inoltre il rettore Garret, che tanto li aveva sostenuti, lasciò
l'università occupata da studenti e professori comunisti-trotskisti.
L'ambiente universitario di sinistra considerava poco prestigioso
l'interessamento al teatro indigeno per cui chiese ai registi
di considerare una ricerca indirizzata più verso il teatro
operaista e dei minatori, ma Gabriel e Verónica rifiutarono:
“distrussero il nostro contratto e non si fece più
teatro, né operaista né minerario”. Ulteriori
difficoltà al Teatro Kollasuyo furono create anche
dal rifiuto ricevuto direttamente dal mondo indigenista: li
accusò di essere stranieri meticci che 'usano gli indigeni'
sfruttandoli. Idea molto mitizzata anche oggi. Impossibilitati
a continuare il lavoro, Gabriel e Verónica si allontanarono
in maniera traumatica e dolorosa dal teatro e da ogni sua manifestazione.
L'esperienza dei Martínez fu molto importante, diedero
la parola alla cultura indigena, dimostrarono che era capace
di dire qualcosa di vero e inquietante, ne valorizzarono il
processo creativo, diedero dignità alla sua lingua e
alla sua estetica. Per la prima volta, insomma, gli indigeni
furono soggetti teatrali, autori di una drammaturgia che li
rappresentava e fornitori di soluzioni sceniche. In molti sensi
fu anche anticipatrice, sia per la Bolivia sia per il teatro
internazionale sia per le ricerche delle avanguardie che contemporaneamente
muovevano i primi passi da questa parte del mondo, anche se
in pochi purtroppo ne riconobbero i meriti. Loro lavoravano
sui miti e su una forma di scambio tra popoli proprio mentre
in Europa cominciava a diffondersi il teatro sperimentale legato
a un movimento di ricerca che avrebbe cambiato radicalmente
le scene teatrali: il centro interetnico di Peter Brook, la
relazione tra “teatro” e “rito” che
Grotowski si proponeva di approfondire, il baratto interetnico
che Barba teorizzò con le popolazioni marginali del mondo
americano e asiatico sarebbero stati elementi straordinari che
avrebbero aperto nuove visioni alle avanguardie europee.
El tata
Gabriel
Ma l'esperienza con gli indigeni di Lunlaya li segnò
al punto che Gabriel e Verónica non rinunciarono a sviluppare
un percorso di lavoro e collaborazione con le popolazioni native
e senza distogliere lo sguardo da quel mondo che li aveva tanto
colpiti ripartirono con un nuovo ed entusiasmante progetto di
vita. Dopo aver entrambi intrapreso studi di antropologia si
stabilirono a vivere nella cittadina di Sucre dove fondarono
ASUR, Antropólogos del Sur Andino, un museo che ha recuperato
e protetto la tradizione tessile delle comunità di Jalca
e di Tarabuco destinata altrimenti all'estinzione. Da allora
il museo ha sviluppato un'impresa contadina efficiente dal punto
di vista della qualità e della produzione: i campesinos
tessili, infatti, riuniti in cooperative gestiscono imprese
autonome capaci di dar vita ad un processo creativo all'interno
delle singole culture, nel rispetto dei mezzi da loro applicati
per la lavorazione e la colorazione dei tessuti. I loro preziosi
lavori non vengono più scambiati con tessuti industriali,
né sono più acquistabili a pochi pesos nelle strade
delle città, come accadeva prima. Ogni lavoro è
dotato di un'etichetta con il nome e la provenienza di chi l'ha
realizzato, una certificazione nominativa del lavoro manuale
svolto nel rispetto delle più antiche tradizioni tessili
locali. Verónica continua ad occuparsi di ASUR, Gabriel
è morto nel 2000 durante il mio ultimo anno di permanenza
in Bolivia. La camera ardente i suoi campesinos l'hanno
voluta allestire proprio all'interno del museo. In quell'occasione
il portavoce dei suoi compagni, i lavoratori e le lavoratrici
indigene delle comunità tessili di Tarabuco e Jalca,
ci ha comunicato ufficialmente che el tata Gabriel, così
lo chiamavano, abita ora una montagna come divinità.
Appartiene talmente al loro immaginario collettivo che ogni
giorno lo salutano e parlano a colui che, dopo la sua morte,
è pietra delle Ande che ancora li protegge.
Federica Rigliani
Note
- Lupe Cajías, De Concepción a Lunlaya,
'El tonto del Pueblo, Revista de artes escenicas' N. 0/Agosto
1995, pag. 91.
- Ibidem: pag. 91.
- Intervista a Gabriel Martínez, Sucre, Maggio 1997.
- Lupe Cajías, De Concepción a Lunlaya,
op. Cit. pag 93.
Il
teatro sulle Ande
Con questa seconda puntata prosegue la
serie di quattro scritti curati da Federica Rigliani
e dedicati ad alcune significative esperienze teatrali
nella Bolivia della seconda metà del '900. Il
primo contributo, dedicato a Liber Forti e al Conjunto
Teatral Nuevos Horizontes, è stato pubblicato
sullo scorso numero di “A” (376, dicembre
2012-gennaio 2013), introdotto dalla premessa In
viaggio col teatro sulle Ande. |
|