ex Jugoslavia
Alle radici dell'odio etnico
di Lorenzo Sacerdoti
foto AFA - Archivi Fotografici Autogestiti
La guerra nei Balcani vista
da una nuova prospettiva: lingua, tradizioni, costumi... cosa
divide e cosa unisce serbi, bosniaci e croati? E soprattutto,
come trasformare i fratelli di ieri nei nemici di oggi?
Le guerre sono forse la prova
più inequivocabile dello straordinario potere persuasivo
delle narrazioni. Convincere gli esseri umani a massacrarsi
tra loro, per motivi ad uno sguardo attento e critico del tutto
illogici, non può che essere frutto di una manipolazione
più o meno sapiente. Perché se è vero che
tante volte la storia, la letteratura, le arti visive ci hanno
tramandato le testimonianze e le storie di uomini e donne costretti
a combattere o a subire le conseguenze più terribili
dei conflitti (Soldati di Ungaretti, i crudi ritratti
della vita di trincea di Otto Dix, I Disastri della guerra
di Goya...), è altrettanto vero che, in molte altre occasioni,
ufficiali, soldati semplici e persino civili sono stati uniti
dalla totale e cieca adesione alla causa assassina del proprio
esercito, della propria fazione, del proprio gruppo.
Le guerre civili e le narrazioni da cui esse scaturiscono hanno
un carattere del tutto particolare: mettere fratello contro
fratello può sembrare, a prima vista, un'impresa ardua.
Coloro che sono a noi più vicini non sono stranieri,
barbaroi da guardare con sdegno. Non proviamo verso di
loro quella paura del diverso che è alla base di tante
conflittualità plurisecolari (mondo musulmano-mondo cristiano,
oriente-occidente, bianchi-neri). Tuttavia i nostri prossimi
sono anche coloro con cui più facilmente entriamo in
competizione, dal momento che costituiscono il metro di paragone
più facilmente utilizzabile. È più facile
confrontare il proprio insuccesso con la fortuna, vera o presunta,
del dirimpettaio che con quella di qualcuno che vive dall'altra
parte dell'oceano. E anche ammettendo che la competizione sia
con quest'ultimo, risulta in ogni caso più agevole sfogare
l'umiliazione e la relativa frustrazione su qualcosa o qualcuno
di vicino, magari addirittura un famigliare. È per questo
che, là dove faccia comodo a qualcuno, non è poi
così difficile creare conflitto tra persone, nazioni,
etnie, gruppi politici tra loro prossimi, a patto, come sempre,
che si racconti la storia giusta.
Se si considera il caso di guerre civili aventi una certa dimensione
e rilevanza storica, la domanda sorge spontanea: chi possiamo
considerare un vicino, un fratello, un prossimo? In altre parole:
che tipo di avversario fa sì che una guerra si possa
definire “civile”? A sentire i cattolici dell'Ulster,
infatti, i protestanti che vivono a pochi passi di distanza
sono colonizzatori scozzesi inviati nell'Isola di smeraldo dalla
corona inglese per creare un equilibrio etnico fittizio tra
le due compagini religiose. Questo sebbene le famiglie unioniste
ed anglicane per tradizione risiedano in Irlanda del nord da
secoli. Un'accusa simile potrebbe muovere uno zulu o un bantu
agli afrikaners (i bianchi sudafricani di origine olandese),
sebbene questi ultimi siano stati riconosciuti nientemeno che
da Jacob Zuma (non proprio un amico dei boeri), presidente della
repubblica arcobaleno, come “unica tribù bianca
dell'Africa”. E che dire dei francofoni del Quebec, colonizzatori
ed usurpatori di territori indiani fino a ieri, e oggi nazionalisti
a tal punto da contestare l'esito del referendum del 1995 sull'indipendenza
perché, a loro dire, avrebbero dovuto votare solamente
i francofoni e non i residenti in Quebec di madrelingua inglese
(circa l'8%)? Sia ben chiaro: a volere essere pignoli, in tutte
queste affermazioni vi è una parte di ragione. Questo
gioco dell'esclusione, però, oltre che essere molto pericoloso,
fa capire come sia tutt'altro che semplice attribuire l'etichetta
di “guerra civile“ ad un conflitto i cui partecipanti
spesso non si sentono affatto parte dello stesso contesto. Si
combatte sempre contro un “altro”, un “diverso”,
a sentire una delle due parti. E anche se questo diverso era
uguale fino a ieri, in fondo basta vedere la cosa da un'altra
prospettiva, leggermente più laterale. Raccontare, insomma,
una storia diversa quanto basta per creare un conflitto.
Fratelli
separati alla nascita
Quello della ex-Jugoslavia è un caso particolare fra
i casi già peculiari delle guerre civili. Perché,
se è vero che i protestanti dell'Ulster tra loro non
parlano in gaelico e gli afrikaners sono bianchi e non
neri, sfido chiunque a trovare differenze sostanziali tra un
serbo, un croato, un bosniaco e un montenegrino (gli sloveni
sono sempre stati un popolo a parte, linguisticamente e culturalmente,
stesso discorso per i macedoni e per le minoranze ungheresi,
albanesi, ceche, slovacche e romene della federazione jugoslava).
Proprio a partire dalla consapevolezza di essere popoli fratelli
separati dalla nascita venne partorito, perlopiù all'interno
del milieu intellettuale, il progetto di riunire tutti
gli slavi del sud (tranne i bulgari, che sembrano stare antipatici
un po' a tutti) in un unico stato, sogno che è passato
attraverso la creazione del “Regno dei serbi dei croati
e degli sloveni” (1918-1929), del “Regno di Jugoslavia”
della dinastia Karageorgevic (1929-1941) ed è arrivato
fino alla federazione socialista (1945-1991).
In questi anni ho viaggiato attraverso quasi tutta la ex-Jugoslavia,
e di fronte alla mia richiesta, talvolta un po' insistente,
di illustrarmi la differenza tra i popoli che la compongono
(“avrete combattuto per l'indipendenza per qualcosa, no?”),
i più hanno tentennato. Certo, esistono le tre diverse
religioni dei Balcani: la cattolica (perlopiù in Croazia),
l'ortodossa (perlopiù in Serbia) e la musulmana (perlopiù
in Bosnia). Ma a parte (si fa per dire) quello?
Qualche temerario ha provato ad accennare a presunte differenze
genetiche, di aspetto esteriore, quasi di “razza”.
I bosgnacchi (bosniaci musulmani) si sarebbero incrociati, secoli
or sono, con i turchi e sarebbero quindi più scuri, più
fisicamente simili ai conquistatori ottomani. I dalmati e gli
istriani con gli italiani, perdendo un po' della proverbiale
durezza di tratti dei popoli slavi, durezza che si è
invece amplificata nei purger (soprannome degli abitanti
di Zagabria) che hanno sempre avuto un debole per i tedeschi.
I serbi, invece, se la fanno con i russi e quindi sono più
biondi, più quadrati. Vagli a spiegare, agli aspiranti
Lombroso balcanici, che ho sorseggiato tazze di caffè
turco nei bar di Belgrado con ragazze serbo-ortodosse nere come
la pece e ho fatto amicizia, sugli scomodissimi treni notturni
Venezia-Zagabria-Budapest, con muratori bosniaci musulmani dai
tratti che più ariani non si può. La scusa dei
geni non regge: tutti si sono incrociati con tutti in quella
zona d'Europa. Non per niente lì, mi perdoneranno le
italiche lettrici, ci sono le donne più belle del mondo.
Qualcun altro sostiene che è la lingua ad essere diversa.
Se ancora oggi sugli scaffali polverosi delle biblioteche o
di quei vecchi capannoni di libri da Festa dell'Unità
si può trovare “Il serbo-croato senza sforzo”,
guai oggi a proferire una simile bestemmia. A Zagabria si parla
hrvatski (croato), a Belgrado srpski (serbo),
a Sarajevo bosanski (bosniaco)... e a Podgorica? Crnogorski.
Eh sì, esiste persino il montenegrino. Anche qui c'è
da rimanere quantomeno perplessi. Al di là della scelta
dell'alfabeto (latino o cirillico) e di alcune trascurabili
differenze grammaticali, la lingua è sostanzialmente
la stessa, ce lo confermano coloro che queste cose le studiano.
Esistono sì modi leggermente diversi di pronunciare il
serbo-croato, quelli che noi italiani chiameremmo “accenti”,
ma queste differenze esistono anche all'interno dei singoli
stati. Un croato di Zagabria saprebbe riconoscere dall'accento
un serbo, ma anche un suo connazionale istriano o dalmata, e
la differenza percepita rispetto al proprio standard
di pronuncia non sarebbe molto minore. Per quanto riguarda le
differenze di lessico presenti tra serbo e croato (e le relative
varianti nazionali) siamo di fronte ad un fenomeno comune in
qualsiasi lingua, compresa la nostra. Quante volte abbiamo sorriso
a causa del modo in cui un italiano di un'altra regione o addirittura
di un'altra città vicina alla nostra chiama una certa
cosa che noi siamo soliti definire con un sostantivo differente?
Questioni
onomastiche
Dopo la guerra civile degli anni novanta, sono state create
artificialmente differenze di idioma tra gli ex-compatrioti
jugoslavi: in croato sono stati modificati a tavolino i nomi
dei mesi dell'anno, un po' come nella Francia della rivoluzione
giacobina, e in montenegrino sono state coniate dal nulla nuove
lettere dell'alfabeto, per meglio tradurre in segni convenzionali
la pronuncia tipica di quella zona, impervia e meravigliosa,
dei Balcani. E, da turista, chiedere indicazioni per la farmacia
più vicina avendo a disposizione solo quel “serbo-croato
senza sforzo”, anacronistico baluardo di una koinè
linguistica brutalmente assassinata, potrebbe diventare un problema:
all'apotheka a prendere l'aspirina ci vanno i serbi;
i croati, se hanno la febbre, vanno alla lijekarna, brillante
neologismo ricavato dalla parola lijeka (cura). Déjà
vu: il bar diventa il “quisibeve”, tanto per
dirne una... E se il farmaco che dobbiamo acquistare costa mille
kune (un po' caruccio, ma è per non ammazzare
l'analogia), in croato è tisuca e non hiljada,
come in Serbia. A dimostrazione dell'artificiosità della
maggior parte di questi cambiamenti, basti osservare il fatto
che spesso le persone di mezza età, nate e vissute nella
Jugoslavia unita, utilizzano ancora oggi termini serbo-croati
che già i figli, cresciuti dopo la guerra, non utilizzano
più perché educati ed abituati (a scuola, dai
media) a non farlo. Giocare a Monopoli, dove si parla spesso
di migliaia, con una famiglia croata composta da rappresentanti
di diverse generazioni può essere tutt'altro che facile
(parlo per esperienza personale).
Qualcuno
sostiene che una differenza sostanziale tra i popoli jugoslavi
risieda nell'onomastica. Esistono nomi e cognomi serbi, croati
e musulmani, si dice, ma anche questa è una verità
parziale e discutibile. Nel caso dei nomi propri, riguardo ai
quali i genitori hanno libertà di scelta, vi sono, in
effetti, delle differenze. Sebbene la maggior parte dei nomi,
maschili e femminili, sia “pan-jugoslava”, alcuni
sono tipicamente legati ai singoli paesi, per due motivi principali:
una diversa grafia dovuta all'accento (lo Stefan serbo diventa
Stjepan, Stipe o Stipan in croato) e la tradizione culturale
o religiosa locale (Sanin e Vedad – derivati dall'arabo
– sono nomi tipicamente musulmani, Nemanja – nome
di un antico re serbo venerato come santo – è solo
ortodosso, Nino, Mario, Luciano – mutuati dall'italiano
– sono perlopiù croati). Per quanto riguarda i
cognomi le cose cambiano decisamente; se è vero che esistono
specificità in questo ambito, è altrettanto vero
che associare un cognome all'appartenenza etnica e, ancor di
più, religiosa, è rischioso e non solo nel caso
dei paesi balcanici.
I cognomi jugoslavi, come quelli di altri paesi del mondo slavo
e non solo, sono perlopiù patronimici: Ivanovic (figlio
di Ivan), Juric (figlio di Jure), Petric (figlio di Petar) ecc.
Quindi, se mi chiamo Mohamedovic, un mio antenato più
o meno lontano si chiamava Mohamed. Presumibilmente quindi,
sono di origine bosniaco-musulmana (quale coppia cristiana chiamerebbe
il proprio figlio Mohamed?). Se questo discorso può essere
valido, a fatica, nell'ambito dell'appartenenza etnica, quando
si parla di appartenenza religiosa le cose si complicano ulteriormente.
È come voler riconoscere un ebreo (osservante) dal cognome.
Esistono i matrimoni misti, tanto per cominciare. Un “Levi”
o un “Coen” potrebbero avere un bisnonno paterno
ebreo ma non essere ebrei per l'halakhah (la legge orale
ebraica), che prevede la trasmissione dell'ebraicità
per via matrilineare. Esistono poi ebrei italiani che si chiamano
Rossi, Orefici o Conforte (cognomi comunissimi tra i cristiani),
ebrei ungheresi che si chiamano Kovacs (il cognome più
diffuso nel paese magiaro), ebrei aschenaziti che portano i
cognomi statisticamente più diffusi nei paesi germanofoni
(Kraus, König, Kaufmann...). E così, in terra jugoslava,
capita che un Novakovic, serbo secondo l'onomastica classica
per la presenza della particella “ov” nel cognome,
sia croato e che un Karamehmedovic (cognome tipicamente musulmano)
non sappia nemmeno cosa sia La Mecca. Più difficilmente
sarà serbo, quanto all'etnia, chi porta un cognome tipicamente
croato non terminante in “ic” o “ovic”:
Štokovac (tipico istriano), Botica (dalmata), Polancec
ecc. Su questa falsariga si è anche sostenuto che i pravi
hrvati (veri croati) siano solo quelli contraddistinti da
cognomi non etnicamente equivocabili. Tutti gli altri con il
cognome in “ic“ o, ancor peggio, in “ovic“
sono serbi croatizzati o croati serbizzati. Sarà. Ma
anche qui un criterio univoco di distinzione è ben lungi
dal delinearsi.
Il
potere delle narrazioni
Mentre le differenze faticano ad emergere, risultano invece
evidenti ai più, dopo pochi giorni di permanenza in terra
ex-jugoslava, le analogie fra i diversi componenti di questo
popolo uno e trino: la stessa concezione della famiglia e della
vita sociale, il profondo valore dato alle amicizie vere, semplici,
la passione sviscerata per il rito del caffè turco (guai
a prenderlo in piedi o di fretta!), l'attaccamento alla propria
terra e alle proprie radici, un certo gusto alimentare, lo stesso
modo di fare umorismo (sentirete spesso parlare, dai più
anziani, di jugoslovenski humor, humor jugoslavo, equivalente,
in salsa agrodolce balcanica, del british humor), l'amore
per la musica tradizionale e per il canto.
Cos'è
allora che ha diviso i serbi, i croati, i montenegrini e i bosniaci?
Cosa li ha spinti a farsi la guerra, ad odiarsi, a massacrarsi
senza pietà? Risposta: una serie di perniciose e fasulle
narrazioni create da elementi interni ed esterni alla compagine
jugoslava, che hanno fatto leva sul tutt'altro che sconosciuto
sentimento nazionalista dei popoli slavi del sud, ma soprattutto
sul brutale vantaggio immediato. Da questo punto di vista il
caso balcanico non è certo un unicum. Raramente
nelle dispute territoriali viene messa al primo posto solamente
l'appartenenza etnica, culturale o religiosa. Non è un
caso che le armi dell'Irish Republican Army (IRA) irlandese
siano state utilizzate da alcuni suoi membri per rapine a puro
scopo di lucro personale. O che alcuni componenti del Fronte
di Liberazione Naziunale Corsu (FLNC) della Corsica si comportino
più da capi del crimine organizzato che da leaders
di un movimento indipendentista, estorcendo denaro con la scusa
del finanziamento alla lotta armata e controllando con metodi
mafiosi il mercato edilizio dell'isola francese nascondendosi
dietro la salvaguardia dell'ambiente. Per non parlare delle
motivazioni economiche alla base dell'indipendentismo catalano
e quebecchese. Il “noi da soli” (traduzione italiana
di Sinn Féin, nome del partito nazionalista irlandese)
sottintende spesso un “noi coi nostri soldi da soli”
o “noi con le nostre possibilità economiche da
soli”. Perché se c'è chi ha (giustamente)
a cuore la sopravvivenza di una lingua, di una cultura o la
libertà di un popolo è altrettanto vero che tanti
altri cavalcano i fenomeni speratisti per altri motivi, di certo
meno nobili. Per rimanere in Europa dell'est, casi particolarmente
interessanti sono quelli del Kosovo, diventanto terra franca
per criminali di ogni sorta, della Transnistria, regione de
facto indipendente ma contesa tra Russia e Moldavia, buco
nero d'Europa per il traffico d'armi e del Montenegro, che dopo
l'indipendenza dalla federazione jugoslava (leggasi: Serbia)
nel 2006 non ha ancora una legge chiara sulla naturalizzazione
dei cittadini stranieri ed offre un programma di acquisto della
cittadinanza tramite investimenti di una certa rilevanza nel
paese (il Montenegro non concede l'estradizione e la sua cittadinanza
potrebbe fare gola a molti).
In effetti, non è molto credibile l'idea che gli abitanti
di Knin, Vukovar, Dubrovnik o Sarajevo volessero vedere i propri
vicini morti solo perché pronunciavano diversamente le
parole, o perché avevano un “h” di troppo
nel proprio cognome o un modo diverso di farsi il segno della
croce. Ha molto più senso che qualcuno avesse messo gli
occhi sul televisore di qualcun altro, sul suo pezzo di terra,
sulla sua casa, sulle sue figlie procaci. Perché in Jugoslavia
c'è chi grazie alla guerra si è arricchito, e
anche parecchio. Spesso sono stati proprio coloro che oggi vengono
venerati come eroi da quei giovani che, pur non avendo vissuto
direttamente la guerra, crescendo in paesi socialmente ed economicamente
dissestati e alla disperata ricerca di un'identità, sono
diventati più nazionalisti dei propri padri, magari resi
invalidi dallo scoppio di una mina nella Repubblica serba di
Croazia (Republika Srpska Krajina). Zeljko “Arkan”
Raznatovic, gangster come tanti altri nella Jugoslavia
degli anni settanta e ottanta, è diventato un eroe di
guerra e uno degli uomini più importanti (e ricchi) della
Serbia grazie ai saccheggi e alle devastazioni compiute dalla
sua milizia, le famigerate “Tigri“. Marko Perkovic
detto “Thompson“, giovanotto coi capelli lunghi
della Dalmazia interna (Dalmatinska Zagora), una delle
zone più povere e meno sviluppate della Croazia, ha fatto
carriera con una voce stonata e una canzonetta composta sul
fronte come inno della propria brigata: “Bojna cavoglave“.
Oggi è il cantante croato più ricco e celebre
dopo Severina Vuckovic, star del pop balcanico.
Hate
thy neighbour
Chi ci credeva, alle favole del nazionalismo, alle bubbole
cariche d'odio seminate da politici folli o al soldo di potenze
straniere che avevano ogni interesse a smembrare uno stato federale
il cui processo di democratizzazione ed il cui affacciarsi in
Europa creavano non pochi grattacapi, c'era. Forse erano addirittura
molti, come del resto erano molti i tedeschi che credevano ad
Hitler e pensavano che gli ebrei volessero dominare il mondo.
Ma queste convinzioni che, a chi si trovava appena fuori da
quel contesto sociale, storico e politico, parevano giustamente
deliranti, anche là dove fossero realmente radicate,
poggiavano sempre su un humus di malcontento di altro genere.
Nella Jugoslavia lontana dagli anni del boom economico titino,
priva dell'URSS, nemico sulla carta ma di fatto ufficioso punto
di riferimento, il malumore covava, aspettando di esplodere
grazie a quella che, da sempre, è la scusa (leggasi:
narrazione) migliore per fare la guerra: l'orgoglio nazionale,
l'odio per il prossimo, uguale a noi eppure diverso. Hate
thy neighbour. È cosi che i musulmani di Bosnia diventano
i traditori del popolo serbo in combutta coi turchi, i croati
nazisti filo-tedeschi e i serbi tornano ad essere cetnici ammazzabambini.
Nasce la favola, perché di favola si tratta, della Velika
Srbija-Grande Serbia, che si estenderebbe da Vukovar a Pristina
e, anche se si tende spesso a dimenticarlo nell'atmosfera generalmente
pregiudiziale nei confronti dei serbi, quella della Velika
Hrvatska-Grande Croazia di ustashiana memoria, o del nuovo
Impero Ottomano, tanto bramato da certi musulmani bosniaci,
kosovari ed albanesi. Più questi deliri di onnipotenza
sono grandi più si rivelano come tragici sintomi della
sindrome post-traumatica che affligge i popoli balcanici, tante,
troppe volte conquistati, schiavizzati e massacrati dallo straniero
e, in virtù di questo, più soggetti di altri alle
narrazioni bellicose che solleticano l'orgoglio campanilista,
vengano esse dai satrapi di turno o dall'esterno. Nei Balcani,
del resto, si è degni di rispetto solo quando si combatte
e si muore. Lo dimostra una delle più celebri canzoni
“cetniche”, in cui la Serbia è descritta
come grande proprio per il fatto di avere più volte (tre,
si dice) fatto guerra all'invasore, all'usurpatore: “Ko
to kaze, ko to laze, Srbija je mala. Nije mala, nije mala,
triput ratovala!”
“Chi osa dirlo, chi osa mentire: la Serbia è piccola.
Non è piccola, non è piccola, per tre volte ha
combattuto!”.
Il guaio è che i popoli balcanici sono abituati alla
guerra. In particolare i serbi, da sempre noti come popolo di
formidabili combattenti. Non è un caso che la popolazione
serba della Krajina croata, che tanto filo da torcere
darà al neonato stato di Tudjman negli anni novanta,
sia discendente diretta dei guerrieri che gli austriaci insediarono
in quella zona secoli or sono per tenere a bada le scorribande
turche.
I discorsi di Milosevic, Izetbegovic e Tudjman delineano profili
di nazioni e popoli mai esistiti (perlomeno non con quelle caratteristiche),
narrano menzogne i cui frutti sono costati carissimi a tutti
i membri di quello che era ed è un solo popolo, diviso
dallo sciagurato interesse di pochi. E non consola che molti
serbi, croati e bosniaci, anziani o di mezza età, memori
dei disastri della guerra e del nazionalismo, abbiano rivolto
il proprio cuore verso una narrazione diversa, ma non meno fallace
(come tutti i “si stava meglio quando si stava peggio”):
la cosiddetta “Jugonostalgia”, la nostalgia della
Jugoslavia socialista, dipinta come un'arcadia di benessere
e uguaglianza in una sorta di delirio vintage oggi sempre
più al centro dell'interesse di sociologi e studiosi
della questione balcanica.
I più giovani, invece, sembrano non potersi sottrarre
ad un bipolarismo estremo che vede da una parte l'adesione ad
un nazionalismo neo-nazista xenofobo e violento e dall'altra
un più o meno celato disprezzo per il proprio paese,
visto come retrogrado rispetto ai liberali ed opulenti stati
dell'Europa centrale e settentrionale, che nella mente di questi
giovani jugoslavi divengono teatro di sogni che si traducono
nella realtà di un'immigrazione ancora molto sostenuta,
specie verso i paesi germanofoni.
Solo sviluppando un senso critico in grado di mettere in discussione
il secolare affastellarsi di menzognere narrazioni storiche,
culturali e religiose che grava sui Balcani, i popoli di questa
terra potranno veramente emanciparsi dalle gravose catene che
fino ad ora hanno loro impedito di aprire le ali e di farsi
forti delle loro affinità invece che delle loro differenze.
E aprire le ali è possibile solo se si guarda al futuro
e non al passato, con la consapevole leggerezza che nel 1988,
in una Jugoslavia che non si immaginava ancora l'abisso in cui
di lì a poco sarebbe sprofondata, avevano cercato di
descrivere gli Elektricni Orgazam, i Talking
Heads di Belgrado:
Pokupimo boje koje padaju sa neba
Raccogliamo i colori che cadono dal cielo,
dovoljan je dodir, samo to nam treba
un tocco è sufficiente, ci serve solo questo.
zaboravi na juce, hajde pogledaj u sutra
dimenticati di ieri, guarda al domani
Vide es da zelis, videces da moces.
vedrai che vorrai, vedrai che potrai.
Odgovori koje trazis nisu bas daleko
Le risposte che cerchi non sono così lontane:
pogledaj u sebe, pogledaj u sebe
guardati dentro, guardati dentro.
neka tvoja glava bude samo tvoja briga
Che la tua mente sia la tua sola preoccupazione
ne daj da joj govore
non lasciare che la gente ti dica cosa fare
neka sama otkrije
pensa con la tua testa!
Igra rokenrol cela Jugoslavija...
Balla il rock'n'roll tutta quanta la Jugoslavia...
Lorenzo Sacerdoti
artbandolo@gmail.com |