in direzione
ostinata e contraria 8
Rubò sei cervi nel parco del re
Interviste a Gianni Mungiello, Armando Xifai, Alfredo Franchini
di Renzo Sabatini
L'impiccagione di Geordie, nell'omonima canzone di Fabrizio De André, rimanda al controverso tema della giustizia(compresa l'istituzione carceraria). Due ex-detenuti e un giornalista dicono la loro, riflettendo sulle opere e sul pensiero del cantautore genovese.
Piccola, necessaria premessa
Nel luglio 2007, per realizzare le puntate dedicate alle
canzoni di De André sui temi della legge, mi sono dedicato
alla difficile ricerca di contatti nel mondo del carcere. Ricerca
lunga e infruttuosa, fino a quando ho avuto la fortuna di conoscere
Angelo Aparo, psicologo appassionato del proprio lavoro e di
De André. Angelo Aparo è il fondatore del Gruppo
della Trasgressione1
che dal 1997 opera a Milano, nel carcere di San Vittore, coinvolgendo
detenuti, docenti e studenti universitari in un comune lavoro
di ricerca e dibattito, che ha spesso portato i detenuti all'uscita
dal tunnel della reiterazione dei reati e delle ripetute carcerazioni.
Le canzoni di De André sono molto utilizzate nel lavoro
del gruppo e ne rappresentano un po' la colonna sonora. Angelo
Aparo mi ha messo in contatto con Gianni Mungiello e Armando
Xifai, due ex detenuti2
che mi hanno rilasciato le belle interviste che seguono.
Gianni
Mungiello
A un certo punto della sua vita da detenuto nel carcere
di San Vittore si è incontrato con il Gruppo della Trasgressione.
Che cosa ha significato per lei?
Sono stato spinto a partecipare dalla curiosità. Mi ha
incuriosito il fatto che ragazzi provenienti dall'esterno, studenti
di giurisprudenza e psicologia, venivano lì e si mettevano
in gioco, si mettevano al nostro pari. Ho provato una sorta
di ammirazione e così, gradualmente, ho cominciato a
mettermi in gioco anch'io, aprirmi completamente, parlando delle
mie esperienze e analizzando il mio passato. Io ho 57 anni e
nel corso di diverse carcerazioni, di cui una di dieci anni
e mezzo, ho totalizzato 23 anni di carcere. Ero, diciamo, un
delinquente convinto e accettavo anche il castigo che ne derivava.
Il gruppo mi ha dato la possibilità di riflettere e trovare
delle alternative, per non vivere anche gli ultimi anni della
mia vita in quelle condizioni. Con il gruppo ho cercato di trovare
delle motivazioni che mi facessero cambiare vita. Riflettendo
sul mio passato e sul presente del carcere, gradualmente, ho
costruito il mio futuro. Oggi penso di essere una persona molto
diversa. Il percorso, certo, è lungo. Non si cambia in
poco tempo e io faccio ancora parte del gruppo, partecipo alle
attività, anche se sono uscito dal carcere. Ce la sto
mettendo tutta, grazie all'aiuto del gruppo, che è per
me molto importante.
Insomma il Gruppo della Trasgressione è stato un po'
la molla del cambiamento.
Il gruppo è stato proprio il trampolino di lancio del
mio cambiamento. Se avessi incontrato il gruppo nei miei primi
anni di carcere sicuramente non ne avrei fatti altri quindici
dopo, perché sarei cambiato prima. Il gruppo è
importante perché ti aiuta a entrare in te stesso e ad
analizzare le motivazioni che ti hanno portato alla trasgressione.
Se ognuno di noi arriva a commettere certi atti è perché
ci sono alla base delle motivazioni, che però non ci
sono chiare. Il gruppo ti conduce alla riflessione per trovare
queste motivazioni, che è un po' come trovare il male.
Una volta individuato, è possibile trovare la medicina
per combatterlo e il gruppo ti ci porta. Io sono proprio un
altro, tanto che i miei vecchi amici delinquenti si mettono
le mani nei capelli quando mi sentono parlare, quando sanno
che ora vado a fare dei convegni, magari proprio al tribunale.
Ma il suo è un caso a parte oppure anche altri, grazie
al gruppo, sono cambiati?
Quando ho iniziato, fra studenti e detenuti eravamo una ventina.
Fra i detenuti che hanno partecipato con me la maggior parte
ha cambiato vita o ha intrapreso la strada verso il cambiamento.
Posso fare dei nomi3, persone
che avevano subito delle condanne severe. I benefici sono evidenti
a tutti, anche alla magistratura di sorveglianza. Il percorso
è lungo e qualcuno ha bisogno di più tempo, ma
tutti alla fine ottengono un cambiamento profondo. Che poi è,
in fondo, il riscoprire le piccole cose della vita, le cose
semplici che avevamo dimenticato. Io, quando conducevo un certo
tipo di vita non sapevo più se era giorno o notte, non
vedevo più gli altri. Oggi mi emoziona una giornata di
sole o mi commuove il sorriso di un bambino.
A me dispiace che molti detenuti non hanno mai avuto la stessa
opportunità che ho avuto io, di frequentare un gruppo
così. Perché i detenuti cos'hanno? Finiscono in
carcere, in una cella. Che senso ha? Quando escono sono più
arrabbiati di prima. Con i detenuti bisogna lavorare. La società
non deve solo costruire carceri. Va bene la punizione, è
giusto che ci sia, ma bisogna anche trovare delle alternative,
altrimenti i ragazzi quando escono dal carcere cosa fanno? Tornano
a delinquere. E la società si ritrova delle persone che
sono costrette in un circolo vizioso: commettono dei reati,
mettono a repentaglio la sicurezza dei cittadini, tornano in
carcere. Bisogna invece lavorare per responsabilizzare questi
ragazzi, portarli ad essere di nuovo parte della società,
a pieno titolo, con delle responsabilità.
Insomma, secondo lei un gruppo così dovrebbe esserci
in ogni situazione carceraria?
Sì, dovrebbe esserci in ogni penitenziario, in ogni casa
circondariale, dappertutto. In effetti io non capisco proprio
perché chi di dovere non incentivi questa cosa importantissima
per il recupero delle persone che finiscono in carcere.
Quando era ancora detenuto, nel Gruppo della Trasgressione
avete fatto anche un lavoro sulla poetica di De André.
Di che si tratta?
Noi abbiamo anche un gruppo musicale, la “Tras-Band”,
di cui fanno parte detenuti e studenti e in cui si esibisce
anche il dott. Aparo. La band ha un repertorio di canzoni di
De André e io posso dirle soltanto che quando li sento
cantare mi scappano le lacrime. Io non sono mai stato un fan
di De André, anche se come persona mi è sempre
stato simpatico. Ricordo che quando lo hanno rapito assieme
a Dori Ghezzi mi trovavo in Sardegna e ne fui molto dispiaciuto.
Negli ultimi tempi, questo è un altro cambiamento, mi
sono affezionato anche alle sue canzoni, mi sono scoperto un
suo simpatizzante e ho anche comprato i suoi cd!
Nelle sedute del gruppo si parla molto spesso di Fabrizio De
André, Angelo Aparo ci tiene molto. Abbiamo provato ad
analizzare alcune sue canzoni, a coglierne il significato.
Angelo Aparo, infatti, mi diceva che lui insiste molto su
questo tema di De André, perché nelle sue canzoni
si ritrovano molti dei temi che poi vi trovate ad affrontare
nel gruppo.
Sì, perché quelle canzoni parlano di vita reale
e molto spesso di trasgressione. Ognuno di noi può rispecchiarsi
in quelle canzoni, ci si può ritrovare, a volte con nostalgia,
con rimpianto, anche con amarezza. Ti portano a riflettere,
anche in modo semplice, tirandoti fuori quello che hai dentro,
certe cose che hai fatto nell'arco della tua esistenza.
Alcune canzoni affrontano in maniera diretta il tema della
legge e del carcere. Dal suicidio di Miché al nano che
fa il giudice per rivalsa, a Geordie, impiccato per aver rubato
i cervi del re. Lei si è ritrovato in qualche misura
in queste canzoni?
A me ha colpito particolarmente Geordie. La vedo come
il simbolo dell'ingiustizia del potere, di chi il potere lo
detiene. Perché a volte viene comminata una condanna
sproporzionata rispetto al fatto compiuto. Allora la storia
di Geordie, impiccato con una corda d'oro, se la porto nella
realtà di ogni giorno, la vedo così, come la rappresentazione
delle condanne ingiuste, sproporzionate. Perché sappiamo
che si fanno anni di carcere anche per piccole cose. Situazioni
in cui non si guarda, non si approfondisce, si pensa solo a
mettere dentro il trasgressore, allontanarlo dalla società
per un certo periodo di tempo.
È diventato di moda fra i giornalisti dire che le
canzoni di De André hanno restituito dignità ai
reietti della società. Guardando alla sua storia personale
lei sente che queste canzoni possono in qualche misura restituirle
la dignità?
Non lo so, la storia della dignità per me è un
po' complicata. La dignità la si perde facendo un certo
tipo di vita e la si riconquista, passo dopo passo. Però
quelle canzoni mi danno modo di soffermarmi a pensare, a ritrovarmi,
ripensare alla mia vita prima dell'incontro con il gruppo. Ad
ascoltarle con attenzione possono entrare nel profondo, anche
perché De André canta come uno di noi, come uno
del popolo, come una persona normale... canta quello che io
vorrei dire, quello che ho dentro. A me non interessavano, invece
adesso ad ascoltarle mi emoziono.
Lei ci ha raccontato che anche adesso che non è più
detenuto continua a frequentare il Gruppo della Trasgressione.
Si tratta di una scelta personale, per un debito di riconoscenza
verso l'esperienza che l'ha aiutata a cambiare, oppure è
una necessità, fa parte del lungo cammino che lei sta
ancora percorrendo?
Il gruppo è una realtà in cui ognuno partecipa
portando il suo contributo. Ora, uscito dal carcere, non ho
nessun obbligo di frequentarlo, però sono affezionato
a tutti, sia agli esterni che ai detenuti. Nel gruppo mi ha
colpito molto il fatto di essere valorizzato. Io sono uno che
ha commesso diversi reati, eppure loro non mi vedono come un
delinquente, ma come una persona. Al gruppo io dialogo, esprimo
giudizi, pensieri, critiche. Mi metto anche in contrapposizione.
Insomma, sono uno del gruppo, alla pari con gli altri e questo
mi consente di dare quello che ho dentro. Negli ultimi anni
della mia vita vorrei fare qualcosa per gli altri, per i detenuti
e posso farlo attraverso il gruppo. Non ho grande istruzione,
ho fatto solo fino alla terza media, tutto il resto l'ho imparato
in carcere. Ma tutto quello che posso dare ancora vorrei darlo.
Il mio è un contributo disinteressato perché questo
gruppo è importante, mi ha consentito di cambiare vita
e posso ringraziare dando la mia disponibilità.
Lei ha cominciato con il Gruppo Trasgressione da detenuto.
Oggi che è una persona libera come si rapporta con
i suoi ex compagni che ancora stanno scontando la loro pena
e come con gli studenti, che ormai sono suoi pari?
Con i detenuti è rimasto un rapporto di amicizia, di
fratellanza. Ci scriviamo, ci incontriamo ai convegni. Siamo
partecipi della stessa causa, che è la costruzione del
nostro futuro. Loro come detenuti devono lottare molto di più
per avere cose semplici, come incontrare le famiglie, che è
una cosa molto importante anche in una prospettiva di reinserimento.
Anche con gli studenti c'è un rapporto di rispetto e
amicizia. Qualcuno scherzando mi chiama: “collaboratore
esterno“. È un gioco di parole ma se me lo avessero
detto solo qualche anno fa l'avrei ritenuto un insulto! Ma queste
persone, che sono “normali“, che fanno parte della
società civile, che non hanno mai commesso reati, queste
persone chiamano me, che ho commesso tanti reati, un loro “collaboratore“
e questo mi fa piacere perché mi sento di collaborare
a qualcosa di importante, in cui si dà qualcosa senza
aspettarsi di ricevere.
Voi fate anche concerti e gira voce che Angelo Aparo suoni
bene la chitarra e abbia anche una bella voce...
Io conoscevo il dott. Aparo come psicologo del carcere e come
coordinatore
di questo Gruppo della Trasgressione. Quindi come può
immaginare lo vedevo sotto una certa luce. Quando l'ho sentito
cantare, al primo concerto che abbiamo fatto, sono rimasto senza
parole. Perché lo psicologo del ministero dai carcerati
è visto come una figura rigida, formale. È uno
che indaga nella mente dei detenuti per vedere se effettivamente
c'è stato questo cambiamento... noi le vediamo così
queste persone. Quando l'ho visto sul palco, cantare, con una
voce splendida e un'espressività che ti trasmette il
senso di quelle canzoni, sono rimasto davvero stupito. Poi nella
band c'è anche Silvia, una studentessa di psicologia,
che ha una voce splendida, commovente, una voce di cui sono
innamorato. Io ho fatto tante brutte cose nella vita. Non sono
uno tenero. Eppure, quando l'ho sentita cantare De André,
non sapevo dove andare per nascondere le lacrime. Non volevo
far vedere agli altri detenuti che stavo piangendo, perché
è una cosa che nel carcere non si fa, passi da debole.
Però poi a un certo punto non me n'è importato
più niente.
Concludiamo con uno sguardo rivolto al futuro...
Io mi auguro che chi di dovere faccia in modo che il Gruppo
della Trasgressione diventi una realtà anche in altri
istituti penitenziari. Non sarebbe un vantaggio solo per i detenuti
ma anche per la società, perché chi passa attraverso
questa esperienza viene recuperato alla società. Io sono
qui: sono un'altra persona. Ero un delinquente che andava in
giro armato, in auto rubate, capacissimo di fare una sparatoria.
Una volta ho assaltato una macchina con due persone dentro armate
fino ai denti... ero un vero delinquente! Adesso sono qui davanti
al computer che cerco di impostare qualcosa per il gruppo. Io
sono la prova vivente che il gruppo funziona e che chi di dovere
deve prendere l'iniziativa e dare finanziamenti per fare queste
cose. Perché questi ragazzi che vengono al gruppo come
volontari, senza percepire nulla, lavorano per il bene della
società. Vengono per convinzione, per aiutarci e qualcuno
dovrebbe riconoscere questo merito a questa gente. E meno male
che ci sono! Perché se io li avessi incontrati prima
la società si sarebbe risparmiata un sacco di guai da
parte mia!
|
Le
locandine di due concerti della Trsg.band |
Armando
Xifai
Da detenuto, nel carcere di San Vittore, hai lavorato con
il Gruppo della Trasgressione. Cosa ti ha spinto ad avviare
questa esperienza?
All'epoca io ero un tipo abbastanza presuntuoso e per certi
versi lo sono ancora. Vista l'ignoranza, la mancanza di cultura
comune nelle carceri, mi sono avvicinato al gruppo più
che altro pensando di fare una bella figura. Poi, man mano,
ho scoperto le mie mancanze, i miei dubbi. Tutte le certezze
sono crollate e a un certo punto ho cominciato a lavorare su
me stesso, che è poi quello che ti spinge a fare il gruppo.
Ma, nel concreto, che significa: “lavorare su se stessi”?
Uno quando commette un reato e finisce dietro le sbarre, in
un certo senso è arrabbiato col mondo e non dà
molte colpe a se stesso. Le colpe più che altro le distribuisce
a varie realtà: la famiglia, la società, o anche
singole persone conosciute. Uno finisce per giustificarsi e
non vedere le vere motivazioni per cui è finito in carcere.
Col lavoro del gruppo queste autogiustificazioni, lentamente,
crollano e si comincia a capire che le cose non stanno come
uno ha voluto immaginarsele. Questo è il lavoro su se
stessi, che porta a galla certi aspetti nascosti.
Adesso che non sei più detenuto continui a lavorare
per il gruppo. Hai avuto per esempio un ruolo di primo piano
in un recente convegno sul “Male”, organizzato a
Milano. Perché questo rapporto continua?
Quando fai parte di questo gruppo scopri l'amore per te stesso,
il rispetto. E allora cominci a produrre qualcosa, cominci un
lavoro mentale importante. Quando esci dal carcere queste cose
ti vengono improvvisamente a mancare, perché fuori trovi
una realtà completamente diversa. Quando sono uscito
dal carcere ho sentito proprio la mancanza del lavoro mentale
che avevo fatto con il gruppo. Mi sono reso conto che si era
formato un certo cordone ombelicale che si fa fatica a tagliare.
Io vivo lontano da Milano, a quasi 900 km, però partecipo
con piacere perché mi piacerebbe che di quello che ho
imparato io, di quello che ho capito, ne venissero a conoscenza
anche gli altri, perché, l'ho detto, sono uno presuntuoso,
vorrei aiutare a cercare di cambiare le cose, un po' come nelle
canzoni di De André.
Parlando di De André, il gruppo ha lavorato in modo
specifico sulla sua poetica. Tu che sei albanese forse neanche
lo conoscevi. Quanto è stato importante parlare del lavoro
di questo cantautore italiano?
De André è stato molto importante per me e credo
che potrebbe esserlo anche per gli altri. Perché io credo
che De André non parlasse tanto a noi diseredati, quanto
semmai agli altri, a quelli che dovrebbero capire i diseredati
e magari anche occuparsene. Quello che io sento di De André
è che lui ha come messo una pietra, nella speranza di
costruire un mondo nuovo, un posto dove la gente capisce e viene
capita. Non è un messaggio presuntuoso, De André
dice semplicemente che la realtà è questa e per
capirla bisogna mettersi nei panni di questa gente. Abbiamo
lavorato tanto su De André, non tanto sulla musica, sulla
quale magari siamo ignoranti, quanto sulle parole, su quello
che dice, sul suo pensiero. De André è stato davvero
molto importante per me. È vero, io sono albanese, ma
il suo linguaggio per me è internazionale. È un
linguaggio umano e per quello non è stato per niente
difficile capirlo. Tutti possono capirlo, basta avere la voglia,
la sensibilità, di sentirlo, di capirlo.
Vorrei approfondire questo argomento. Pensando a questa intervista
ero molto incuriosito dal fatto che un albanese ascoltasse questo
cantautore e mi chiedevo come poteva essere compreso De André
a partire da una sensibilità e cultura diversa. Tu mi
stai dicendo che quello di De André è un linguaggio
che può raggiungere tutti, al di là delle barriere
culturali e linguistiche?
Sì. Noi in Albania eravamo abituati a sentire magari
Albano o qualche altro cantante italiano, di quelli che più
che altro cantano la felicità. Canzoni facili da ascoltare
e accettare. Un cantautore come De André, che canta il
rovescio della medaglia non è facile accettarlo al primo
ascolto. Bisogna approfondire, entrare nella sua musica, in
quello che dice, nei sentimenti che esprime. Soprattutto bisogna
entrare nel significato, perché le canzoni di De André
sono ricche di conoscenza, al contrario di quelle di Albano,
che magari ha degli acuti straordinari ma non dice nulla di
importante. Insomma De André è un cantautore italiano
ma questo ha poca importanza, poteva anche essere di un altro
paese e chiamarsi Jerry, nel senso che la sua maniera di cantare
è internazionale e le cose che canta sono universali.
Per questo nel gruppo abbiamo analizzato i testi di De André
non in quanto canzoni ma soprattutto per i concetti che esprimono,
per il pensiero. Le sue canzoni comunque sono bellissime e io
spesso in cella, sdraiato sulla branda, le ascoltavo, perché
quelle canzoni annebbiavano un po' il nostro malessere di carcerati.
Però De André per me è molto più
di un cantante, è un uomo di pensiero che dice delle
cose di cui la gente preferirebbe non sentir parlare, perché
sono cose che ti spingono a ragionare. Canta le puttane, i detenuti,
i ladri, quelli che la gente “normale” vorrebbe
magari solo vedere in galera, figurati se vorrebbe vederli cantati.
Per quello noi detenuti ci siamo un po' innamorati di De André.
Angelo Aparo sostiene che l'opera di De André ha un
ruolo significativo nel lavoro del gruppo perché molti
dei temi delle sue canzoni sono gli stessi su cui si lavora
nel gruppo. Ma quali sono questi temi comuni fra il lavoro di
De André e quello del gruppo?
Anzitutto la questione del bene e del male. È un tema
presente in modo molto sensibile in tutte le canzoni di De André.
Noi nel gruppo abbiamo parlato del ritorno del figliol prodigo,
nel senso di cambiare il nostro modo di pensare e di essere,
ma senza per questo dover rinnegare tutto della nostra storia.
Infatti De André cerca sempre di non buttare via niente
delle persone, cerca semmai di far capire a chi lo ascolta che
quelle persone sono così, ma potrebbero essere anche
diverse. Che potrebbero essere altre. Noi abbiamo studiato attraverso
De André che il bene e il male sono molto relativi. Poi
ci sono molti altri temi, come quello della giustizia, per esempio
analizzando una canzone come quella del giudice4,
dove il tema è molto forte. Si può dire che tutti
i temi che abbiamo toccato come gruppo li abbiamo ritrovati
nelle canzoni di De André.
Ci sono molte canzoni di De André in cui il tema della
giustizia e della legge è affrontato in maniera diretta
e solitamente ritroviamo poco amore per chi amministra il potere
e molta comprensione per chi sbaglia. Penso a quel famoso verso:
“se non sono gigli son pur sempre figli, vittime di questo
mondo”. Tu ti sei mai ritrovato in qualcuno di questi
personaggi?
Io ho fatto un lavoro su La guerra di Piero. A prima
vista potrebbe sembrare che De André un po' ci giustifica,
ci difende, ma io penso che più che altro ci faccia riflettere.
Io ero dentro per traffico e spaccio di droga ed è successo
che un ragazzo di 26 anni con problemi di droga si è
suicidato. Per la prima volta, allora, mi sono sentito responsabile,
per il crimine che avevo commesso, per il mio delitto. Lì
mi sono sentito responsabile proprio direttamente, in maniera
tangibile e forte, tanto che in questo mio scritto su La
Guerra di Piero mi sono autoaccusato, dicendo che questo
ragazzo è morto anche per colpa mia. Se questo ragazzo
è morto è colpa anche di tutti quelli che hanno
fatto quello che ho fatto io. E questo l'ho capito con La
guerra di Piero. Lì ho capito che in De André
non c'è giustificazione ma comprensione. Lui cerca di
far capire a quelli che stanno fuori dal carcere e magari fan
volontariato, o magari non fanno nulla, o ci odiano e ci attaccano,
che la realtà è completamente diversa da come
loro la vedono, che il male che noi abbiamo tirato fuori galleggia
anche dentro di loro. Che Geordie, la puttana, l'assassino e
il giudice sono dentro tutti noi. Io ero un criminale, ma sarei
potuto essere benissimo anche un giudice. Siamo tutti giudici
in fondo. Il giudice è una figura simbolica, ma chi di
noi nella vita non si è sentito almeno una volta giudice
degli altri? Magari anche molto più cattivi di quelli
che condannano nei tribunali a vari anni di carcere. Noi siamo
i primi giudici, quelli che non pensano a quello che fanno e
magari condannano sulla base di notizie giornalistiche o di
voci di popolo, senza approfondire. De André invece è
tutto il rovescio di questo: lui non giudica e ci offre la possibilità
di conoscere quelle persone che magari a noi non piacciono,
ci spinge a un momento di riflessione, non tanto per giustificarli,
ma per capirli e cambiare se stessi.
Il gruppo ti ha aiutato quando si è suicidato quel
ragazzo?
Per chi sta dentro è facile dire: si è suicidato
perché non era un ragazzo forte, perché è
finito dentro e non era capace di sopportare le pene dell'inferno.
O che si drogava semplicemente perché gli andava di farlo,
perché i problemi stavano a casa sua, o perché
i problemi sono nella società. Perciò non sono
io responsabile, io ho solo portato la droga in Italia, io semplicemente
l'ho passata di mano, non sono stato io a iniettargli la droga
nelle vene... nel Gruppo della Trasgressione ci sono state discussioni
aspre su questo, io stesso ho avuto una discussione forte con
un tossicodipendente, non mi sono fermato subito a riflettere.
Ma quando abbiamo parlato di De André, quando ho ascoltato
La guerra di Piero, allora ho riflettuto e se non ho
più commesso un reato è proprio grazie a quel
lavoro che abbiamo fatto con il gruppo. Il gruppo ha influito
moltissimo sia sulle riflessioni che ho fatto sulla morte di
quel ragazzo che sulle mie scelte di oggi. Gli amici più
belli sono quelli che, quando esci, ti offrono l'opportunità
di riscattarti. Invece di solito quando esci la società
viene a mancare, le possibilità di riscattarti non ci
sono, i giudizi che trovi fuori, ovviamente, non sono positivi,
e allora provi a combattere ma, se non avessi avuto alle spalle
la forza di un lavoro come quello che abbiamo fatto nel gruppo,
l'amore di persone che mi hanno sostenuto (i miei familiari
e quelli del gruppo) sicuramente sarei stato una preda molto
più facile per la criminalità. Invece resisto.
Adesso faccio il muratore, un lavoro che nella vita non avevo
mai fatto e che speravo di non dover fare mai. Ma adesso lo
faccio, per rispetto di me stesso, per rispetto del gruppo e
del lavoro che ho fatto in tutti quegli anni di galera, che
non voglio buttare via.
Gli altri detenuti che hai conosciuto nel carcere, soprattutto
quelli del gruppo, la pensano come te?
Quando il gruppo organizza dei convegni in sala ci sono sempre
molti ex detenuti, il che significa che il gruppo non ha conquistato
solo me. Ho un amico serbo che vive a Belgrado e ogni tanto
ci sentiamo e ritorniamo con i discorsi, con piacere, a tutti
quelli che abbiamo conosciuto nel gruppo. Questo senza andare
a dire: “io sono cambiato”, perché a nessuno
di noi piace dirlo, fra ex detenuti sembra quasi un'infamia.
Però quella è la realtà. Chi fa un lavoro
nel gruppo cambia perché riflette sulla propria vita.
Questo non vuol dire che, se uno di noi domani commette un reato,
significa che il lavoro del gruppo è stato vanificato.
Semmai vuol dire che c'è ancora molto da fare e le istituzioni
dovrebbero darsi un po' più da fare, perché basterebbe,
da quando siamo usciti dal carcere, un anno, un anno e mezzo
senza aver commesso reati e senza essersi avvicinati ad attività
criminogene, per indurre chi di dovere a dare importanza a questo
gruppo.
Quanto è importante il rapporto che si stabilisce
fra i detenuti e gli esterni, gli studenti e gli insegnanti
che partecipano?
È molto importante. In Albania c'è un detto: “ci
sono i ricchi, i poveri e gli studenti”. Non so se sia
un detto valido anche in Italia, comunque gli studenti italiani
non è che siano molto benestanti, a meno che non provengano
da famiglie ricche. Allora prendo io l'iniziativa, quando posso
vado a Milano a trovarli. So benissimo che ognuno di noi ha
la sua vita, però quando ci incontriamo c'è fra
noi un sentimento di amore molto forte. Proprio due giorni fa
una ragazza del gruppo è diventata mamma: ha partorito
alle 3 del mattino e alle 6 mi ha mandato un messaggio per dirmi
che aveva avuto una figlia e questo penso che possa dimostrare
più di ogni altra cosa il legame che si è formato
tra noi.
De André aveva promesso una visita al gruppo poi purtroppo
la malattia gli ha impedito di onorare questo impegno. Se si
fosse concretizzato come sarebbe stato questo incontro con l'autore
de La guerra di Piero?
Mi avrebbe fatto davvero piacere incontrarlo, perché
persone come lui ce ne sono poche e invece ce ne vorrebbero
tante. Io non sono tipo da complimenti però mi sento
di dirgli anche oggi, post mortem, che i Fabrizio De
André mancano a questo mondo. Però lui non manca,
lui c'è perché ha parlato con le canzoni. Non
era un tipo da Maurizio Costanzo Show e da tutti gli altri show
dove magari vanno oggi dei cantautori, peraltro finti.
Mancano i Fabrizio De André e mancano anche i gruppi
della Trasgressione! Non sarebbe buona cosa se l'esperienza
del gruppo venisse applicata anche ad altre situazioni carcerarie,
visto che funziona?
Sì, ma io penso anche che il Gruppo della Trasgressione
non vada fatto solo nelle carceri ma anche fuori, fra la gente
comune, proprio per quello che ci dice De André. Serve
una riflessione nella società, perché la società
di oggi è cieca, non vede, non sente e la cultura mafiosa
è proprio dentro la società. Ognuno vede solo
quello che vuole vedere e sente solo quello che vuole sentire.
Io del resto non sono mai mancato a un appuntamento del gruppo
quando ero dentro e ora che sono fuori cerco sempre di partecipare.
Quindi non è una realtà solo del carcere.
Aparo ci ha raccontato che nei vostri incontri c'è
anche occasione di divertimento: si mangia, si canta tutti assieme...
anche questo è un aspetto importante del vostro lavoro?
Sì, ma anche triste allo stesso tempo perché dimostra
a noi detenuti ed ex detenuti che in fondo ci vuole poco per
star bene in mezzo alla gente, senza andare a cercare chissà
quali altre cose. Quando ci incontravamo si cantava qualche
canzone, si rideva, si scherzava e si stava da dio. Cose semplicissime,
però cose che ti mancano quando sei detenuto.
Mi fai pensare all'esperienza del rapimento, quando De André
e Dori Ghezzi furono costretti in una grotta per alcuni mesi.
De André disse che quel periodo di detenzione gli aveva
fatto capire quanto fossero importanti le piccole cose, quelle
di cui a volte ci scordiamo quando la vita va bene. Avete in
comune anche questa sensazione.
Sì, le piccole cose. Mentre ero in carcere è nato
il figlio di mia sorella e oggi mi manca molto mio nipote, mi
mancano gli amici del gruppo. Oggi sento quanto è bello
far colazione al mattino, leggere il giornale, leggere un libro.
Non ho la tv in casa, per scelta, perché preferisco vivere
in modo un po' spartano e spero che questa voglia di vivere
così mi duri, con l'attenzione alle piccole cose, come
ha capito De André quando è stato sequestrato
e come ho scoperto io quando sono stato in carcere.
Dando uno sguardo al futuro, ti vedi più in Italia,
nonostante i problemi del passato, o pensi di più al
tuo paese?
Ma io questa possibilità di pensare “qui o lì”
non c'è l'ho per adesso. Io cerco di tirare avanti e
costruire pian piano il mio futuro, ma non ho idee precise.
Potrebbe essere in Italia, in Albania o in qualunque altro paese,
perché il mio paese è il mondo e le radici si
possono mettere dovunque ci siano acqua e sole.
Seconda, necessaria premessa
De André aveva promesso di andare a trovare il Gruppo
della Trasgressione nel carcere di San Vittore, Ma quell'incontro
non si è mai tenuto. Mi sono chiesto come sarebbe andata,
se la malattia non avesse impedito questa bella occasione. Per
avere una risposta ne ho parlato con il giornalista Alfredo
Franchini, amico di De André, che nel 1991 era stato
promotore e testimone di qualcosa di molto simile, presso la
colonia penale di Is Arenas...
Alfredo
Franchini
In questa trasmissione siamo arrivati ad occuparci delle
canzoni di De André che hanno a che vedere con il carcere,
la giustizia, la legge. Tu hai raccontato un episodio5
al quale De André non aveva dato pubblicità, una
sua visita ai detenuti della colonia penale di Is Arenas, in
Sardegna. Puoi raccontarci i fatti?
Fabrizio non pubblicizzava mai queste cose, le faceva con discrezione.
Il carcere di Is Arenas è una piccola colonia penale,
molto frequentata da giovani, generalmente tossicodipendenti
o comunque ragazzi condannati per reati minori. Nel 1991 questi
giovani, grazie ad un insegnante del carcere, fecero una sorta
di studio sulle canzoni di Fabrizio, pubblicato sulla rivista
del carcere, ed espressero il desiderio di conoscerlo. Io gli
mandai queste pagine che i detenuti avevano scritto sulle sue
canzoni e lui, dopo aver preso contatti solo con il direttore
del carcere, una mattina, senza dir niente a nessuno, si incontrò
con i detenuti, i quali gli fecero una vera e propria intervista,
bellissima perché spontanea. Molti di loro si intrattennero
su aspetti anche molto personali, chiedendo ad esempio notizie
del sequestro di cui era stato vittima. Molti parlavano di aspetti
vicini ai loro problemi: della droga, della prostituzione. Fabrizio
rispose a tutto, senza sottrarsi. Raccontando del sequestro
spiegò perché aveva comunque deciso di restare
a vivere in Sardegna e perché non si era costituito parte
civile nel processo contro i suoi rapitori. Parlando della droga
il suo racconto fu molto importante perché i ragazzi,
molti dei quali tossicodipendenti, gli chiesero delle droghe
dei suoi tempi e lui rispose: “sono stato drogato anch'io,
perché ho bevuto alcol dai 18 ai 45 anni”. Qualcuno
gli chiese se era stato difficile smettere e lui rispose: “non
è stato difficile, non ho più assaggiato whisky
dalla morte di mio padre”. Raccontò infatti che
il padre gli chiese in punto di morte di non bere più
e Fabrizio, che era un uomo di grandi principi, smise di bere.
Tutte queste cose colpirono quei ragazzi molto più di
tante lezioni cattedratiche.
Tu scrivi che quei detenuti, che poi lui aveva incontrato,
avevano scoperto la libertà ascoltando le canzoni di
De André. Che cosa avevano scoperto in quelle canzoni?
Ti rispondo con un aneddoto. Durante una presentazione del libro,
a Milano, mi è capitato di incontrare un disabile in
carrozzella, il quale mi disse: “quando ascoltavo le canzoni
di De André io, per la prima volta, mi sentivo uno normale”.
Fabrizio, quando lo avevi di fronte ti faceva una specie di
radiografia: ti capiva a fondo, capiva i tuoi problemi e queste
cose le trasferiva nella canzoni. È chiaro che un malato
può riconoscersi nello stato d'animo del protagonista
di Un malato di cuore. La stessa cosa è accaduta
a chi si è drogato. Nel 1970 non era ancora morto Jimi
Hendrix e noi ragazzini non sapevamo cosa fosse la droga, eppure
lui, in quegli anni, scriveva il Cantico dei drogati.
Noi non la capivamo, ma chi si trovava già in quella
condizione la capiva. I ragazzi del carcere ci si sono riconosciuti
perché lui è riuscito nelle sue canzoni a disegnare
così bene degli stati d'animo nei quali ci si può
riconoscere.
Hai presentato il tuo libro anche nel carcere di Alghero
dove c'è una biblioteca dedicata a De André.
Nella biblioteca c'è una targa con i versi finali di
Via del Campo: “dai diamanti non nasce niente, dal
letame nascono i fior”, una cosa meravigliosa all'interno
di un carcere.
Il carcere di Alghero ospita molti detenuti per droga e moltissimi
extracomunitari. Lì ho incontrato un uomo, condannato
per uxoricidio. Era uno che non conosceva l'opera di De André,
che ne ha sentito parlare per la prima volta quel giorno e dopo
siamo rimasti in contatto, con tutti i limiti imposti dalle
severe leggi carcerarie, perché lui sta facendo uno studio
su De André in quanto si è riconosciuto in quelle
canzoni.
A De André che cosa aveva portato quell'incontro nel
carcere di Is Arenas?
Fabrizio era poco attratto da quelli che hanno la vita programmata,
lui preferiva stare vicino alle persone che non hanno la vita
facile. Conosceva bene anche gli ambienti cosiddetti “alti”,
ma non gli piacevano perché li trovava pieni di ipocrisia,
di falsità, tanto che in Sardegna non frequentava mai
i posti dove si ritrovavano i cosiddetti vip, stava meglio con
i contadini.
Ogni volta che faceva incontri di questo tipo Fabrizio sentiva
semplicemente di aver fatto il proprio dovere, perché
aveva un grandissimo senso del dovere ed essendo mosso dall'ansia
di giustizia, sentiva come un dovere il poter aiutare in qualche
modo delle persone in difficoltà. Tanto è vero
che aiutava in tutti i modi, anche sul piano economico: ogni
tanto staccava anche qualche assegno. Ognuno di questi incontri
poi, sebbene lui fosse un grande intellettuale e un grande artista,
era sempre alla pari. Infatti i ragazzi del carcere si aspettavano
di veder arrivare una star e invece si son trovati di fronte
un uomo, come succedeva sempre quando c'era di mezzo Fabrizio.
Renzo Sabatini
Note
- www.trasgressione.net.
- Avrei voluto intervistare non solo ex detenuti, ma anche
detenuti. Purtroppo la complessità delle leggi carcerarie
è insormontabile per una radio situata a migliaia di
km di distanza. Per lo stesso motivo non ho potuto raccogliere
testimonianze femminili: alcune detenute hanno iniziato un
percorso nel Gruppo della Trasgressione ma si trattava all'epoca
di una esperienza nuova e nessuna di queste donne aveva ancora
del tutto scontato la sua condanna.
- I nomi citati dall'intervistato sono stati qui omessi per
ovvie ragioni di riservatezza degli interessati.
- Un Giudice, dall'album: “Non al denaro, non
all'amore né al cielo“ (1971), frutto di un lavoro
sull'Antologia di Spoon River (1915), del poeta americano
Edgard Lee Masters (1868-1950).
- Il racconto è nel libro di Alfredo Franchini: “Uomini
e donne di Fabrizio De André”, edito nel 1997.
(interviste realizzate via telefono fra luglio e settembre
2007; registrate presso gli studi di Rete Italia – Melbourne.
Andate in onda nell'ambito della trasmissione radiofonica settimanale:
“In direzione ostinata e contraria“, dedicata ai
personaggi delle canzoni di Fabrizio De André)
In
direzione ostinata e contraria
Con
questa triplice intervista, prosegue la pubblicazione
su “A” di una parte significativa delle 27
interviste radiofoniche realizzate da Renzo Sabatini
e andate in onda in Australia nel programma “In
direzione ostinata e contraria” sulle frequenze
di Rete Italia fra il maggio 2007 e l’agosto 2008.
In tutto si è trattato di sessanta puntate (ciascuna
della durata di circa quaranta minuti, per un totale di
quasi 40 ore di trasmissioni), nel corso delle quali sono
state trasmesse le 27 interviste e messe in onda tutte
le canzoni di Fabrizio De André. Si tratta dunque
della più lunga e dettagliata serie radiofonica
mai dedicata al cantautore genovese.
Se proponiamo questi testi,
è innanzitutto per dare ancora una vlta spazio
e voce a quelle tematiche e a quelle persone che di spazio
e voce ne hanno poco o niente nella “cultura”
ufficiale. E che invece anche grazie all’opera del
cantautore genovese sono state sottratte dal dimenticatoio
e poste alla base di una riflessione critica sul mondo
e sulla società, con quello sguardo profondo e
illuminante che Fabrizio ha voluto e saputo avere. Con
una profonda sensibilità libertaria e – scusate
la rima – sempre in direzione ostinata e contraria.
Precedenti interviste
pubblicate: a Piero
Milesi (“A” 370, aprile 2012), a Carla
Corso (“A” 371, maggio 2012), Porpora
Marcasciano (“A” 372, maggio 2012), Franco
Grillini (“A” 373, estate 2012), Massimo
(“A” 374, ottobre 2012), Santino
“Alexian” Spinelli (“A” 375,
novembre 2012)); Paolo
Solari (“A“ 376, dicembre-gennaio 2012-2013).
la redazione di “A” |
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