Casella
Postale
17120
Senza
perdere la fedeltà a se stessa
Ho provato soddisfazione a leggere su “A”, la mia
rivista preferita insieme a Via Dogana, l'articolo Un
gioco da ragazze? (“A” 376, dicembre 2012/gennaio
2013).
I riferimenti da cui l'autrice prende slancio per il suo discorso
toccano testi che hanno il pregio – raro – di fare
politica vivente, di riflettere cioè, scrivendo, non
per refutare il discorso altrui avendo già in mente la
propria soluzione, e ancor meno di praticare una mossa di pensiero
sacrificato sul saggio canonico. In quei testi riscontro la
forza di una forma simbolica che mi va di esprimere in termini
di politica poetica. Ma in essi c'è anche il senso di
una poetica politica che mette al mondo qualche cosa di nuovo.
“A” non ha mancato di dar spazio al pensiero e agli
scritti politici di donne ma mai, prima di questo articolo,
mi è capitato di trovarne uno, donna o maschio ne fosse
l'autore, dove si cerca di dire il bene di ciò che si
pensa senza bisogno di dir male, il più delle volte senza
saperne, in atto e in pratica, qualcosa che vada oltre al semplice
averne sentito il frastuono di straforo, per un pensiero che
non “ci” conferma. Confesso che le difficoltà
della mia scrittura fanno sempre i conti con questo impaccio…
Mi preme allora in questa sentita letterina ringraziare Sandra
D'Alessandro esprimendo una domanda. In primis, sulla
conclusione – “Staremo a vedere.” –
Puoi dire qualcosa ancora, perché non ti nascondo di
averla avvertita come un appagato invito a guardare passivamente.
E offrendo(ti) una testimonianza a mio parere significativa.
Quando con Marina Terragni, alla Libreria delle donne di Milano,
si è discusso sul suo libro dal titolo del quale, “Un
gioco da ragazze”, è stato ricavato (redazionalmente?)
quello del tuo articolo su “A” corroborato da un
punto interrogativo, l'obiezione concorde al suo invito per
un'entrata numericamente egualitaria – il 50 e 50 –
è stato quello di invitarla a proporsi in prima persona,
se quello è il suo desiderio. Al che, lei, Marina Terragni,
ha risposto di non sentirsela proprio di entrare nei luoghi
di quel potere...
Se poi ci volesse entrare e riuscisse a starci senza perdere
la fedeltà a se stessa, perché, mi sto chiedendo,
non darle il sostegno di una come me che potrebbe godere, dove
è impensabile per i miei tempi di anziana anarchica,
di una non disprezzabile autorappresentazione d'impenitente
femminista?
Monica Giorgi
Bellinzona - Svizzera
Vegani talebani?
Noi non abbiamo due cuori – uno per gli animali, l'altro
per gli umani. Nella crudeltà verso gli uni e gli altri,
l'unica differenza è la vittima.
Alphonse de Lamartine
Sempre più frequentemente, da vegan antispecisti libertari,
inorriditi dall'olocausto animale, ci sentiamo a dir poco in
forte imbarazzo di fronte alle accuse di intolleranza e fanatismo
che vengono appioppate a chi si limita a mostrare, spiegare
ed argomentare (anche con toni accesi) quello che accade veramente
agli animali non umani che vengono usati, imprigionati, sfruttati
e uccisi.
Il termine più in voga è “talebano”,
con un evidente richiamo al fanatismo religioso di chi è
disposto a uccidere, a uccidersi, a perpetrare le più
crudeli forme di violenza nei confronti dell'infedele, di chi
non crede nel suo stesso dio.
Pare che qualcuno si sia portato via il concetto di attivismo,
pare che nella mente di molti, il fatto di lottare contro un'ingiustizia,
il fatto di denunciarla, di mostrare i suoi effetti pubblicamente,
sia diventata una faccenda non più lecita, paragonabile,
più che altro, a forme di integralismo, di guerra, di
violenza.
Noi siamo tra quelli che credono sia indispensabile, di fronte
ad un'ingiustizia, prendere una chiara posizione e smettere
subito di esserne complici. Perché un'ingiustizia non
è tale solo per la vittima che la subisce direttamente.
Condannare qualcuno alla pena di morte, per esempio, è
una profonda ingiustizia che riguarda tutti e tutte perché
trasforma la giustizia stessa in vendetta.
Scandalizzarsi, arrabbiarsi, lottare perché questo non
avvenga, ritenere inaccettabile che questo fatto si verifichi
anche una sola volta, anche per i crimini più efferati,
non potrà mai essere un atteggiamento da fanatici. E
lo stesso vale per l'olocausto animale.
Tutto sommato gli attivisti vegan antispecisti non sono organizzati
in squadracce, non effettuano spedizioni punitive, non impediscono
il libero esercizio dei pensieri, delle idee e delle pratiche
altrui.
Forse, alcuni di loro non comprendono come un vegan possa convivere
in armonia con un carnivoro, proprio come molti, moltissimi,
non riescono a comprendere come un'anarchica possa convivere
in armonia con un fascista. Eppure, solo nel primo caso si viene
considerati pazzi. Ma poi chi sono i pazzi? Quelli che prendono
gli psicofarmaci? Quelli che ne subiscono gli effetti collaterali?
È davvero paradossale che di fronte all'antispecismo
che, chiaramente ed inequivocabilmente, si pone in modo non
violento (nel senso che sceglie di non usare la violenza, l'imposizione
e la guerra come prassi, come strategia) contro qualunque forma
di dominio (sia umana che animale), si finisca per mettere l'accento
su qualche episodio di intolleranza dal quale nessun movimento
al mondo è mai stato immune.
È davvero paradossale che di fronte alla strage di cinquecento
milioni di animali non umani al giorno, ci si preoccupi, più
che altro, del tono della voce di chi denuncia questa ingiustizia,
del fatto che la libertà di continuare con questa strage
(che prevede deportazioni, mutilazioni, prigionia) sia considerata
più importante della libertà di poter vivere senza
essere deportati, mutilati, imprigionati e uccisi.
Troglodita Tribe
Roccapetrona (Mc)
trogloditatribe@libero.it
I
vegetariani fanno meglio all'amore
È apparso uno studio scientifico, serio, argomentato:
ricercatori autorevoli hanno provato che noi non carnivori sotto
le coperte siamo meglio. C'è anche una lunga dichiarazione
di Paul McCartney, che di noi vegetariani è la bandiera
canora, contro il consumo di carne che uccide il pianeta. Lo
sappiamo e Paul fa bene a ricordarlo: gli ettari di terra che
occorrono a saziare una mucca per ingrassarla, ettari per lo
più sottratti alla foresta vergine nei paesi tropicali,
coltivati a soia (praticamente tutta ogm), destinati a colture
cerealicole, basterebbero a sfamare molti miliardi in più
di persone. Ma, lo sappiamo, si coltiva non per nutrire il pianeta
ma per rimpinguare le casse dei soliti scommettitori sui futures
e derivati – ovvero, essendo gli occidentali più
ricchi e acquirenti di carne, si preferisce alimentare il mercato
della carne solamente perché il profitto finale risulta
più alto. I consumatori dei paesi del nord del mondo
spendono molto; i poveri, ai quali andrebbero soprattutto cereali
e mais, non hanno la stessa immensa capacità d'acquisto,
dunque, crepino di fame e si arrangino. Che la biodiversità
mondiale venga massacrata, che le foreste scompaiano, vedi Brasile
e Indonesia, per far posto alla soia o all'olio di palma, non
interessa a chi manovra la finanza mondiale, il cibo non è
un diritto ma una delle componenti, assieme al business dei
fertilizzanti.
Essere vegetariani spariglia le carte. Mette in discussione
un modello che danneggia miliardi di persone, i cui terreni
vengono espropriati con la forza dalle dittature foraggiate
dai latifondisti, i terratenientes sparsi per il globo,
succubi delle tre o quattro multinazionali che affidano alle
polizie il compito di massacrare, in Guatemala come in Brasile
e in India, ogni contadino, ogni comunità di pezzenti
che osi mettersi di traverso all'esproprio delle terre, spesso
le migliori, destinate ad impianti di monoculture ceralicole
o di soia.
Per un “democratico”, un libertario, un ecologista,
sapere che diventare vegetariano, sul piano globale, spezza,
allenta, allevia la pressione sui suoi simili schiacciati dalle
multinazionali dovrebbe essere sufficiente ad abbandonare il
consumo di carne o almeno a diminuirne sensibilmente l'uso.
Essere vegetariani non è dunque una mera questione di
dieta: ha un significato etico, economico e macroeconomico,
porta con sé aspetti spirituali, filantropici, antispecisti,
animalisti. Significa essere solidali ogni giorno con una comunità,
un villaggio del sud del mondo che lotta contro la multinazionale
di turno, spalleggiata da esercito e polizia, contro l'espropriazione
di un terreno, di un pezzo di terra che potrebbe sfamare i campesinos
del luogo.
Non è possibile cianciare di nuova economia equa e solidale,
di agricoltura a filiera corta, di km zero, di riduzione dei
consumi, di decrescita felice se non si scioglie il nodo della
fine dell'alimentazione carnea.
Finché il mercato della carne sarà interamente
dipendente dai grandi allevamenti, che a loro volta si riforniscono
di soia e cereali nel sud del mondo, dove questi vengono prodotti
a costo inferiore, non sarà possibile parlare di economia
solidale. Lo scandalo repentinamente messo a tacere del Parmigiano
Reggiano, che si serve di soia ogm per le sue vacche, alla faccia
di ogni sbandierata “italianità” e genuinità
del prodotto finale, è solamente una punta dell'iceberg
colossale che vede i suoli del pianeta ridotti a pascolo passivo
per le vacche. Pascoli che si erodono, perdono fertilità
e humus, campi immensi che muoiono, monoculture a perdita d'occhio
ove non canta un uccello, non vegeta un albero, non spunta un
fiore.
Il deserto sopraggiunge e poi... altrove a disboscare, a strappare
con la violenza, se è il caso, terra per nuovi pascoli.
Non è possibile bendarsi gli occhi e continuare a definirsi
democratici, non è proprio più possibile. Essere
vegetariani significa porre la questione sul proprio tavolo,
ogni giorno, smetterla con le scuse, prendere di petto la faccenda
e dire “io ne sono fuori”. Meglio ancora se si arriva
all'autoproduzione, alla creazione di orti urbani collettivi,
alla pratica di ecovillaggi diffusi, alla tessitura di una rete
di contadini e cittadini senza padroni, ove la libertà
venga intesa come presa di coscienza seria ed equilibrata del
nostro peso di occidentali viventi nel ventre della bestia,
noi che abbiamo una parvenza di democrazia, di libertà
che milioni di campesinos non hanno e che sognano.
Noi possiamo decidere cosa e come mangiare, cosa e come acquistare:
qui, in occidente, ancora è possibile pensare e consumare,
produrre diversamente. È dunque un dovere porsi queste
questioni. Nessuno può chiamarsi fuori.
Se poi vengono pure a raccontarci che essere vegetariani –
ma lo sapevo, sono vegetariano da trent'anni... – significa
anche fare meglio all'amore... E per forza: nelle carni, specie
i salumi, c'è una concentrazione di nitrit, di purina,
cadaverina e adrenalina che affaticando i reni, impediscono
o rallentano, nel migliore dei casi, le spinte necessarie al
sesso. E tra le altre cose le carni richiedono al nostro organismo
una quantità di energia incredibile per essere assimilate.
Queste sono cose che conoscevo già, si sapevano, i vegetariani
le hanno sempre sapute.
Essere vegetariani significa fare meglio all'amore con il pianeta
intero, essere vegetariani significa porsi il problema non solamente
dei nostri amici e fratelli animali ammazzati a milioni in silenzio
senza necessità alcuna, significa porsi la questione
di milioni di nostri fratelli contadini espropriati, schiacciati,
come è successo soltanto qualche mese fa in Guatemala.
Se essere vegetariani significa far meglio all'amore, facciamolo
questo amore ma facciamolo col cuore e con la mente. Essere
vegetariani significa volersi bene, se si unisce a questa consapevolezza
una pratica di orto biologica, uno stile di vita sobrio, se
si pratica una decrescita felice dei bisogni falsamente indotti
dalla fabbrica pubblicitaria, davvero si può affermare
che stiamo facendo all'amore col pianeta e sappiamo tutti, basta
aprire la finestra e respirare i gas di scarico delle nostre
città, quanto ce ne sia bisogno.
Teodoro Margarita
Asso (Co)
Dibattito
Libertà senza Rivoluzione/1
Libertà, uguaglianza e solidarietà: una triade
inscindibile
Per essere chiari: Libertà senza rivoluzione di
Giampietro “Nico” Berti (Lacaita editore, 2012)
è un testo cruciale, un testo che, almeno nell'ambito
del pensiero libertario e anarchico degli ultimi decenni, ha
pochi termini di paragone per la radicalità e vastità
dell'elaborazione, anche se questo non toglie che, dal punto
di vista letterario, esso si riveli assai leggibile, tale tanto
per la passione che traspare da ogni pagina quanto per lo stile
impiegato, tant'è che lo si potrebbe quasi definire un
trattato scritto come un pamphlet. Ciò che, in
ogni caso, rende questa un'opera necessaria è il fatto
che attraverso di essa Berti affronta l'elaborazione di una
filosofia politica per e dell'anarchismo, così
impegnandosi nel terreno in cui gran parte del pensiero anarchico
e libertario ha spesso mostrato la corda, seguendo (laddove
ha almeno avuto il merito e la sensibilità di capire
l'ineludibilità e la centralità del problema)
ora questa ora quella impostazione teoretica e riuscendo solo
abbastanza raramente, in particolare negli ultimi decenni, a
produrre elaborazioni originali e, soprattutto, convincenti.
Questo è invece, come detto, il terreno su cui Berti
incentra le sue riflessioni e analisi, che in tal modo affrontano,
solo per citare i temi portanti, la natura e il fondamento della
libertà, il problema della rivoluzione come fatto storico-politico
e la follia del porla come snodo cruciale concettuale e pratico,
la questione storico-filosofica del marxismo e del comunismo
e il significato del suo agire concreto così come della
sua fine, la nascita e la natura del capitalismo e il portato
storico della vittoria che esso ha realizzato sul comunismo,
la crisi epocale dei movimenti operai.
Tutto il discorso gira, ovviamente, attorno al nodo dell'anarchismo,
la cui specificità, dice giustamente Berti, non si trova
tanto nel postulare una società anarchica, quanto soprattutto
nella particolare e originale interpretazione e articolazione
che esso ha dato alle idee di libertà, di eguaglianza
e di solidarietà, delle quali proprio l'anarchismo ha
mostrato l'inscindibilità reciproca. Berti muove anzi
dalla costatazione, assunta senza consolatori pannicelli caldi,
della crisi strutturale che l'anarchismo stesso vive
oggi e la collega in particolar modo al fundus assolutizzante
e di fatto religioso che, prendendo la forma del rivoluzionarismo
e di un anticapitalismo aprioristico, praticamente e concettualmente
avrebbe impedito all'anarchismo di cogliere (anche laddove,
come nella Spagna del 1936, gli anarchici si trovarono ad essere
la forza determinante) la natura e la non trascendibilità
della dimensione politica, in particolare di quella dischiusa
dalle liberal-democrazie.
Muovendo da tutto ciò e dal novum che il nostro
tempo per moltissimi aspetti rappresenta (anche se sono molti
che sembrano non capirlo, non solo in ambito anarchico), Berti
avanza – molto sommariamente – l'ipotesi di un di
anarchismo di fatto politico che, cancellato ogni rivoluzionarismo,
ogni ubbia di “autenticità”, così
come ogni anticapitalismo in quanto conditio sine qua non
pratica e concettuale, sappia coniugare Immanuel Kant (“La
mia libertà finisce dove comincia la libertà altrui”)
e Michail Bakunin (“Nessuno è libero se tutti non
lo sono, perché la mia libertà si completa nella
libertà altrui”), agendo concretamente all'interno
del farsi della società senza volere, e senza pensare
di, dirigerla verso fini astrattamente prefissati.
Come è facile intuire da quanto sopra tratteggiato (e
sulle cui linee di fondo il sottoscritto concorda) Berti dà
vita a un percorso assai vasto e complesso che, proprio in quanto
tale, a sua volta non può non suscitare tematizzazioni
e riflessioni, anche radicalmente critiche.
La prima di esse, per la centralità che ha nel pensiero
anarchico e nel discorso di Berti, non può che riguardare
la libertà e la sua natura filosofica e antropologica.
Egli, infatti, regge tutto il suo ragionamento sulla affermazione
forte che gli essere umani sono ontologicamente liberi perché
ontologicamente libera sarebbe la loro coscienza – ed
è proprio per questo che possono pensare a come esserlo
anche politicamente e socialmente –, ma non chiarisce
né cosa sia detta coscienza, né il come e il perché
essa si presti troppo spesso, come la storia umana dimostra,
a negare nei fatti questa ontologica libertà, una negazione
visibile soprattutto nei modi e nelle forme assunte da troppe
società umane (si pensi alla facilità con cui
i totalitarismi moderni hanno trionfato). Correlativa a ciò
è la concezione della politica, che per Berti, un po'
troppo recisamente, pare sostanzialmente coincidere con la sola
dimensione “machiavelliana”, per la quale, come
noto, la politica si identifica di fatto col potere e con la
lotta per conquistarlo, mentre il potere stesso è inteso
come sostanzialmente avulso da ogni altro elemento socio-culturale.
Questo rimanda direttamente alla natura della modernità
e della particolare razionalità che essa ha inaugurato,
temi rispetto ai quali quel che Berti dice è se non altro
parziale, visto che egli non pare pienamente cogliere la dimensione
costruttivistica che, piaccia o no, proprio la razionalità
moderna ha inaugurato. Infine, non sempre chiare sono le affermazioni
sulla natura della tradizione anarchica, sulle passioni che
definirebbero gli esseri umani come tali, sull'individualismo.
Chi scrive trova sostanzialmente da respingere, invece, quasi
tutte le analisi e le prese di posizione bertiane circa il post-strutturalismo,
il “post-anarchismo”, il relativismo culturale,
l'immaginario sociale, il libertarismo alla Nozick, destra,
sinistra e altro ancora, ma questo non cambia il fatto che un
anarchismo che oggi voglia essere seriamente e meditatamente
libertario, e non solamente e semplicisticamente ribellistico,
non possa evitare di porre al centro di qualsiasi elaborazione
le riflessioni di Berti. Come afferma una nota sentenza, infatti,
da ora in poi si può pensare con o contro Libertà
senza Rivoluzione, non senza di esso.
Franco Melandri
Forlì
Dibattito
Libertà senza Rivoluzione/2
Domenico Letizia/Oltre il capitalismo (non
contro)
Anche il pensiero anarchico è oggetto di “revisione”.
La riflessione che produce l'ultimo volume di Nico Berti, uno
dei più grandi storici e teorici dell'anarchismo, non
può che meritare attenzione, soprattutto, per l'analisi
di essenziali fenomeni e concetti che, per la prima volta, vengono
considerati davvero da una prospettiva libertaria, parlo del
comunismo, del capitalismo e del concetto etico-storico di rivoluzione.
Nessun serio pensatore può negare che l'anarchismo si
trova oggi ad affrontare, dopo la sconfitta del comunismo da
parte del capitalismo, la fine della prospettiva rivoluzionaria
concepita come rovesciamento radicale dell'esistente canalizzata
su una prospettiva anticapitalista.
Ogni volta che si analizza la storia non si può che costatare
che la libertà non è la rivoluzione, la presunta
verità forte della rivoluzione deriva dalla convinzione,
da parte dei rivoluzionari di professione, di aver avanti solo
una possibile trasformazione radicale dell'esistente attraverso
un atto decisivo forte ed autoritario, ogni atto che pretende
di essere risolutore è intrinsecamente totalitario. Berti
si sofferma ad analizzare tutti i maggiori fenomeni rivoluzionari
avvenuti, concludendo che se non accompagnati da un ethos liberale
essi rappresentano la peggior forma di totalitarismo che un
regime politico possa produrre. Anche se non viene citato, Berti
sembra aver approfondito il pensiero dello storiografo Reinhart
Koselleck, che nell'analizzare il fenomeno della rivoluzione
e dell'etica che accompagna un rivoluzionario, ci ricorda come
tale fenomeno possa essere la giustificazione più penetrante
ad ogni crimine umano. Il rivoluzionario di professione è
convinto interiormente di lavorare per il giusto, anche se costretto
a compiere scelte radicali che comprendono lo sterminio e la
morte di decine di individui, tutto è giustificato e
superato poiché si lavora per la rivoluzione.
La Rivoluzione, quando avviene, crea un vuoto di potere (non
il suo annullamento) che i rivoluzionari colmano con un potere
molto più forte del precedente, unico modo per evitare
che la storia torni indietro e sfugga loro di mano. Il fenomeno
della rivoluzione è stato sempre accompagnato alla realizzazione
della società comunista e la convinzione, da parte della
sinistra, che il progetto comunista andava sostenuto accelerandone
la realizzazione.
Il primo esperimento al mondo dell'abolizione della proprietà
privata e del mercato sancisce (Urss), con la sua catastrofe,
la vittoria della logica liberale e capitalista. Analizziamo
bene il proseguire di tale ragionamento, ciò che Berti
cerca di far risaltare non è l'immensa bontà del
capitalismo moderno (lungi da noi tale considerazione) ma l'analisi
storica politica del fenomeno comunista e del fenomeno capitalista.
Per Stirner il comunismo è l'ultima espressione religiosa
della storia umana, la terminale forma storica del sacro, l'estrema
domanda di ri-significazione del mondo perché vuole fare
coincidere la verità dell'uomo con la verità della
società (Stirner rifiuta il concetto di società
accettando solo quello di individuo) e queste, a loro volta,
con la verità del divenire storico. Dove risiede quella
forza etica del capitalismo, nella storia, che il comunismo
non ha mai avuto? Nella storia e nei processi storici.
Il capitalismo si è sviluppato come processo, è
un fenomeno e come tale non può essere abbattuto, ma
superato. Nessuno ha mai pensato di voler abbattere il Medioevo,
poiché tale “periodo storico” non è
un progetto ma un processo storico, naturale conseguenza dei
mutamenti sociali ed economici delle società. La forza
del capitalismo e inevitabilmente il suo superamento risiede
nell'essere un fenomeno, un processo, mentre il comunismo rappresenta
un progetto che ha miseramente fallito. Il comunismo dovrebbe
accadere, il capitalismo è accaduto. In tale processo
come deve porsi l'anarchismo e il metodo anarchico? In tale
approccio vi è la forza “innovativa” della
proposta di Berti. La sconfitta del comunismo è la vittoria
del capitalismo, ma non la vittoria tout court del capitalismo.
L'anarchismo fino alla rivoluzione spagnola ha rappresentato
una parte viva ed importante, ove più ove meno, della
società.
Ora l'anarchismo, inteso come movimento storico, non rappresenta
che se stesso. L'anarchismo dovrebbe partire dal presupposto
che la liberal-democrazia deve essere analizzata come realtà
non prescindibile, poiché la sua eliminabilità
non va auspicata dal momento che la sua esistenza è la
condizione storica stessa per il suo superamento in direzione
anarchica.
Bisogna lavorare e pensare all'anarchismo come un qualcosa che
viene dopo la liberal-democrazia, il passo successivo, l'anarchismo
ha la possibilità di divenire protagonista se si auto-pensa
e auto-pone dopo la liberal-democrazia e non contro la liberal-democrazia.
L'anarchismo ha il compito di proporsi oltre il capitalismo
e non contro il capitalismo, sostenendo una possibilità
della libertà, non un punto di vista riformista, ecco
perché bisogna insistere sui nessi che uniscono l'idea
anarchica a quella liberale a quella democratica; insistere
cioè sul rapporto politico che passa tra chi propugna
di limitare il potere (liberalismo) e chi propone di estendere
il potere a tutti (democrazia). Sappiamo che la soluzione liberale
e quella democratica avallano un sistema di potere. Ma questo
non è un buon motivo per non porre il problema teorico
politico di tale connessione.
Come ha espresso l'intellettuale libertario francese, Michel
Onfray: “lo scambio è alla base di tutte le società
esistenti, perché allora non provare con la formula anarchica
ed economicamente laica (sostenuta ad esempio da Proudhon) da
reinventare per i nostri tempi?” Una rivoluzione senza
sangue e senza fili spinati, una rivoluzione senza rivoluzione.
Domenico Letizia
Maddaloni (Ci)
Umberto Del Grande, un anarchico “pulito”
Umberto Del Grande è stato un anarchico, un compagno,
un fratello. Attivo nel movimento anarchico milanese sul finire
degli anni '60, era – tra l'altro con Pino Pinelli –
membro della Crocenera Anarchica, impegnato nella solidarietà
con i compagni arrestati, nella campagna di controinformazione,
nei contatti con gli avvocati, ecc. è stato anche il
“proprietario legale” di questa rivista nei suoi
primi anni, prima che costituissimo la cooperativa Editrice
A.
Il giornalista Gianni Barbacetto, in un suo scritto di 10
anni fa (che ci era sfuggito) e ora riproposto, lo definiva
“in collegamento con i fascisti di Ordine Nuovo”.
Non è vero. Punto.
Volentieri pubblichiamo questa lettera di Enrico Maltini,
anche lui membro di Crocenera Anarchica in quegli anni e co-autore
del libro su Pinelli, di imminente uscita per i tipi di Zero
in Condotta, di cui proprio in questo numero pubblichiamo alcuni
stralci.
la redazione di “A”
Su Indymedia di pochi giorni fa il giornalista Gianni Barbacetto
ha ripubblicato il testo di un suo articolo del 2003 sulla sentenza
Bertoli, relativa alla strage della questura di Milano del 1973.
Nel testo si legge una frase assai sgradevole riferita al nostro
compagno Umberto Del Grande, che è morto anni orsono
e non può replicare. Lo facciamo noi per lui. Nella frase
si legge: “C'era Umberto Del Grande, editore della rivista
Anarchia, ma anche in collegamento con i fascisti di Ordine
Nuovo di Verona...”
Si può supporre che Barbacetto abbia ricavato questa
notizia dal testo dei motivi del ricorso per Cassazione contro
una sentenza del 28.09. 2002 nei confronti di vari personaggi
di destra, tra cui Boffelli, Spiazzi, Neami ecc., da parte del
sostituto Procuratore Generale Laura Bertolè Viale. Nel
ricorso si legge la frase seguente: “Del Grande figurava
come editore della rivista “Anarchia”, ma era in
stretto collegamento con un appartenente a Ordine Nuovo di Verona...”
L'appartenente ad Ordine Nuovo cui si riferisce il sostituto
Procuratore è Marcello Soffiati, noto estremista nero
di Verona. Da dove trae origine quell'affermazione?
In una lunga informativa della Digos di Venezia in data 4.06.1997
inviata all'ufficio istruzioni del tribunale di Milano (dott.
Lombardi) si citano i risultati di una perquisizione effettuata
nell'abitazione di Soffiati, tra questi si legge ai punti 46.1
e 46.2:
Soffiati Marcello perquisizioni
46.1 Nel borsello ritrovato (si riferisce ad un “fortuito
ritrovamento del borsello del Soffiati”, n.d.r.) vennero
anche rinvenuti appunti relativi a notizie su persone ed organizzazioni
di opposto colore politico, oggetto peraltro di successivi accertamenti,
per i quali si richiama quanto contenuto nella nota di codesta
A G, a cui si fa riferimento.
46.2 Si precisa che tra i cennati appunti – due pagine
dattiloscritte con annotazioni a penna di aggiornamento –
figura anche il nominativo di Umberto Del Grande, titolare della
“Redazione ed Amministrazione Editrice” di Milano,
con utenza telefonica 2896627, che viene indicato in contatto
con i suddetti ed i successivi elencati”
46.3 Si deduce quindi che, anche alla luce di quanto emerso
successivamente nei confronti del Soffiati Marcello, i nomi
e le ditte elencate nei due fogli dattiloscritti non fossero
altro che una sua normale attività da svolgere.
Dunque una schedatura di nemici politici, attività allora
molto frequente.
Inutile dire che lasciamo a Barbacetto la responsabilità
di ciò che scrive.
Enrico Maltini
Milano
I
nostri fondi neri
|
Sottoscrizioni. Giovanni Baccaro (Padova)
20,00; Gianluigi Coreti (Bergamo) 10,00; Mariella
Bernardini e Massimo Varengo (Milano) 20,00; Valeria
Nonni (Ravenna) 101,00; Fulvio Casarà (Venasca
– Cn) 10,00; Aurora e Paolo (Milano) ricordando
Alfonso Failla e Amelia Pastorello, 500,00; Alessandro
Natoli (Cogliate – Mb) 20,00; Davide Turcato
(Vancouver – Canada) 100,00; Mirko Piras (Nulvi
– Ss) 10,00; Luis Gonzales (Bruxelles –
Belgio) 500,00; Paolo Paolucci (Chieti), 20,00; Davide
Rossi (Casorate Sempione – Va) 10,00; Lorenzo
Brivio (Besana – Mb) 20,00; Ettore Delorenzi
(Lugano – Svizzera) 10,00: Gianni Ricchini (Verbania)
20,00; Domenico Angelino (Sant'Antimo – Na)
20,00; Francesco Gava (Monfalcone – Go) 10,00;
Francesco Cherubini (Firenze) 20,00; Massimo Scarfagna
(Valiano – Si) 20,00; Emiliano Sghedoni (Campagnola
Emilia - Re) 20,00; Giorgio Nanni (Lodi) 20,00; Sergio
Pozzo (Arignano – To) 20,00; Michele Pansa (Tropea
– VV) 20,00; Nunzio Cunico (Cresole-Caldogno
– Vi) 5,00; Gesino Torres (Santo Spirito –
Ba) 20,00; Carlo Ghirardato (Roma) 6,00; Paolo Caccia
(Genova) 50,00; Simone Mor (Brescia) 10,00; Antonio
Costa (Bologna) 20.00; Claudio Neri (Roma) 40,00;
Arcangelo Piciullo (San Giovanni Dosso – Mn)
5.00; Pierluca Oldani (Casorezzo – Mi) 42,00;
Ivano Sallusti (Guidonia Montecelio – Rm) 10,00;
Franco Schirone (Milano) 100,00; Federico Battistutta
(Gropparello – Pc) 30,00; Domenico Sabino (Nocera
Inferiore – Sa) 30,00; Pietro Ferrua (Portland
– USA) 40,00. Totale € 1.935,00.
Abbonamenti sostenitori. (quando non altrimenti
specificato, trattasi di euro 100,00). Selva
Varengo e Davide Bianco (Lugano – Svizzera);
Fiorella Mastrandrea e Amedeo Pedrini (Brindisi);
Luca Todini (Brufa-Torgiano – Pg) 150,00; Tommaso
Bressan (Forlì) 150,00; Silvano Montanari (San
Giovanni in Persiceto – Bo); Francesco Barba
(Villanuova sul Clisi - Bs) 150,00; Giancarlo Baldassi
(Sedegliano - Ud); Tomaso Panattoni (Milano); Gianfrancesco
Di Nardo (Roma); Manuele Rampazzo (Padova); Paolo
Zonzini (Borgo Maggiore – Repubblica di San
Marino); Giordana Garavini (Castel Bolognese –
Ra); Giuseppe Anello (Roma); Tiziano Viganò
(Casatenovo – Lc); Giancarlo Gioia (Grottammare
– Ap); Fausto Franzoni (Pianoro – Bo);
Fulvia De Michiel (Belluno); Silvio Gori (Bergamo)
ricordando Egisto e Marina Gori; Pierluca Oldani (Casorezzo
– Mi); Centro A Ordine Sparso - CAOS (Genova);
Massimo Ortalli (Imola); Arturo Schwarz (Milano) 150,00.
Totale € 2.400,00
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