Cento anni di canzoni – 2
Melodrammi portatili
a cura di Alessio Lega
Dormiva il cuore mio
da più giornate
io lo vegliavo come un bimbo amato
ora la vostra voce l'ha destato,
il cuore ha pianto e voi me lo rubate.
Chi siete?
Io non lo so
ma so che gli occhi ardenti
hanno la forza di strapparmi il cuor.
Chi siete? è una canzone del 1917 – un anno
destinato ad aggrapparsi alla memoria, l'anno della Rivoluzione
d'ottobre russa – quando l'Italia e il mondo si trovavano
ancora impastoiati nelle trincee della Grande guerra.
Passa la Storia dalle canzoni? Forse non direttamente e non
singolarmente, ma se esaminiamo un periodo e un gruppo di testi,
se non proprio gli avvenimenti passano i fermenti, le mode,
le ossessioni.
Le canzoni sulle quali ci soffermiamo in queste righe sono le
canzoni dei primordi del '900 – che sarà il secolo
della canzone –, canzoni nelle quali è ancora fortissima
la ricerca di un linguaggio, canzoni sospese e dilaniate da
mille conflitti e tentazioni estetiche. Il melodramma, il modernismo,
uno stantio carduccianesimo, qualche folgorazione futurista.
Sono canzoni “di” autori – spesso ottimi autori
– ma non ancora “canzoni d'autore”: non hanno
ancora trovato quella strada che lega indissolubilmente la poetica
dell'autore a quella del cantante, che a partire dagli anni
'60 del '900, sarà il più delle volte la stessa
persona.
Per ora queste canzoni cercano un interprete, magari più
d'uno, uomo o donna che sia, e così la loro poetica è
più generica, anche quando la fattura risulta buona,
i versi ben cesellati, la melodia ricca, l'atmosfera intrisa
di poesia. Tanto è vero che i casi in cui poi autore
e cantante effettivamente coincidono, è appunto “un
caso”, una bizzarra possibilità, che poco o nulla
sposta. Forse è solo per il senno di poi che siamo colpiti
da quegli autori che, come Armando Gill – al secolo Michele
Testa – erano anche cantanti.
Armando Gill era un fantasista napoletano, un attore brillante,
verseggiatore rapido nell'improvvisare, tanto è vero
che l'aneddotica ce lo tramanda come un signore compito ed elegante
che usava scherzare con leggerezza, snocciolando sempre nuovi
versi – concludeva gli spettacoli con ...E allora,
canzone “aperta” della quale improvvisava i successivi
passaggi seguendo i suggerimenti del pubblico – non solo
per lavoro ma anche sul tram, nei negozi, finendo per corteggiare
in rima la ragazza che sarebbe divenuta sua moglie direttamente
dal palco. La tensione poetica del suo repertorio in napoletano
è senz'altro meno incandescente di quello dei coevi Di
Giacomo e Bovio, e le sue macchiette impallidiscono a confronto
della furia iconoclasta di quelle di Ettore Petrolini. Di lui
però ci resta la grazia di Come pioveva, canzone
in italiano, in puro stile “piccolo melodramma di una
donna perduta”, un topos dell'epoca, che però
resta commovente, proprio perché la sobrietà dei
versi e l'abile uso del parlato, la tiene sul filo di un patetico
quotidiano, e non la fa sprofondare nella sceneggiata. Questa
canzone – successo immenso – fu lanciata da un'abile
campagna pubblicitaria: comparvero parecchi manifesti che raffiguravano
semplicemente un ombrello, in seguito il manifesto riapparve
con la scritta “Come pioveva”.
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Da
sinistra a destra: Anna Fougez, Armando Gill,
E. A. Mario, Gino Franzi |
C'eravamo tanto amati per un anno e forse più,
c'eravamo poi lasciati, non ricordo come fu
ma una sera c'incontrammo per fatal combinazion,
perché insieme riparammo, per la pioggia, in un porton!
[...]
Ed io pensavo ad un sogno lontano
a una stanzetta d'un ultimo piano,
quando d'inverno al mio cor si stringeva...
Come pioveva... come pioveva!
«Come stai?» Le chiesi a un tratto «Bene,
grazie, disse, e tu?».
«Non c'è male» e poi distratto «guarda
che acqua viene giù!».
«Che m'importa se mi bagno, tanto a casa debbo andar»
«Ho l'ombrello, t'accompagno» «Grazie,
non ti disturbar...»
Passa a tempo una vettura io la chiamo, le fa «no»
dico «Oh via, senza paura, su montiamo», e lei
montò.
Ma il ricordo del passato fu per lei il più gran dolore,
perché al mondo aveva dato la bellezza ed il candor...
così quando al suo portone un sorriso mi abbozzò
nei begli occhi di passione una lagrima spuntò.
Io non l'ho più riveduta se e' felice chi lo sa
ma se ricca, o se perduta, ella ognor rimpiangerà...
Quando una sera in un sogno lontano
nella vettura io le presi la mano
quando salvare ella ancor si poteva
Come pioveva... così piangeva.
Vipere o mamme
Decisamente meno contenuti sul piano retorico sono i versi
di E. A. Mario, altro autore partenepeo di celeberrime canzoni,
anche in lingua italiana.
Balocchi e profumi (“Mamma... mormora la bambina”),
ma soprattutto Vipera, una risciacquatura di piatti dannunziani,
un grottesco canto nel quale una serie di luoghi comuni decadenti
“ella portava un braccialetto strano/una vipera d'oro
attorcigliata/che viscida parea sotto la mano/viscida e viva
quando l'ho toccata” dipinge a fosche tinte un'irresistibile
dark lady nostrana, contrapponendola alla sacra figura
materna “mamma che quando sogna sogna il vero/ha sognato
di me la notte scorsa/salivo per un ripido sentiero/presso una
mala vipera ed è accorsa”, prorompendo in una sorta
di ritornello/anatema: “Vipera! Vipera dal braccio di
colei/oggi ha distrutto tutti i sogni miei/tu eri il simbolo,
l'atroce simbolo/della sua malvagità”.
Anche in tempi più recenti la canzone d'amore, quand'è
concepita da un uomo, è spesso intrisa di misoginia,
anche ai migliori livelli – basti pensare alle donne insensibili
o alle pantere divoratrici del sommo poeta Jacques Brel –
e l'aspirazione alla libertà femminile è spesso
stigmatizzata con amarezza “ti senti sola/con la tua libertà”
canterà un rancoroso Bruno Lauzi “ed è per
questo che tu ritornerai” che nell'enfasi roca della sua
splendida voce e nell'incalzare terzinato del ritmo –
come la rullata che accompagna il condannato al patibolo –
mi è sempre parsa sottilmente minacciosa (“tornerai
per assistere alla mia vendetta” la canzone non lo dice,
ma a me lo suggerisce “tornerai quando a me non fregherà
più niente”).
La Vipera di E. A. Mario è un'antesignana, persin
simpatica nella sua bizzarria liberty, di tutte queste
donne fosche. Quanto è però più bello,
più vero, più moderno, più vitale quell'addio
cantato dalle mondariso del vercellese, quanto più la
poesia illetterata di queste lavoratrici con le gambe nell'acqua
ci assomiglia, ci diverte, ci appassiona... e quanto sono più
dolci le “caramelle” e il “vino bianco”
di quest'elegia sottoproletaria.
Addio morettin, ti lascio, finita è la mondata
tengo un altro amante a casa, più bellino assai di
te.
Più bellino, più carino, più sincero
a far l'amore
ci ho donato la vita e il cuore, per sempre l'amerò.
Tu credevi ch'io ti amassi mentre invece t'ho ingannato,
caramelle tu m'hai pagato e vino bianco abbiam bevù.
T'ho amato per quaranta giorni solo per passare un'ora
e adesso ch'è giunta l'ora ti lascio in libertà.
E la libertà l'è quella di non più lavorare,
casa vogliamo andare, ma in cima del vapor.
Purtroppo, ancora per lungo tempo, il mondo della canzonetta
sarà dominato da gli E. A. Mario, e ci metteremo decenni
a scoprire la nobiltà della nostra produzione popolare
– contrariamente a ciò che avveniva negli Stati
Uniti, dove, sotto l'impulso della famiglia di ricercatori Lomax,
la Biblioteca del Congresso intraprendeva dagli anni '30 una
campagna di registrazioni sul campo.
Sarà proprio il mescolarsi, contrapporsi e contaminarsi
di queste due straordinarie eredità – musica popolare
e canzone di autori – e l'influenza di tradizioni culturali
diverse – la canzone francese e quella americana –
a determinare la ricchezza e la maturità della canzone
d'autore degli anni '60 e '70.
Anna Fougez (pseudonimo francesizzante della tarantina Anna
Pappacena) fu una delle interpreti principali di quel mondo.
I suoi spettacoli richiamavano un immaginario – ricco
di traviate imbibite d'alcool e cocaina – che la Fougez
costruiva con geometrica attenzione e un perfezionismo che arrivava
a disegnare i propri abiti, i gioielli, le acconciature, le
scene, le coreografie.
Il torinese Gino Franzi, con eguale perfezionismo e col suo
bel timbro baritonale, fu un altro interprete leggendario: vestito
in frac scuro, con gli occhi cerchiati a matita, cantava canzoni
vagamente espressioniste e romanticamente esistenziali, come
Scettico Blu (o Scettico Blues, secondo una meno
autarchica dizione).
Quando tutto tace vo lontan dalla città
solo nella notte il mio cuor scrutando va
e nel mister lungi va il pensier,
quando nel mondo c'è ancor chi si illude d'amor
e l'ingenuo non sa che c'è il fango quaggiù
in finzion di virtù.
Cosa m'importa se il mondo mi rese glacial
se di ogni cosa nel fondo non trovo che il mal
quando il mio primo amore mi sconvolse la vita...
Senza lusinghe pel mondo ramingo
io vo e me ne rido beffando il destino così.
Nel mio sogno errante mi sentivo trasportar
scettico e perverso m'hanno fatto diventar
un cencio e qui c'era il cuore un dì
passa la gioie e il dolor
sento il soffio del mal
sento il soffio del ben [...]
Qui par che aleggi la stessa ispirazione dei versi di Dino Campana
“Me ne vado per le strade/strette oscure e misteriose/
[...] /La stradina è solitaria/non c'è un cane;
qualche stella/nella notte sopra i tetti:/e la notte mi par
bella./E cammino poveretto/nella notte fantasiosa/pur mi sento
nella bocca/la saliva disgustosa.”
Addio Tabarin
La canzone forse più audace del repertorio di Franzi
è Addio Tabarin, un piccolo “film”
in tre episodi, che raccoglie molti luoghi comuni e rilancia
con un inaspettato finale sociale. Il Tabarin – il locale
notturno per antonomasia, il night si sarebbe detto dopo –
catalizza vite e destini: quella degli studenti che vi hanno
sperperato giovinezza e risorse:
A sera un gruppo di studenti, ormai dottori ma scontenti
cantando «addio città» verso la stazion
se ne va.
Ma presso ad una gran vetrata da mille luci arabescata
S'indugian tutti ancora un po'... a ricordar si scende, ohibo!
«Addio tabarin paradiso di voluttà
Che inghiottivi nel ventre dorato i soldi di papà.
Tabarin: jazz e tango, shimmy e foxtrot, danzatrici e cocottes
è passato il tempo folle ormai, tu mai più
ci vedrai
fra i tuoi rossi abat-jours laggiù mai più».
C'è poi il destino della consueta “Capinera perduta”
che muore tisica:
Minata da un terribil male
Nel bianco letto d' ospedale
Sen muor la belle Helène, étoile dei bal-tabarin
[...]
«Addio tabarin: mie reggie smaglianti d'or,
gai e folli mercati d'ebbrezza e di fugaci amor...
Tabarin: quanto oblio mi desti tu
da quel di che laggiù la carezza d' un tango mi chiamò
e a scordar mi aiutò che dovevo finir un dì
così».
Questa canzone ci fa misurare anche la celebrità del
cantante che, dal '22 agli anni '30 inoltrati, poté eseguire
indisturbatamente questo brano, il cui ultimo, misterioso personaggio
adombra un socialista o un anarchico, in atto di invocare la
palingenesi rivoluzionaria:
Nell'alta notte desolata l'insegna sfolgora sfacciata [...]
Quand'ecco s'apre la portiera e dall'interno un'ombra nera
s'affaccia in atto di fuggir e leva il pugno a maledir...
«Addio tabarin beffa atroce all'uman dolor
vituperio alla povera gente che di miseria muor.
Bada a te: se il cancan del tuo carneval
Spegne il grido che sal, fatalmente verrà la ribellion,
freme ormai la legion di chi incerto è d'aver un pan
doman.
Bada a te tabarin!
Alessio Lega
alessio.lega@fastwebnet.it
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