Dopo
il voto/Lo Stato dei grilli
Ha ragione Roberta Lombardi, capogruppo dei deputati del Movimento
5 stelle, quando scrive che “Il fascismo aveva un altissimo
senso dello Stato, prima che degenerasse” (sul suo blog,
il 21 gennaio). Il punto è stabilire quando è
che il fascismo sarebbe “degenerato”; ma è
vero che il fascismo si inserisce in una tradizione di alto
e coerente senso dello Stato: lo Stato del 1915-18, che aveva
mandato una generazione al macello della guerra; lo Stato del
1920-21, della sua polizia che spalleggiava le squadracce contro
braccianti e operai in sciopero; lo Stato delle violenze e della
repressione contro gli oppositori, denunciate per esempio da
Matteotti nel 1924; lo Stato dei massacri in Africa e nei Balcani;
lo Stato delle leggi razziali e dei lager. E più di recente,
con il fascismo storico sconfitto ma con i suoi nostalgici ed
eredi, di nome o di fatto, ancora presenti negli apparati di
potere, lo Stato di Piazza Fontana, quello delle leggi speciali
e dell'assassinio di Giorgiana Masi, quello di Genova 2001,
di Bolzaneto e della Diaz.
La cosa si risolverebbe solo parzialmente regalando un libro
di storia alla capogruppo Lombardi; si tratta in realtà
di una questione più generale, che riguarda il presente
più che il passato: qual è l'idea di Stato oggi
prevalente, non solo fra i vecchi partiti, ma anche fra i nuovi
movimenti che si apprestano a sostituirli? Si è fatta
strada in questi anni una salutare insofferenza verso i politici
di professione, la loro scarsa credibilità, i loro privilegi
di casta; si praticano forme inedite di partecipazione diretta,
grazie all'impiego delle nuove tecnologie. Riguardo al ruolo
dello Stato come strumento in sé, invece, il senso critico
e la fantasia non han fatto grandi progressi: appare più
che mai incontestata l'ideologia (propria, del resto, della
tradizione di una certa sinistra, almeno quanto di quella della
destra) dello Stato come strumento principe dell'azione sociale;
è più che mai diffusa la speranza salvifica in
uno Stato forte, capace di rappresentare la volontà dei
cittadini, ma anche di imporre le sue decisioni alla società.
Uno Stato, oltretutto, pensato ancora come coincidente con l'entità
nazionale di origine ottocentesca, con i suoi bei confini a
separare quelle figurine colorate chiamate Italia, Francia,
Svizzera.
Pur non avendo votato per loro, io sono fra quanti pensano che
l'impatto dei grillini sul quadro politico attuale sia almeno
in parte positivo: mette in discussione un intero blocco di
interessi fra poteri pubblici e affari privati, e favorisce,
si spera, una svolta su temi cruciali che ci toccano concretamente,
come l'ambiente e i beni comuni, le “grandi opere”
e le spese militari, in direzione di una risposta sostenibile
all'epocale crisi ecologica ed economica (il M5s si dichiara
vicino alla decrescita, seppure in termini generici e non certo
libertari). Ma è importante che si cominci a pensare
più creativamente anche alle forme, agli strumenti politici
e istituzionali, con i quali quegli obiettivi vanno perseguiti.
E nell'eventualità di ritrovarci domani una Lombardi
o affini come ministro, per dire, dell'Interno, è più
che mai importante coltivare gli anticorpi sociali, politici,
culturali contro fascismi, nazionalismi, populismi, caudillismi,
autoritarismo, demagogia, di destra e di sinistra, vecchi e
nuovi.
Matteo Podrecca
Roma
Fedeli a noi stesse
Rispondo brevemente alla lettera
di Monica Giorgi apparsa sul n. 378 (marzo 2013), che ringrazio
per le sue gentili parole. Quando ho letto Un
gioco da ragazze di Marina Terragni, la scorsa primavera,
ho pensato che il suo appello a salvare il salvabile fosse più
che ragionevole. Ho però voluto rifletterci andando a
rileggermi i testi su cui la nostra generazione si è
formata, e mi è sembrato che quanto le donne hanno elaborato
sia prezioso e soprattutto nuovo, altro rispetto alla teoria
e pratica degli uomini. Capisco quindi bene la contraddizione
di Marina che si rifiuta di entrare nei palazzi del potere;
del resto, se la scelta fosse facile, non dovremmo neanche porci
il problema.
Ecco perché il titolo dell'articolo (mio, non redazionale)
porta un punto interrogativo. In queste situazioni, ma direi
in tutte, bisogna valutare caso per caso; per esempio penso
che Anita Sonego abbia fatto bene a candidarsi a Milano, sia
pure nelle liste di un partito stalinista e molto maschilista,
perché la giunta Pisapia (che io ho votato con convinzione)
fornisce il contesto adatto ad una politica femminista. Il mio
“staremo a vedere” si riferiva all'essere fagocitate
o meno delle donne che hanno deciso di giocare la carta della
rappresentanza democratica; saranno loro stesse a dirci come
sono andate le cose. Per quanto mi riguarda, con la mia formazione
e il mio carattere poco propenso alla diplomazia, non credo
potrei resistere in certi ambienti più di tanto, e se
anche ci riuscissi, mi butterebbero fuori; e poi nei partiti
si respira una sgradevole aria da oratorio. Circa trent'anni
fa ho contribuito a fondare un sindacato di base, la RdR, nell'ente
pubblico in cui lavoravo; sono stata responsabile della sede
di Milano e poi della regione Lombardia, nonché consigliera
nazionale. Ma le dinamiche erano le stesse di un partito e così
me ne sono andata. Una cosa importante ho imparato da questa
esperienza: il potere, anche se non lo vuoi, ti viene rimesso
spontaneamente, perché la stragrande maggioranza della
gente vuole vivere in santa pace, mentre la partecipazione diretta
costa tempo, rinunce, un impegno che sul lungo periodo diventa
faticoso. Penso che su questo punto gli anarchici dovrebbero
riflettere molto, visto che l'autogestione si fonda sulla responsabilità
personale. Di cose da dire ce ne sarebbero tante, ma mi fermo
qui, per dare voce alle lettrici e ai lettori che volessero
intervenire su queste problematiche. La mia e-mail è:
dalessandra@hotmail.it.
Sandra D'Alessandro
Milano
Habemus Papam/Amen
Proprio quello che serviva. Faccia simpatica, sorriso rassicurante,
inflessione gradevole, niente fronzoli e un'ostentata umiltà.
La Chiesa Cattolica ha trovato in Jorge Mario Bergoglio il nuovo
rappresentante con il quale sostituire, pubblicamente, il papa
dimissionario Joseph Ratzinger.
In effetti, da un punto di vista mediatico, è stata una
mossa vincente. Addirittura, prima di augurare la buona notte
come il più gioviale dei parroci di provincia, il nuovo
papa si è inchinato davanti ai fedeli chiedendo loro
una preghiera. Ed è stato amore a prima vista.
Si farà chiamare Francesco, con evidente riferimento
alla semplicità e alla sobrietà che da più
parti si richiedono per fare pulizia nei sordidi ambienti vaticani.
Come non amarlo?
Mentre tutti i mezzi di comunicazione sono letteralmente impazziti
nell'esaltare il nuovo papa e nell'alimentare le aspettative
dell'opinione pubblica, vogliamo tenere alta l'attenzione su
questioni meno consolatorie ma certamente più oggettive.
Jorge Mario Bergoglio, classe 1936, viene da Buenos Aires, Argentina.
Nel 1972, a soli 36 anni, fu nominato superiore provinciale
della Compagnia di Gesù. Era, cioè, il capo dei
gesuiti argentini. Di lì a poco, nel 1976, l'Argentina
precipitò nell'incubo del colpo di stato e della dittatura
dei colonnelli fascisti appoggiati dalla Cia. In sette anni,
furono ammazzate almeno trentamila persone, gran parte delle
quali furono fatte letteralmente sparire: i desaparecidos.
Documenti ufficiali e tante inchieste hanno dimostrato le collusioni
delle alte gerarchie cattoliche argentine e vaticane nei confronti
di quella orribile dittatura. Un atteggiamento che ricorre più
volte nella storia di Santa Romana Chiesa: dall'appoggio al
fascismo italiano e al franchismo spagnolo, passando per i silenzi
sullo sterminio nazista degli ebrei, fino alle dittature argentina
e cilena.
In un documentato libro del 2006, L'isola del Silenzio. Il
ruolo della Chiesa nella dittatura argentina, il giornalista
Horacio Verbitsky parla di Bergoglio, della sua affiliazione
all'organizzazione di estrema destra Guardia di ferro, e di
quanto fosse perfettamente in sintonia con la giunta militare.
Da parte sua, l'interessato ha sempre respinto ogni accusa,
e oggi c'è chi è pronto a sollevare Bergoglio
da qualunque responsabilità.
I Gesuiti non sono famosi per la loro sincerità, ma per
la loro astuzia politica. In ogni caso, non ci aspettiamo nulla
di buono: le sue attuali posizioni sulle questioni etiche e
sociali più urgenti (contraccezione, eutanasia, diritto
di aborto, omosessualità) sono in linea con il retrivo
conservatorismo dei suoi predecessori.
Ma oltre alle inquietanti ombre nel passato di Bergoglio, in
mezzo all'euforia irrazionale e fideistica di questi giorni,
noi non dimentichiamo le caratteristiche strutturali del potere
religioso e politico della Chiesa di Roma. E teniamo accesa,
contro ogni oscurantismo, la fiaccola del libero pensiero.
Gruppo Anarchico “Andrea Salsedo”
Trapani
Software libero e armamenti
Sfogliando il numero di marzo della rivista GNU Linux Magazine,
tra i vari articoli sulle ultime novità tecnologiche,
si legge: “GNU/Linux anche nelle armi! – Prodotti
i primi fucili 'guidati' dal sistema operativo Open Source”.
La novità è un prodotto dell'azienda texana TrackingPoint.
Si tratta di fucili “equipaggiati con mirino automatico
basato su GNU/Linux”. L'articolo prosegue specificando
che “il mirino fornirà moltissime informazioni
utili sul bersaglio e sull'ambiente circostante, rendendo la
caccia molto più simile ad un videogioco. Grazie alle
funzionalità messe a disposizione, sarà addirittura
possibile agganciare il bersaglio senza così perderlo
di vista”.
Il prodotto è presentato come un gadget tecnologico tra
gli altri. Si accenna in poche righe “alle numerose discussioni
sul Web”, che questo prodotto (per fortuna!) sembra aver
provocato, ma nient'altro. Il tono rimane il solito: entusiastico!
Il sistema Linux dimostra ancora una volta di essere il migliore!
La conquista del mercato dei sistemi operativi continua!
Per non pochi utenti Linux, quindi, l'accoppiata software libero
e armamenti è in pratica nell'ordine delle cose. In fondo,
“se una cosa è libera, ognuno la può usare
come gli pare”! Basta fare una breve ricerca su Google
per rendersi conto di quanto questa opinione sia diffusa. Per
molti, l'inserimento di Linux in mirini automatici è
una mera questione tecnologica. Nulla di più.
Eppure una domanda mi ronza nella testa. Il movimento del free
software non ha sempre sostenuto che il software è un
bene sociale, un bene comune, come l'informazione, come la conoscenza?
Richard Stallman, ideatore del sistema operativo GNU (da cui
è sorto Linux – ovvero GNU/Linux) ha continuamente
asserito che il movimento del free software non è solo
un movimento “tecnologico” ma un movimento che “si
occupa prima di tutto del valore della libertà e della
solidarietà sociale”1.
Come è possibile, quindi, che un software libero, ovvero
un software realizzato a partire dai valori di libertà
e solidarietà, venga utilizzato, senza particolari contrasti
(anzi, con accoglienze perfino entusiastiche) per realizzare
armi?
Tra l'altro non è nemmeno vero che le licenze free software
permettano ad un utente di fare “quello che gli pare”.
Se si accetta una licenza free, come ad esempio la celebre GNU
GPL introdotta proprio dalla Free Software Foundation di Richard
Stallman, non è possibile “chiudere” il software.
Quest'ultimo deve restare “aperto”, ovvero “open
source”: deve continuare a mettere a disposizione per
ogni nuovo utente il sorgente del programma, ossia la possibilità
di modificarlo, adattarlo, distribuirlo. In pratica un software
libero è di tutti, è un software comunitario,
nessuno può privatizzarlo togliendo agli altri la possibilità
di utilizzarlo e quindi modificarlo in base alle proprie esigenze.
Il software libero è tale non solo per chi inizialmente
lo ha creato, ma anche per tutti i futuri utenti.
I fucili equipaggiati con Linux non hanno ovviamente nulla a
che fare con la libertà, ma piuttosto con l'esatto opposto.
Con l'etica o la solidarietà sociale poi...
Il software libero sembra così ridotto ad un semplice
componente tecnologicamente sofisticato come tanti altri, con
cui è possibile realizzare sistemi elettronici, tra cui,
d'ora in poi, anche armi automatiche.
Le tendenze, contro cui lo stesso Richard Stallman ha sempre
lottato accanitamente, tese a trasformare il movimento del free
software in un mero movimento tecnologico sono quindi oggi,
evidentemente, dominanti. Del resto l'etichetta di software
libero è oggi spesso sostituita con quella, eticamente
anonima, di “open source”; ma, come Stallman ha
con ragione evidenziato: non è affatto indifferente definire
un software come free o open source.
Chi si ferma a considerare il software libero semplicemente
come un programma distribuito con il suo codice sorgente (open
source appunto), o peggio ancora come software semplicemente
“gratuito”, smarrisce la questione principale e
fondante del movimento per il free software. “Il movimento
del software libero si occupa prima di tutto del valore della
libertà e della solidarietà sociale [...] distribuire
un software non libero crea un ingiustizia ed è sbagliato
farlo. L'idea di open source fu diffusa da gente che non parla
di queste cose e che ha scelto di associarla solo a valori pratici:
nel caso fare software potente e affidabile. Loro dicono che
il loro metodo di sviluppo è probabile che produca buon
software, buono solo in senso pratico. Loro non dicono che un
programma calpesta la tua libertà se non è open
source. Loro non dicono che renderlo open source è un
imperativo etico”.
Oggi il software libero, o meglio “open source”
è in effetti compatibile con un preciso modello di business,
che vede in Google il suo più imponente alfiere. Google,
il gigante di internet, l'azienda che sta rivoluzionando il
sistema dei media, è certamente sostenitore di un modello
“aperto”, o per lo meno più aperto
rispetto ad altri giganti dell'informatica come Apple o Microsoft,
ma, chiaramente, perché ha tutti gli interessi economici
per sostenerlo: Google non vende licenze, ma offre servizi gratuiti
in cambio di informazioni da convertire in fatturato pubblicitario.
Per ritornare alla questione dei fabbricanti di fucili; è
vero che un fucile è uno strumento di morte anche senza
software libero. È vero che è in ogni caso una
schifezza che la dice lunga sul non ruolo che l'etica ricopre
nel nostro mondo (a differenza del soldo). Questo però
non toglie che considerare come inevitabile l'uso di un software
comunitario per la realizzazione di strumenti di dominio e di
morte, significa accettare che le motivazioni etiche che sono
state, e che certamente, come per il sottoscritto, sono tutt'ora
alla base dell'esperienza del free software, sono parole al
vento, da lasciare a pochi ingenui da raggirare facilmente.
Come arginare questa deriva? È poi così insensato
introdurre licenze libere che oltre a permettere la libera modifica
e distribuzione del software, ne impediscano l'uso in ambito
militare, così come nella costruzione di qualsiasi forma
d'armamento? Il software sarebbe per questo meno libero?
Forse alla fine il problema non è nemmeno quello di migliorare
le licenze del software, ma, come sosteneva il vecchio Kropotkin,
di ricordarci che la libertà è un valore irrinunciabile
che comporta la responsabilità della comunità,
di vegliare e reagire di fronte a prevaricazioni. Tocca ai sostenitori
del software libero non restare indifferenti.
Luca Cartolari
Perosa Canavese (To)
- Richard Stallman – Software libero pensiero libero
(Vol I e Vol II) – Stampa Alternativa (2003). Molti
sono i siti da cui è possibile trarre informazioni
o leggere articoli e saggi di R. Stallman, (a partire dal
fondamentale http://www.gnu.org).
Prosegue il dibattito
su
“Libertà senza Rivoluzione”
Prosegue il dibattito sul volume Libertà senza Rivoluzione
di Giampietro ”Nico” Berti (Piero Lacaita Editore,
Bari 2012), di cui abbiamo ripreso qualche
stralcio in “A” 377 (febbraio). Sui numeri
successivi sono intervenuti Franco
Melandri e Domenico
Letizia (”A” 378, marzo), Luciano
Lanza e Andrea
Papi (“A” 379, aprile) e ora Luigi Corvaglia
e Alberto Ciampi.
Sul prossimo numero (“A” 381, giugno) sarà
la volta di Marco Cossutta e Salvo Vaccaro. Sul numero(ne) estivo
(“A” 382, luglio/settembre) Persio Tincani e Fabio
Massimo Nicosia e forse qualche altro ancora.
Il dibattito è naturalmente aperto a chiunque intenda
intervenire, con il limite delle 6.000 battute spazi compresi.
Dibattito
Libertà senza Rivoluzione/5
Luigi Corvaglia/Un dubbio sensato e una
domanda ineludibile
Liberi. Sì, i degenti dell'ospedale di Qualcuno volò
sul nido del cuculo erano liberi di andarsene. Quando McMurphy,
il personaggio interpretato da Jack Nicholson, scoprì
che la maggior parte dei degenti era in regime di ricovero volontario,
ma non lasciava l'istituzione, comprese la lezione di Etienne
de La Boétie: gli uomini si sottopongono volontariamente
al potere. Jean-Paul Sartre e Albert Camus lo avevano detto
che, pur in una istituzione diluita quale è la nostra
società, gli uomini sono sempre liberi. Se così
non fosse, nota Nico Berti nel suo ultimo libro, se insomma
“gli uomini non fossero radicalmente liberi –
cioè liberi alla radice – ogni idea di emancipazione
umana sarebbe una semplice assurdità e l'anarchia, naturalmente,
sarebbe la massima assurdità possibile e immaginabile”.
Non è un caso che al battesimo della modernità
un campione della reazione quale fu de Maistre si scagliasse
proprio contro “la pazza asserzione: l'uomo è nato
libero!”. È infatti questa idea, espressione di
ciò che Max Weber definì il “disincanto”,
a fondare il concetto di responsabilità individuale.
Il lavoro di Berti parte appunto da questo presupposto per arrivare
a cantare il requiem per la prospettiva rivoluzionaria quale
mezzo per l'emancipazione umana. Le masse, infatti, non sono
rivoluzionarie, perché hanno liberamente scelto
di non esserlo. “Chi dà, allora, il diritto ai
rivoluzionari di insorgere contro il volere della maggioranza
delle persone?” Nessuno. Certo, qualcuno, come fece Giovanna
D'Arco con la voce di Dio, può sempre ascoltare la Storia
che gli sussurra nell'orecchio, perché “ogni pensare
rivoluzionario è un pensare storicistico”. È
quindi una forma di costruttivismo utopico che incarna un'anima
totalitaria. Il problema, infatti, non è il metodo. Il
problema è la forma della “società futura”.
Se, infatti, si vagheggia una società nuova che universalizzi
il bene supremo della libertà e si strutturi staticamente
come luogo senza frizioni, è evidente che ci troviamo
nell'ambito della prescrittività tipica della concezione
democratico-giacobina. Questa si svolge sotto l'angosciante
ombra di quella libertà positiva tesa alla realizzazione
della pienezza delle potenzialità umane. È la
secolarizzazione della tesi teologica di Agostino per cui l'uomo
diviene veramente libero quando riesce a volere solo il Bene.
Ma, come scriveva Berdjaev: “Ogni confusione e identificazione
della libertà con il bene stesso e la perfezione equivale
a negare la libertà, a riconoscere la via della violenza
e della costrizione”. Anni fa, Thomas Ibanez aveva descritto
un simile cortocircuito logico. “Volendo essere una teoria
centrata sulla libertà – aveva scritto Ibanez –,
l'anarchismo apre su una cultura che esige l'adesione di ognuno
per poter esistere e che contesta la legittimità di tutto
ciò che non è sé stessa”. L'anarchismo,
in altre parole, sembra negare se stesso ed esitare in una cultura
totalitaria. Vero, ma ad una condizione: che lo si faccia coincidere
proprio con questa reductio ad unum, cioè con
un progetto che, in nome del Bene, finisce col sacrificare il
molteplice (cioè tutti gli spazi di libertas minor,
come direbbe Agostino) al singolare (libertas maior).
Monoteismo etico. Per molto tempo la libertas maior degli
anarchici è stata il socialismo, nelle sue varie declinazioni.
Il dilemma di Ibanez, altrimenti irrisolvibile, appare però
illusorio se sostituiamo alla collettiva libertà democratica
l'individuale autodeterminazione liberale. Immaginiamo una società
che ricerchi solo la mancanza di costrizione, che risponda,
cioè, ai criteri per la “società aperta”
come descritta da Popper. Questa prevede una inversione di quello
che Rawls definirebbe l'“ordine lessicale”, cioè
la subordinazione dell'anticapitalismo ad un principio guida,
la libertà. Che in tal caso sia facile uscire fuori dal
paradosso di Ibanez lo dimostra chiaramente lo stesso Berti
quando, a pag. 229, risponde ai critici della cultura liberale
entro la quale egli ritiene si debba partire per attualizzare
l'anarchismo. Per i detrattori del liberalismo anche questo
è una forma di pensiero unico che finisce per
creare una sorta di totalitarismo. “Come dire: anche il
liberalismo ha un fondo antiliberale”. Ora, quando anche
si desse l'improbabile condizione di una completa comunione
di vedute, ciò non comporterebbe alcun totalitarismo,
perché esso consiste, piuttosto, “in una uniformità
coatta di vedute”. La libertà liberale, che è
negativa, semplice mancanza di coercizione e, quindi,
non prescrive, non può produrre esiti totalitari. Ce
lo ricordava Rudolf Rocker: “molte strade portano alla
dittatura dalla democrazia, nessuna dal liberalismo”.
Insomma, qualcuno potrà ovviamente essere libero di essere
socialista o mussulmano, “ma si è sempre nella
più perfetta libertà anche di negare a questo
qualcuno la libertà – la sua – di imporre
coattivamente ad altri la sua fede.” Non più utopia,
questa è, per dirla con Nozick, una “impalcatura
per utopie” (cioè, politeismo etico). Insomma,
visto in questi termini, il paradosso di Ibanez viene degradato
a “gioco di parole”. Altrimenti torna Agostino.
Poco importa, quindi, che leggendo il suo libro si abbia talvolta
l'impressione che il critico dello storicismo descriva un andamento
obbligato della storia (“Kant e McDonald's prima o poi
arrivano dappertutto”) o che dalle pagine possa trasparire
una fin troppo gioiosa “resa” alla razionalità
strumentale del “capitalismo”. Chiunque fissasse
la sua attenzione su questi aspetti si dimostrerebbe simile
al tizio che guarda il dito piuttosto che la luna. Nell'analisi
di Berti è presente un dubbio sensato e una domanda ineludibile:
consegnato al cimitero delle idee l'agostinismo libertario,
l'anarchismo può essere solo inveramento del liberalismo?
Luigi Corvaglia
Casarano (Le)
Dibattito
Libertà senza Rivoluzione/5
Alberto Ciampi/Cu-cu! Chi è Stato?
Quando la destra liberale attacca i comunisti mi irrito perché
penso a mio nonno, che nel dopoguerra, con Pier Carlo Masini,
attraversava la Valdipesa in bicicletta per ricreare le sezioni
del Pci attorno al comune paese di nascita. Poi Masini diventò
anarchico e mio nonno rimase, pur da comunista, una persona
libera. Nessun di loro pensava alla Rivoluzione, con o senza
maiuscola. Credevano nella evoluzione verso qualcosa che fosse
diverso e migliore, senza immaginarne i confini, una società
libera senza fini precostituiti, in divenire, secondo la volontà
di quella minoranza agente auspicata da Berti, con al centro
l'individuo, dove le ideologie si sfaldano e dissolvono in uno
stirneriano nulla creatore. Così nasce un percorso nuovo
da inventare di volta in volta, oltre le crisi, oltre “la
fine imminente dell'anarchismo [che] ha sempre portato bene
all'anarchismo”, scrive Sacchetti (Umanità Nova,
a. 93, n.5, 10 febb. 2013, p.6). Non è semplice parlare
di questo libro. Ho preso appunti come per un esame, che necessiterebbe
di dieci volte le seimila battute accordatemi. Cominciamo con
la ri/Rivoluzione. Anche nei momenti più incendiari l'anarchismo
non l'ha rincorsa, è evoluzionario ed il proprio
agire si sedimenta nell'azione individuale congiunta.
Nell'anarchia c'è, il migliore comunista, l'agire libero
– anche in economia –, con il capitalismo senza
il capitale, cioè senza capitalizzazione, con l'agire
diretto. Berti aggredisce, demolendoli, modi di interpretare
la società che religiosamente portano a dittature, e
ne enumera i rischi, i limiti, le conseguenze di pensieri in
sé totalizzanti insiti in quello marxista e parenti stretti
di ogni declinazione fascista. Scrive che la società
democratica è religiosa e finalista e l'unico ambito
è quello liberale perché agnostico. Escludendo
ogni altro luogo oltre l'occidente, Berti individua nell'America
l'unica rivoluzione cui poter far riferimento, anche se “nessuno
possiede la verità per intero”. Come non concordare
con lui quando afferma che mai le masse sono state rivoluzionarie
e che solo le minoranze agenti possono accedere alla rivoluzione,
in un percorso che include il mondo intero, un mondo di differenze,
ma fatto di una sola umanità. Solo l'anarchia è
universalista e lo è perché non ha progetti di
autodeterminazione collettiva, al contrario delle rivoluzioni,
che non hanno spostato né aumentato spazi di libertà.
Ma aggiunge che l'unica che si è limitata ad “abbattere
senza creare” è la rivoluzione americana. L'Italia
e la Germania non hanno avuto rivoluzioni, hanno prodotto fascismo
e nazismo, mentre una minoranza “illuminata” ha
costruito la galera sovietica o cinese. Allora? Ci pare di capire
bene Berti quando cita il distinguo della Spagna del 36-37 “non
a caso ad opera degli anarchici”, però contro e
oltre il capitalismo. L'autore batte spesso sulla religiosità
delle rivoluzioni come limite delle stesse, e questo ha la piena
nostra condivisione, come quando inserisce il concetto di moderno
che tale non può essere senza individualismo stirneriano.
Ma l'individualismo è liberale? Renzo Novatore o Santo
Pollastro non sono liberali, sono anarchici: altro e oltre il
liberalismo. Se in Stirner, Kropotkin e Bakunin si trova la
confutazione del capitale e del comunismo, ed il comunismo non
è negatore, ma riconnotatore del potere, proprietà
ecc., il liberalismo americano riassume nell'individuo poteri
singoli che sommati producono massa con proprietà e potere,
in un alveo di libertà di agire senza scalfire il moloch:
lo stato. Berti invece afferma che il capitalismo è acefalo
ed in ciò sta una sorta di difesa immunitaria della libertà.
Ma se la somma degli individui forma una società anche
di differenti istanze, la somma di teste convergenti su privilegi
personali determina potentati rappresentati dallo stato liberale.
La presunta frammentarietà non indebolisce lo stato americano,
nel riconoscersi in esso si rafforza il potere concentrato
nel privilegio. Così come non è vero il primato
dell'homo capitalista in natura, perché semmai, prima
dello stato, in natura, c'è l'assenza dello stato. L'uomo
non nasce liberale, ma libero e nel divenire liberale si limita
il diritto originario (di natura) non divino né religioso,
ma per nascita. Se è il medioevo “liberale”
la culla del mercato e del capitale e ciò rappresenta
la liberazione dall'oppressione delle monarchie e delle religioni,
c'è un prima libero, che chi ha assunto ruoli
di leader ha sopito e compresso. Berti assegna a Roosevelt ed
al new deal il passaggio dal naturalismo capitalista
all'assistenza foriera di grandi pericoli, che giungeranno.
E prima? E lo sterminio dei nativi e il dominio colonialista?
Lo stato agisce come dominus (liberale o comunista o fascista)
ed è fascista a prescindere, perché autoritario.
La società liberale è permeata di Stato. Reagan
viene qui considerato campione di libertà perché
abbatte il comunismo, e con esso: ospedali, treni, aerei, infrastrutture,
di un intero occidente liberista. Altro tema è quello
del proletariato, che con la new economy, secondo l'autore,
viene spazzato via. Ma se il contadino e l'artigiano (anche
in assenza di operai) con o senza macchine, non elabora e produce
cose, l'economy non sarà né nuova né vecchia,
semplicemente non sarà. Da qui l'ipotesi di una crisi
“presunta dell'anarchismo all'attualità”,
che non è vera. Meno operaia, se mai lo è stata,
è polimorfa, intellettuale, creativa, artistica, e anticipa
senza mai essere o divenire post. L'anarchia è
eccentrica a destra e sinistra, lo dimostrano “il radicamento
diffuso”, trasversale, senza ceti, spesso accomunata da
una sola certezza, il divenire; “una asticella da spostare
non un obiettivo da raggiungere”; parafrasando Berti:
dove lo Stato si dissolva.
È un libro di grande stimolo, solo apparentemente “distante”,
che nell'assestare colpi e allontanare pericoli sempre presenti,
è dichiarazione d'amore per l'anarchia, perché
l'autore vede arrancare e guardare solo indietro. L'anarchia
è assai vitale e rinnovata in luoghi dove troppo spesso
non si scruta: centri sociali, scuole, gruppi e circoli, luoghi
di lavoro, fra artisti e intellettuali, fra cittadini comuni,
questi sì, disgustati e amareggiati da loro passioni
remote o recenti che solo nell'anarchia trovano ideale riferimento
e verso i quali è doveroso guardare.
Alberto Ciampi
San Casciano
Val di Pesa (Fi)
Enzo Jannacci/Dolore e gratitudine del Club Tenco
Premio Tenco già nel 1975; tre volte Targa Tenco per
la più bella canzone dell'anno; una Targa Tenco per il
migliore album in dialetto; cinque partecipazioni alla “Rassegna
della canzone d'autore” all'Ariston di Sanremo: poca cosa,
i riconoscimenti del Club Tenco, in confronto al genio grandioso
che Enzo Jannacci ci ha regalato in oltre mezzo secolo di vitalissima
attività artistica. Gli amici del “Tenco”
lo salutano con tutto il dolore di una perdita così grande
ma anche con la gratitudine di aver sempre ricevuto da lui il
soffio leggero di una poesia spiazzante e infallibile.
La voce di Jannacci era disagio esistenziale, sofferenza, sfogo
del disadattato, ma tutto attraversato dal filtro dell'ironia.
Biascicava frammenti di parole, parlava per cenni, faceva del
linguaggio una marmellata informe di fonemi, ma da tutto questo
affioravano strazianti brandelli di verità. Una scheggia
impazzita che deviava continuamente in digressioni, tic, scatti,
scosse, pause, dissonanze. Una poltiglia di nonsensi e frasi
smozzicate, che macinava faticosamente come se lui per primo
stesse sforzandosi di capire cosa stava dicendo, ma che alla
fine, per folgorazione, si faceva decifrare come in un puzzle
o un gioco enigmistico. Dentro quella voce si poteva nascondere
qualcosa di molto serio, spesso tragico, ma anche dolce e levigato
come il suo volto. Enzo Jannacci sapeva in questo modo “dire”
di più dei tanti parolai che ci tocca ascoltare tutti
i giorni; sapeva esprimersi più e meglio di tutto il
bla-bla quotidiano di cui a suo modo si faceva beffe.
Da tempo il Club Tenco progettava di organizzare una grande
manifestazione in suo onore. Ma l'intenzione, ora perduta, era
di realizzarla con lui in vita. (30 marzo 2013)
info@clubtenco.it
Quell'addio
a Lugano
Sul prossimo numero, ricorderemo, come
merita, Enzo Jannacci, morto lo scorso 29 marzo a Milano.
Qui ci limitiamo a pubblicare il comunicato degli amici
del Club Tenco e questi fermo-immagine ripresi da YouTube.
(http://youtu.be/k84G4ODpBsE).
Sopra: in uno studio Rai, negli anni '60,
(da sinistra) Otello Profazio, Giorgio Gaber, Enzo
Jannacci, Lino Toffolo e (di spalle) Silverio Pisu
intonano “Addio Lugano bella”, il più
noto canto anarchico in lingua italiana
Giorgio Gaber e Enzo Jannacci
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I
nostri fondi neri
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Sottoscrizioni. Andrea Perin (Milano) 30,00;
Alessandra Caselli (Pontassieve – Fi) 30,00;
Giuseppe Galzerano (Casalvelino Scalo – Sa)
35,00; Monica Giorgi (Bellinzona – Svizzera)
135,00; a/m P. Finzi, gli organizzatori della serata
del 16 marzo con presentazione del film “Cronaca
di una strage” (Fino Mornasco – Co) 50,00;
Aurora e Paolo (Milano) ricordando Amelia Pastorello
e Alfonso Failla, 500,00; Vincenzo Grossi (Pescara)
100,00; Danilo Vallauri (Dronero – Cn) 20,00;
Daniele Draperis (Santa Croce di Cervasca –
Cn) 10,00; Francesco Tenuta (Milano) 20,00; Pasquale
Palazzo (Cava de' Tirreni - Sa) ricordando Piero Milesi
e Faber, 10,00; Angelo Pizzarotti (Borsano di Calestano
– Pr) 20,00; Giacomo (Milano) ricordando Otello,
10,00; Libreria San Benedetto (Genova) 6,00; Paolina
Perna (Salerno) 20,00; Antonino Pennisi (Acireale
– Ct) 20,00; Pino Cavagnaro (Genova) 20,00;
Teodoro Fuso (Monopoli) “per la nuova veste
grafica di ”A“ rivista, grazie e complimenti”,
10,00; Roberto Minichello (Mirabella Eclano –
Av) 20,00.; Daniele Frattini (San Vittore Olona –
Mi) 10,00; Marco Parisi (Brescia), 40,00; Domenico
Masini (Galliate – No) 10,00; Giovanna Quadri
Gianinazzi (Origlio – Ch) 37,00; Vincenzo Molinari
(Senago – Mi) 10,00; Angelo Roveda (Milano)
50,00; Silvio Sant (Milano) 20,00; Giuseppe Anello
(Roma) 90,00; Pasquale Messina (Milano) “ricordando
mio padre”, 50,00; Katia Cazzola (Milano) 20,00.
Totale € 1.403,00.
Abbonamenti sostenitori. (quando non altrimenti
specificato, trattasi di euro 100,00). Gabriella
Fabbri (Colognola ai colli – Vr); Giuseppe Gessa
(Gorgonzola – Mi) 150,00; Laura Monferdini (Genova);
Matteo Gandolfi (Genova); Roberto Pietrella (Roma)
200,00; Alessia e Cristiana Bruni (Castel Bolognese
– Ra) 200,00; Antonella e Simo Colombo (Triuggio
- Mi). Totale € 950,00.
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