Nemesi
medica e canapa terapeutica
Leggendo sul numero 378 (marzo 2013) di “A” l'intervento
di Stefano Boni “Autogestione illegale contro la crisi”
ho cominciato a pensare a quanto queste riflessioni avessero
a che vedere con un libro che ho letto di recente per interesse
professionale. Il libro è di Ivan Illich, pubblicato
in Italia nel 1977 con il titolo Nemesi medica. L'espropriazione
della salute.
La nemesi medica, secondo l'autore, è l'inevitabile ritorno
negativo causato dall'istituzionalizzazione della salute, il
prezzo che dobbiamo pagare per aver delegato la nostra cura
a dei tecnici specializzati, i medici, che da una parte ci hanno
affrancato dal dover convivere con il dolore e la paura dell'ignoto
(le malattie), ma che al contempo ci hanno privato della libertà
di scegliere per noi stessi e per il nostro corpo. Come Illich
spiega infatti: “La società ha trasferito ai medici
il diritto esclusivo di stabilire che cosa è una malattia,
chi è o può diventare malato e cosa occorre fargli”.
La nemesi medica rappresenta gli effetti collaterali che sono
connaturati al percorso che la medicina ha compiuto nei secoli:
da quando l'uomo si curava da solo, grazie al sapere trasmesso
e diffuso nella comunità di appartenenza a quando all'uomo
non è stato più permesso mettere becco sui rimedi
papabili per ottenere la guarigione. E a questo punto è
la stessa medicina a diventare patogena. Ma torniamo un momento
indietro.
Da circa un anno mi sto occupando di canapa terapeutica e cioé
delle potenzialità mediche della canapa in un paese come
il nostro (dove la criminalizzazione di questa pianta raggiunge
i più alti livelli nel contesto europeo) e delle vicissitudini
che i pazienti italiani sofferenti di sclerosi multipla, epilessia,
tumori, Hiv, epatite C, glaucoma, dolori cronici e neuropatici,
fibromialgia, sindrome di Chron, sono costretti ad attraversare
esclusivamente per esaudire il loro diritto alla salute. Un
esempio odierno di nemesi medica potremmo dire: dei pazienti
che soffrono vicissitudini per curarsi. Non perché sia
la cura stessa che fa soffrire, quel che fa soffrire è
la difficoltà di accedere a tale cura.
Per chi non lo sapesse, in Italia esiste una decreto ministeriale
del 2007 a firma Livia Turco che permette al paziente di importare
canapa attraverso il canale istituzionale: nella maggior parte
dei casi viene acquistata dai Paesi Bassi attraverso una ditta,
la Bedrocan, che collabora con il Ministero della salute olandese.
Allora diremo, tutto bene?
Be', certamente meglio che niente. Il problema però si
sfaccetta in due direzioni: da un lato i tempi di attesa burocratica
sono lunghi e spesso i pazienti rischiano di rimanere senza
farmaco, con un conseguente aggravamento del quadro clinico,
dall'altro, l'importazione dall'estero e relative spese di spedizioni
sono molto care e quindi molte persone non possono sostenerle.
Soluzione? C'è chi si rivolge al mercato nero per un
prodotto poco affidabile e spesso di scarsa qualità e
chi invece decide di autocoltivare la propria medicina, con
costi contenuti e, dopo anni di esperienza (salvo chi è
dotato di talento innato e pollice verde) con risultati soddisfacenti.
In entrambi i casi però, se scoperti, si rischiano gravi
conseguenze penali. In Italia la semplice detenzione di un quantitativo
oltre gli 0,5 grammi ricade pregiudizievolemente e per assurdo
nella fattispecie di detenzione a fini di spaccio, e fra i due
strano ma vero, la situazione processuale diventa più
intricata per chi coltiva, senza foraggiare il narco traffico,
rispetto a chi lo finanzia. Ma che morale sottosta a tale prassi
legislativa? Come è mai possibile che chi finanzia il
narcotraffico abbia conseguenze relativamente più lievi
di chi coltiva in proprio per il proprio consumo personale (ludico
o terapeutico che sia)?
Tornando all'intervento di Stefano Boni, ripropongo i passaggi
che mi hanno fatto riflettere: “La drammaticità
della fase attuale non è tanto nella decrescita economica,
ma nel fatto che siano stati estinti altri canali di sopravvivenza.
La nozione di crisi chiede alla società di sacrificarsi
per mandare avanti un sistema che, man mano che colonizza spazi,
estingue possibilità alternative, presentandosi arrogantemente
come l'unico possibile. [...] In certi contesti – penso
al Latinoamerica, all'Africa e a certe realtà asiatiche
– si è meno dipendenti dai vincoli istituzionali
per quanto riguarda la capacità di mantenere una gestione
autonoma di importanti ambiti della produzione e del commercio
[...] I discorsi politici dipingono una visione del progresso
sostanzialmente asettica, ipertecnologica, attentamente monitorata,
come ovvie necessità del vivere civilizzato. Spesso questa
visione confortevole e rassicurante della realtà è
giustificata ulteriormente dalla necessità di garantire,
attraverso norme igieniche e di sicurezza, il nostro benessere
[...] In Italia ci sono semplicemente molte più regole
effettivamente applicate. Si sono, negli ultimi decenni, progressivamente
allargati gli ambiti di regolamentazione invasiva attraverso
controlli burocratici [...] In altri contesti, le regolamentazioni
semplicemente non sono così intrusive, ovvero non vanno
a governare nelle minuzie i processi produttivi”.
Noi stiamo proprio parlando di processi produttivi della salute
pubblica e individuale. Applicare questi ragionamenti al nostro
caso, significa riconoscere un'eccessiva intrusione istituzionale
nel settore intimo della nostra salute e del nostro benessere,
quando esso ha a che fare con l'accesso alla canapa. Tra l'altro
come dice Boni, questa stessa intrusione è giustificata
con il fine ultimo del nostro benessere, cioé si afferma
che nessun altro al di fuori dei tecnici della salute ha il
diritto, per il nostro bene ripeto, di curarci. Un monopolio
dal quale noi stessi siamo esclusi.
Per come stanno le cose rispetto all'accesso che lo stato garantisce
attualmente alla canapa medica, per il bene dei pazienti capita
spesso che si venga lasciati senza continuità terapeutica
(tempi burocratici e costi) o, se vengono trovati nel tentativo
di produrre, coltivando, la loro medicina, sempre per il loro
bene li schiaffano in galera.
Il problema è l'orizzonte entro il quale abbiamo diritto
di scegliere. Come si manifesta quest'intrusione istituzionale
nel campo dell'accesso medico alla canapa? In questo paese il
percorso alternativo di cura con la canapa è, soprattutto
per motivi culturali e per lacune informative, ancora molto
indietro. La situazione di fatto è quella di centinaia
di pazienti, considerando sempre che se la canapa fosse liberalizzata
sarebbero probabilmente migliaia, che isolati e dispersi (quando
non raggruppati in combattive associazioni) su tutto il territorio
nazionale già ne fanno uso, ne beneficiano e vorrebbero
che si trovasse una soluzione alla qualità del farmaco
e al suo costo. Pazienti che in autonomia, come risposta personale
alla propria malattia, sono riusciti a raccogliere sapere diretto,
concreto, e che di fatto precorre quello che la ricerca medica
applicata conosce in campo di canapa terapeutica, in questo
paese ovviamente.
Se la canapa è illegale è di per sé complesso
poterne studiare le potenzialità terapeutiche.
Ed è qui che ritorna in gioco il libro di Ivan Illich,
perché in questo libro l'autore ci spiega come lo sviluppo
del settore sanitario-ospedaliero abbia raggiunto nelle nostre
società un'ampiezza tale da non prevedere alcuna forma
di terapia esterna allo spettro di quelle proposte e condivise
dalla comunità medica nazionale. Ma non solo, anche se
la comunità medica internazionale, come infatti è,
ha già percorso passi importanti nel riconoscere il valore
taumaturgico della canapa, qui da noi l'importante è
che non venga accordato al singolo paziente il diritto di produrre
da sé la propia medicina.
E qui Illich chiarisce quanto poi sosterrà anche Boni:
deve essere il sistema industriale farmaceutico a erogare questo
genere di servizi e siccome una pianta e i suoi principi attivi
naturali non sono brevettabili e sfruttabili commercialmente
nessuno ha il diritto di arrogarsi la potestà di cercare
individualmente e senza controllo istituzionale una soluzione
al proprio malessere, sia esso una nevrosi, il glaucoma che
toglie la vista, una depressione, i tremori, i nervi duri come
legno della sclerosi, o il sollievo che la canapa procura a
chi è sottoposto alla chemioterapia.
Illich ci dice: “Viene rapidamente maturando il problema
politico di stabilire un limite alla cura professionale della
salute. [...] la crisi della medicina può permettere
al profano di rivendicare efficacemente il proprio controllo
sulla percezione, classificazione e decisione sanitaria. [...]
La nemesi medica resiste ai rimedi medici. Può essere
rovesciata solo con un recupero, da parte dei profani, della
volontà di farsi carico di se stessi e attraverso il
riconoscimento giuridico, politico e istituzionale di questo
diritto si salvaguardarsi, che stabilisce dei confini al monopolio
professionale dei medici.”
Non voglio dire ovviamente che i medici siano una casta satanica,
tutt'altro. I medici senza dubbio contribuiscono singolarmente
nella maggior parte dei casi a rendere la nostra vita più
semplice. Quello che però i pazienti chiedono con maggiore
insistenza e con il coraggio di rischiare la galera per curarsi
e garantirsi una vita il più degna possibile (aspetto
al quale al momento lo stato non riesce a provvedere) è
che l'istituzione medica non faccia guscio, non sia ritrosa
a sperimentare le esperienze sviluppate dai profani –
i pazienti stessi –, la loro conoscenza applicata venga
valorizzata e non osteggiata, vengano condivisi tramite i canali
istituzionali le loro scoperte, si mettano a loro disposizione
consulenti botanici, esperti di coltivazione e medici sensibili
all'argomento per poter far rete e prendere il pesce grosso
che poi non è altro che il riappropriarsi della volontà
di decidere per se stessi e per la propria salute.
Fabrizio Dentini
Camogli (Ge)
Prosegue il dibattito
su
“Libertà senza Rivoluzione”
Prosegue il dibattito sul volume Libertà senza Rivoluzione
di Giampietro “Nico” Berti (Piero Lacaita Editore,
Bari 2012), di cui abbiamo ripreso qualche
stralcio in “A” 377 (febbraio). Sui numeri
successivi sono intervenuti Franco
Melandri e Domenico
Letizia (“A” 378, marzo), Luciano
Lanza e Andrea
Papi (“A” 379, aprile), Luigi Corvaglia e Alberto
Ciampi (“A” 380, maggio) e ora Marco Cossutta e
Salvo Vaccaro. Il prossimo numero(ne) estivo (“A”
382, luglio/settembre) ospiterà gli interventi di Persio
Tincani e Fabio Massimo Nicosia.
Il dibattito è naturalmente aperto a chiunque intenda
intervenire, con il limite delle 6.000 battute spazi compresi.
Dibattito
Libertà senza Rivoluzione/7
Marco Cossutta/La responsabilità della scelta
Giampietro Berti offre al lettore un'ulteriore e corposa monografia
in tema di anarchismo: Libertà senza rivoluzione.
L'anarchismo fra la sconfitta del comunismo e la vittoria del
capitalismo.
Lo studio, nel riconoscere “il declino irreversibile del
movimento anarchico […] affronta il problema che l'anarchismo
si trova a sostenere oggi dopo la fine della prospettiva rivoluzionaria
connessa – in qualche modo – alla possibilità
di un rovesciamento radicale dell'esistente dovuta alla spinta
obiettiva dell'anticapitalismo socialista e proletario. [...]
L'anarchismo oggi rappresenta soltanto se stesso”
(pp.5-6). Per Berti l'anarchismo classico “ha esaurito
il compito di orientare in senso positivo il presente”,
ovvero “l'anarchismo passa dal suo essere stato nella
storia, ma contro la storia, al suo essere semplicemente
fuori dalla storia” (pp.6-7).
Lo sforzo teoretico dell'autore è quello di tentare di
“distinguere le valenze universali dell'anarchismo dalla
specifica concretezza conferitagli dalla storia del movimento
anarchico, vale a dire la specificità relativa al periodo
che ha visto l'organica compenetrazione fra l'anarchismo, il
pensiero anarchico e il movimento anarchico, compenetrazione
riassumibile, appunto, nel mito della rivoluzione” (p.6).
Il problema posto da Berti è anzitutto relativo all'individuazione
delle valenze universali dell'anarchismo, necessarie
per recuperare la sua radice critica depurata dai riferimenti
alla tradizione militante dello stesso, in modo tale da rilanciarlo
nella realtà sociale quale approccio filosofico.
Il tentativo di Berti di riconoscere nell'anarchismo l'unico
momento di reale critica e, quindi, di alternativa non ideologicamente
precostituita alla attuale realtà sociale, è più
che condivisibile. Nel legare l'anarchismo alla filosofica Berti
pone l'accento sulla tensione a un pensare anarchico,
certamente tutto da esperire, che possa costituirsi quale radicale
critica dell'esistente. Un pensare autenticamente dialettico,
ovvero proteso a ricercare conoscenza (anche politica) attraverso
l'inesauribile dire e contraddire.
Se l'idea di un anarchismo quale coscienza critica della modernità
accomuna gli intenti di Berti a quelli di chi scrive, ciò
non di meno su altri temi si apre una forte divergenza di vedute,
di cui in altra sede si darà conto.
Si può fare brevemente cenno a come Berti ritiene l'anarchismo
il momento di massima espansione-espressione della modernità
e lo riconduce ad una sorta di estremizzazione del liberalismo,
assumendo quali canoni dell'anarchismo i postulati teorici dello
stesso liberalismo: dalla presupposizione di un individuo sregolato
e in quanto tale libero, alla necessità di un momento
regolatore dello stesso, che il liberalismo individua come noto
nel male necessario rappresentato dello stato (nella sua auspicabile
versione di stato minimo). La sua rappresentazione della libertà
quale assoluta sregolatezza (“pura decisione”) lo
porta a offuscare un'idea di libertà, che io ritengo
propria all'anarchismo, quale responsabilità e scelta
(ovvero autonomia), che può esplicarsi soltanto
all'interno di una comunità di esseri umani liberi, non
nella sregolata solitudine dell'individuo.
Non può essere condivisa l'affermazione che “l'anarchismo
classico non ha modo di giustificare la limitazione della libertà
del singolo, se questa libertà si svolge ‘fra adulti
e consenzienti'”(p.305), in vero coerente con la definizione
di libertà proposta quale “pura decisione”.
Tale impostazione risulta certamente appropriata per il liberalismo,
ma è fuorviante per l'anarchismo, il quale, presupponendo
la libertà legata all'autonomia, si costituisce intorno
al radicale rifiuto della sregolatezza. L'anarchismo giustifica
la limitazione – ovvero la repressione –
di ogni pulsione che lede il principio di autonomia, che tende
cioè a confondere la libertà con la sregolatezza.
Qui non si tratta di limitare la libertà in nome di altri
valori (quali l'uguaglianza o la solidarietà), si tratta
anzitutto d'affermare come per l'anarchismo la libertà
è cosa ben diversa dalla sregolatezza; se la libertà
come autonomia non può risultare limitata pena l'affermarsi
del dispotismo, la sregolatezza non ritrova asilo in una prospettiva
anarchica.
La libertà per l'anarchismo, inscindibile dall'uguaglianza,
si concretizza nella responsabilità della scelta, non
in pura decisione determinata dalle momentanee passioni del
soggetto volente. Ciò è valido per il liberalismo,
che non potendo concepire la libertà come autonomia,
né lasciare il tutto in balia delle passioni, attraverso
questa rappresentazione della libertà legittima
lo stato, macchina di controllo sociale, che impone eteronomamente
comportamenti da imporsi con forza irresistibile.
Se l'anarchismo cade in questa trappola teorica non solo perde
ogni precipuità teoretica, ma anche, rappresentandosi
come momento estremo di un liberalismo fautore di libertà
selvagge, giustifica di fatto la costruzione politica assolutistica
moderna, dato che rende necessaria la presenza regolatrice del
Gran Leviatano, unica entità capace di garantire
controllo e pace sociale in assenza di propensione alla regolarità
e alla autonomia da parte dei consociati (i quali null'altro
sarebbero, in assenza del sovrano, che una moltitudine disaggregata
incapace, cioè, di regolamentarsi).
Legare l'anarchismo alla prospettiva politica moderna e segnatamente
al liberalismo appare esiziale per una sua rilettura in chiave
filosofica, i suoi valori fondanti vanno ricercati in
altre (e genuine) prospettive politiche, poiché,
modificando una preposizione articolata in un passo di Berti,
“l'anarchismo va ripensato come quel pensiero che può
costituire realmente una delle grandi alternativa politiche
alla modernità” (p.357).
Marco Cossutta
Dibattito
Libertà senza Rivoluzione/8
Salvo Vaccaro/Risorse etiche e impegno collettivo
Il libro di Nico Berti merita una lettura attenta, non solo
per la mole dell'impegno intellettuale profuso, non solo per
la vastità di riflessioni contenute, ma anche perché
analizza e tocca temi e problemi che stanno a cuore a tutti
coloro ancora in cerca di prospettive di liberazione e di libertà.
Difficile farlo in qualche migliaio di battute, ma confido che
la sintesi rispecchi il mio approccio alle idee che Berti enuncia
con grande enfasi.
Pur depurando dall'aggettivo irreversibile quel declino
del movimento anarchico annunciato da Berti proprio in una
fase storica in cui la metodologia anarchica e libertaria viene
presa in prestito e adoperata, talvolta anche intelligentemente,
da diversi movimenti sociali anche in luoghi di civiltà
che ignorano cosa sia il pensiero anarchico nella sua interezza,
è indubbio che l'anarchismo e il suo “braccio”
politico non stiano al centro delle preoccupazioni della maggioranza
delle popolazioni del nostro pianeta. E non per vocazione minoritaria
dell'anarchismo, quanto perché le sue categorie affondano
in un panorama concettuale e immaginario tipico di un occidente
moderno uscito dai Lumi che oggi annaspa in un mondo così
accelerato quanto a trasformazioni di ogni genere registrabili
sulla superficie del nostro pianeta.
Che la traiettoria del pensiero e della prassi anarchica zigzaghi
in maniera talvolta confusa è effetto di uno spaesamento
generale, a prescindere dai colpi della crisi economica che
incute paura nel nostro spicchio di mondo privilegiato e forse,
esso sì, in declino inesorabile. Suscita maggiori dubbi,
invece, che questa apparente marginalità dell'anarchismo
sia figlia della collocazione alla estrema sinistra dello spettro
politico del nostro movimento, che così subisce i contraccolpi
della morte del comunismo reale e del fallimento del marxismo
quale chiave interpretativa e prognostica delle vicende umane.
Berti infatti sottolinea come non abbiamo atteso il biennio
1989-1991 per registrare la fine del comunismo reale, già
abbondantemente criticato dagli anarchici e dalle anarchiche
in carne e ossa in tempi non sospetti, ossia nel corso della
I Internazionale e della rivoluzione dei soviet.
Berti ci invita a spiegare il balbettio del pensiero e della
prassi anarchica come effetto di un deficit di attenzione verso
i veri vincitori dell'era moderna, ossia il liberalismo e la
democrazia, coniugatesi con il trionfo del capitalismo del libero
mercato incardinato sull'individualismo proprietario emerso
con le appropriazioni violente delle enclosures e glorificato
da Locke. È vero che il problema dell'anarchismo è
sempre stato legato alla credibilità condivisa del suo
rapporto con il politico e con la dimensione dell'assenza di
potere e di dominio negli aspetti organizzativi della società.
Ma che a ciò possa contribuire una accettazione dei principi
cardinali del liberalismo, della democrazia e del capitalismo
mi sembra del tutto fuorviante, meglio, molto al di sotto dei
problemi posti da Berti stesso.
La sua analisi, tanto più energica e senza appello nei
confronti del comunismo e del marxismo, quanto più simpatetica
e debole nei confronti del liberalismo e del capitalismo, ignora
i vizi genealogici sia dell'idea del liberalismo, che dissimula
la carica di violenza discriminatoria avversa i nativi e i deportati
afro-americani, sia del capitalismo, sotto la cui etichetta
raccoglie indistintamente le varie versioni di capitalismo di
mercato, senza cogliere anche qui la violenza dell'accumulazione
originaria, la asimmetria costitutiva nei rapporti di libero
scambio, il braccio politico dell'imperialismo genocidario prima,
e dell'egemonia a stelle e strisce con il dollaro moneta universale
e le portaerei con i droni poi.
Imperniare il rilancio del pensiero e della prassi anarchica
sull'individualismo elude tutta la tematica mossa dal pensiero
femminile che ricorda come il due, e non l'Uno, sia il numero
base delle civiltà ovunque esse si trovino, trascesa
a livello delle categorie del pensiero, anche politico, laddove
la statualità territoriale è divenuta la cifra
universale del dominio politico dell'Unità, trovando
nell'io cartesiano, dotato di diritti da Locke, quel perno in
cui si smarrisce la contestualità storica, ambientale,
di genere che astrae la carne viva dell'umanità per farne,
appunto, atomo indiviso. Su questo punto, non a caso sottolineato
da diverse prospettive nel pensiero contemporaneo presso cui
chi scrive cerca risorse concettuali per destrutturare la grammatica
della nostra esistenza e aprirla verso altri orizzonti di vita,
la distanza con il rifiuto di Berti di analizzare criticamente
le innovazioni teoriche non riconoscendole tali è massima,
anche senza prendersi la briga di orientarsi tra post-moderno,
post-strutturalismo, post-anarchismo e via dicendo.
In ultima analisi, la proposta di Nico di tematizzare il rapporto
tra anarchismo e democrazia è lasciata nel vago, e tutto
può ricomprendersi in questo spazio vuoto: dall'autogoverno
municipalista all'integrazione nelle diverse arene parlamentari
e rappresentative. Anche qua, senza un minimo di chiarezza,
il rischio di fare arretramenti rispetto al consolidato della
teoria e della pratica è forte, mentre occorrerebbe a
mio avviso riprendere i temi affrontati da Berti in uno spirito
radicalmente innovatore, cercando di rintracciare, oltre la
partizione del politico operata sulla società, quelle
risorse etiche disponibili per sperimentare stili di organizzazione
collettiva e forme di produzione e riproduzione della specie,
in una co-articolazione de-costruttiva con l'esistente per deformarlo
e riformarlo lungo assi inediti.
Un impegno collettivo, non certo del singolo individuo volenteroso
e intellettualmente capace, che il movimento libertario e anarchico
dovrà assumere oltrepassando il lavoro ultradecennale
di Berti, sia pure in una direzione che, forse, non convergerà
con quella da lui intrapresa.
Salvo Vaccaro
Non dimenticatevi di astenuti, schede bianche, ecc.
Non ho mai voluto affrontare temi “ideologici”
ma soltanto argomenti diretti ad esporre quanto pensavo sugli
effetti pratici che ogni posizione istituzionale (partiti, governi,
leggi, regolamenti, strutture ecc.) avrebbe praticamente provocato
sui cittadini, tutti i cittadini e, soprattutto, delle intenzioni
dei promotori e sottoscrittori dei provvedimenti stessi.
E sono stato buono buono ad aspettare che si formasse un governo
certo che mi avrebbe fornito l'opportunità di “stangarlo”.
Vi ricordate quanto questo giornale ha scritto sull'art. 18,
sulle società a r.l. con un euro di capitale (che avrebbe
ridato lavoro a tutti i giovani) sulla restituzione dei crediti
alle aziende ecc.?
Ma a oggi, aprile 2013, non è successo niente. Non che
la cosa sia più grave che se avessero fatto qualcosa,
è solamente più avvilente per chi guarda. Si vedono
molte persone che si agitano, immerse in un mare in tempesta,
senza che nessuno sappia nuotare ma tutti a gridare e a muoversi
chi in una direzione chi in un altra senza rendersi conto che
più gridano, più si agitano, più velocemente
andranno a fondo.
Naturalmente so che in una situazione del genere moltissimi
sulla riva sosterranno che bisogna buttarsi a mare e andare
a salvarli. (Votare!) Ma chi conosce il mare e chi conosce situazioni
del genere sa che, anche a saper nuotare benissimo, se ci si
getta a mare per salvarli, l'unico risultato certo che si otterrà
è di essere trascinati a fondo insieme a loro che pare
sia correttamente quello che pensano i Cinque stelle.
Bando alle ciance, affrontiamo la situazione (sempre dalla riva)
per capire insieme che succede e che senso ha ciò che
dicono. Poiché tutti cercano e trovano legittimità
dalle elezioni. Malgrado io odi le tabelline, riassumiamo, per
sommi capi, ciò che le elezioni ci hanno detto:
Elettori
|
46.900.000
|
meno |
Centro
sinistra |
10.047.000 |
|
Centro
destra |
9.900.000 |
|
Cinque
stelle |
8.700.000 |
|
Monti |
3,590.000 |
|
Altri |
1.700.000 |
|
Totale |
33.937.000 |
|
|
|
|
Nulle
e astenuti |
12.963.000 |
|
I dati ci dicono che qualunque maggioranza a due si formi,
più del 50 per cento degli italiani non sarebbero rappresentati.
Ma poiché a qualunque maggioranza a due, si aggregherebbero
i montiani, che sanno che da prossime elezioni non vedrebbero
un voto, un governo raggiungerebbe, quasi il 50 per cento.
Ma se fosse “democratico” il criterio che guida
i “rappresentanti del popolo” l'approccio al problema
dovrebbe essere ben diverso, cioè dovrebbe tenere conto
che cittadini sono anche coloro che non sono andati a votare
o che hanno votato scheda nulla e che sono il partito più
numeroso: circa 13 milioni.
E a prescindere dagli astenuti di natura squisitamente anarchica,
per dare un senso ai progetti degli altri astenuti non anarchici,
un senso, come pretendono, democratico, bisognerebbe che si
arrendessero al fatto che gli astenuti sono più vicini,
con il loro ribellismo di destra e di sinistra al Movimento
5 stelle che ad altri.
Questa ovvia riflessione avrebbe dovuto imporre al signor Napolitano
e al signor Bersani di affidare proprio ai grillini il compito
di formare un governo. A questo punto Bersani da minoranza elemosinante
un appoggio grillino, e quindi debole perchè alla loro
mercé, si sarebbe trasformato in minoranza forte perchè
arbitra della maggioranza di governo. E qui entriamo proprio
nel ridicolo. Cosa credete che vorranno fare? Come credete che
costoro si muoveranno?
Vorranno salvare il mercato! E per salvarlo chiederanno all'Europa
i mezzi per farlo. E l'Europa farà finta di dar loro
i mezzi, in cambio, però, della eliminazione di ogni
diritto dei cittadini. (E perché no di ogni loro risparmio)
L'ho sempre scritto. Non è i soldi che vogliono, i soldi
li hanno già. Vogliono che i cittadini non abbiano alcun
diritto a cui aggrapparsi. E quelli che gli riesce difficile
abolire (per esempio il diritto a rivolgersi ai tribunali) basta
intasarli con procedure astruse e costose e non farli lavorare
perchè il risultato sia identico.
Forse non rimangono che gli anarchici a voler difendere i diritti
naturali dell'uomo e a volersi organizzare (che non è
una brutta parola) affinché si sappia e si possa vivere
dipendendo dai nostri rapporti umani mettendo insieme e coordinando
il lavoro, le capacità e le speranze di ognuno e non
dai prodotti da comprare ai prezzi da altri stabiliti (Il mercato?!).
Angelo Tirrito
(Palermo)
Ergastolo/l'ergastolano scrive, il criminologo risponde
Carmelo Musumeci, ergastolano ostativo, detenuto nel carcere
di Padova ha scritto al criminologo Nils Christie dopo aver
letto un suo libro e ci ha inoltrato la prima parte del loro
scambio epistolare, che qui pubblichiamo.
Gentile professor Nils Christie,
non sono sicuro che riuscirò a farle avere questa lettera,
non so se riuscirò a tradurla in inglese e non so neppure
se lei mi risponderà, ma ci provo lo stesso perché
mi piacciono le imprese impossibili. Innanzitutto mi presento:
sono un “uomo ombra”, così si chiamano fra
di loro in Italia gli ergastolani ostativi a qualsiasi beneficio
penitenziario.
Sono un “cattivo e colpevole per sempre” destinato
a morire in carcere se al mio posto in cella non ci metto qualcun
altro, perché sono condannato alla “Pena di morte
viva”, infatti in Italia una legge prevede che se non
parli e non fai condannare qualcun altro al tuo posto, la tua
pena non finirà mai e si esclude completamente ogni speranza
di reinserimento sociale. Questa condanna è peggiore,
più dolorosa e più lunga della pena di morte,
perché è una pena di morte al rallentatore, che
ti ammazza lasciandoti vivo.
Professor Nils Christie, un amico sconosciuto, (le amicizie
con gli sconosciuti sono le più belle), Tommaso Spazzali,
che ha fatto la postfazione al suo libro nella versione italiana,
mi ha inviato e donato il suo saggio. L'ho letto in un solo
giorno e condivido molto i suoi pensieri e tutto quello che
ha scritto. Anch'io penso che la mafia e la criminalità
organizzata come tutti i poteri nascono dall'alto e non dal
popolo e dai poveracci, ma piuttosto dai potenti e dai ricchi.
Poi quando lo stato-mafia è in difficoltà, manda
in catene le persone che ha usato per raggiungere e mantenere
il potere. Spesso in Italia sono proprio i mafiosi che urlano
di lottare contro la mafia, per far credere che non sono mafiosi.
Lo so, non ho prove per dimostrare queste affermazioni, ma io
non sono un giudice (e neppure un criminologo) e non ho bisogno
di prove perché non devo condannare nessuno, tento solo
di pensarla diversamente da come lo stato-mafia vuole farmi
pensare. Non so cosa accade negli altri paesi, ma il carcere
in Italia non ti vuole solo togliere la libertà, ti vuole
anche possedere. Credo che sia impossibile “rieducare”
un uomo che ha commesso un crimine se questo non si sente amato
e perdonato dalla società.
Professor Nils Christie, a questo punto lei si domanderà
perché le sto scrivendo.
Ebbene, sono tanti anni che lotto contro i mulini a vento, quasi
da solo, per l'abolizione dell'ergastolo ostativo in Italia.
Leggendo il suo libro mi sono fatto un'idea della sua coscienza
sociale e penso che lei non sia d'accordo che una persona possa
essere cattiva e colpevole per sempre e murarla viva fino all'ultimo
dei suoi giorni, senza neppure la compassione di ucciderla.
Per questo ho pensato di scriverle per chiederle di aiutarmi
a fare conoscere all'estero la “Pena di morte viva”
che esiste in Italia, unico paese al mondo che se parli esci
e se no stai dentro, come nel Medioevo.
Se vuole sapere qualcosa di me e dell'ergastolo ostativo, potrà
trovare i miei scritti sul sito www.carmelomusumeci.com,
curato dalla figlia che il cuore ha adottato e dal mio angelo
(anche i diavoli a volte ne hanno uno).
Le invio un sorriso fra le sbarre
Carmelo Musumeci
Carcere di Padova
Caro Carmelo,
innanzitutto grazie per la tua lettera. L'ho ricevuta in un
ottimo inglese. Avrei dovuto rispondere molto tempo fa ma ho
avuto dei problemi di salute. Ora sto di nuovo bene e mi preparo
per un viaggio in Italia.
Dunque il sistema ostativo mi pare orribile. Non riesco a capire
come può essere in accordo con le norme e le regole internazionali.
Contatterò degli esperti di diritto internazionale e
chiederò, poi cercherò di farti avere la loro
risposta. Certamente parlerò di questo durante il mio
viaggio in Italia.
Indipendentemente da quanto gli esperti possono dire, io voglio
dire da uomo normale che questo sistema, per come l'hai descritto,
è in contrasto con le regole dei rapporti che le persone
normali hanno. Se capisco bene ciò che dici, il sistema
ti chiede di dare informazioni su una altra persona, spesso
un amico, per avere dei benefici. Nelle torture delle dittature
questo sistema è talvolta usato perché uno denunci
un altro. Il sistema di cui ho sentito in Italia è come
una tortura.
Nils Christie
Oslo (Norvegia)
Nils Christie (nato nel 1928 a Oslo)
è un criminologo e sociologo di fama internazionale.
Dal 1966 è professore di criminologia alla facoltà
di legge dell'Università di Oslo. Tra le edizioni
italiane dei suoi
libri ricordiamo i due titoli usciti per Elèuthera:
Oltre la solitudine e le istituzioni. Comunità
per gente fuori
norma (2001, pp. 144, € 10,33) e Il business
penitenziario. La via occidentale al gulag (1996, pp.
208, € 12,39).
Ad aprile Christie è stato in Italia per presentare
il suo ultimo libro, Una modica quantità di crimine
(edizioni Colibrì, 2012, pp. 208, € 14,00, prima
edizione Routledge, London, 2004). |
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Con un gabbiano nel cuore
Carcere di Fossano (Cuneo), 23 luglio 1973. Una giornata estiva
potenzialmente “tranquilla” trascorse in maniera
movimentata, con il sequestro e ferimento di alcuni agenti della
polizia penitenziaria da parte di Horst Fantazzini, anarchico
nato ad Altenkessel in Germania nel 1939, allora condannato
a trent'anni per una serie di rapine con pistole giocattolo,
e terminò con un “tiro al bersaglio” di proporzioni
inaudite da parte dei cecchini nascosti intorno all'ingresso
principale dell'istituto penitenziario; risultato: un cane poliziotto
massacrato, un mare di proiettili che crivellarono il corpo
di Horst in vari punti nella testa e nel torace. Nel 2000 Horst,
nel corso di un'intervista, lamentava di avere ancora due proiettili
in corpo. Le ferite furono talmente devastanti da causargli
la quasi sordità all'orecchio destro, lesioni e ricostruzioni
chirurgiche rimandate nel corso di decenni, che gli furono comunque
fatali, perché con molta probabilità furono la
causa del suo aneurisma all'aorta dell'addome che gli esplose
dentro il 24 dicembre 2001.
Insomma, anche se mai riconosciuto come tale, un altro “morto
di stato”.
Dopo tanti anni Horst, che non era mai stato un pentito o un
dissociato, ma che riconosceva il valore del pentimento, a patto
che fosse unicamente un processo individuale davanti alla propria
coscienza, dirà che era dispiaciuto sì per il
dolore causato alle famiglie delle guardie, ma che del suo dolore
e del dolore della sua famiglia nessuno se ne fece carico e
nessuno mai chiese scusa.
Nel 1999 il film di Enzo Monteleone interpretato da Stefano
Accorsi, (molto) liberamente tratto da quel fantastico racconto
autobiografico Ormai è fatta! Cronaca di una evasione
che Horst scrisse in sole 48 ore con una macchina per scrivere
e che Giorgio Bertani – coraggioso e appassionato editore
veronese, da sempre accanto ai poveri e agli esclusi –
raccolse dalle mani di Franca Rame, allora militante di Soccorso
rosso, per darlo alle stampe con due prefazioni toccanti, una
di Franca Ongaro Basaglia, l'altra di Anna, la moglie di Horst.
Il libro fu distribuito in maniera capillare e difatti fu proprio
su una bancarella dell'usato che venne notato e acquistato da
Enzo Monteleone.
Sono passati quarant'anni dalla tentata evasione dal carcere
di Fossano, oggi Ormai è fatta! si può
trovare come oggetto raro in vendita su ebay, si può
visionare sul sito www.horstfantazzini.net
oppure scaricare dalla biblioteca virtuale Liber Liber, si può
leggere in ristampe anastatiche autoprodotte o con le edizioni
Nautilus/El Paso del 2003. Milieu edizioni nel 2012, per la
collana Banditi senza tempo, ha curato la ristampa più
completa e, se me lo consentite, la più appassionante,
in quanto la conoscenza diretta di Horst da parte mia –
che sono stata la sua ultima compagna – mi ha motivata
a tentare di restituirne una immagine completa come uomo e come
ribelle anarchico. Contiene non solo Ormai è fatta!
ma altri scritti, racconti, lettere, poesie e articoli di Horst
Fantazzini (alcuni pubblicati su “A Rivista”), alcune
foto e immagini delle sue opere grafiche, più una breve
ma dettagliata bio e bibliografia curata da me e una magnifica
prefazione di Pino Cacucci. Infatti l'intenzione mia e dell'editore
era quella di rinnovare la diffusione di un testo militante
che negli anni '70 fu un libro “cult” per la sinistra
extraparlamentare; di contestualizzare i testi nel corso degli
avvenimenti di quegli anni; e infine cercare di ricostruire,
quanto più possibile, un percorso umano anche sentimentale
e poetico di Horst. Non si tratta, come dico sempre, di un oggetto
finito, ma di un progetto in itinere, così come
il sito dedicato alla sua memoria può essere arricchito
e ampliato, è un invito alle critiche e ai suggerimenti,
ma soprattutto a trovare altro materiale inedito.
Le presentazioni in giro per l'Italia, e presto spero anche
in Svizzera, mi danno modo di capire quanto la figura di Horst
Fantazzini sia stata da una parte “dimenticata”
o per meglio dire rimossa, forse, o accantonata, perché
difficile da gestire, ma molto amata principalmente da individui,
persone, al di là d'ogni “appartenenza” a
movimenti storici. Un amore che oserei dire, anche se non mi
piace il termine, “trasversale”, di compagni anarchici
e comunisti, ma soprattutto, come torno a dire, di persone.
Un amore che va oltre una biografia personale, perché
riproporre una figura come quella di Horst significa anche cercare
di capire quanto il sistema sia ingiusto, e quanto sia difficile
essere davvero uomini e donne liberi. Significa questo, e molto
altro.
È un'occasione anche per riparlare dei “grandi
vecchi” come Alfonso “Libero” Fantazzini e
Maria Zazzi che hanno combattuto armi in pugno contro il fascismo
e il nazismo. Per riparlare di resistenza umana alla guerra
e alla miseria che aveva il volto dei più umili come
la mamma di Horst, l'operaia Bertha Heinz. Per riparlare di
carcere, di amore fra le sbarre, di semiprigionia, di diritti
umani e di giustizia sociale. Perché la storia di Horst
è stata tutta un intrecciarsi con altre storie, amori,
vissuti e r/esistenze che hanno riguardato decenni al gabbio,
dai vecchi banditi anni '60 ai giovani ribelli, i “bravi
ragazzi” (quei ribelli politicizzatisi in carcere, non
troppo schierati ma molto fidati e in gamba) fino alle Brigate
rosse e alla rarefazione, la disgregazione di quegli anni, (desideri,
pulsioni e lotte) con l'eroina che ha distrutto i vissuti di
tanti giovani meravigliosi, quasi più della repressione
e tortura applicata dagli apparati statali come un fatto “normale”,
il male minore di una guerra che vedeva un dispiego di forze
terrificante, e che un po' “per forza” (trasferimenti
continui e senza preavviso da un carcere all'altro, tortura,
pressioni di ogni genere) un po' “per ricatto” affettivo
ed esistenziale (con le nuove norme alternative alla cella)
riuscì nel suo intento.
Per riparlare, forse di noi oggi. Innamorati della libertà,
feriti nell'anima e disillusi. Con sogni che si sono infranti
non solo contro muri, ma anche contro lo sfilacciarsi di una
solidarietà forte nei rapporti umani e il proporsi continuo
di un miliardo di dinamiche avverse. Fino alla crisi economica
più recente, che ci mette davanti, in maniera ancor più
eclatante che in passato perché evidente con le notizie
che viaggiano in rete, agli ingranaggi di un sistema profondamente
ingiusto governato da grossi delinquenti e da strozzini legalizzati,
che nei muri delle carceri con motti veloci tracciati da una
mano galeotta si riassume così: “Ladro piccolo
non rubare, che il ladro grosso ti fa arrestare” e un
altro dice: “A rubare poco si va in galera, a rubare tanto
si fa carriera”.
Durante le presentazioni e grazie a queste, a volte un po' provata
da difficoltà ed emozioni a volte troppo forti, ho avuto
modo di conoscere persone splendide, compagni (sentite com'è
ancora bella questa parola che sa di pane condiviso) anarchici
o comunisti, giovani migranti sorridenti che occupano e riabilitano
palazzine votate al degrado per farci anche luoghi di cultura
metropolitana, studenti universitari – anche liceali che
occupano scuole – che non avevano mai sentito parlare
di Horst ma che sono quasi ipnotizzati dalle sue parole, ex
detenuti, donne ex detenute che si erano ribellate al regime
carcerario e per questo sono state punite con la massima severità,
militanti vegani che ci preparano buffet liberi dalla crudeltà
e amiche di Facebook pronte ad accogliere una lacrima e un sorriso
con altrettanta intensità. Insomma, persone che, nelle
loro diversità di percorsi, presentano uno spaccato contemporaneo
di vita sociale marginale e ancora – scusate il termine
di altri tempi – sovversiva, e spesso, nonostante tutto,
persino allegra.
Persone che Horst, che era un uomo coraggioso, ironico, dolce,
sensibile e profondamente umano nella sua grandezza, nella sua
umiltà, nel suo spettacolare rispetto verso il suo interlocutore,
avrebbe amato con tutto il cuore e che il suo cuore, che oggi
batte un po' anche nel mio petto, continuo a illuminare.
Patrizia “Pralina” Diamante
(Firenze)
Ma io non sono (più) anarco-capitalista
Nel segnalarci il proprio disappunto per la segnalazione
del suo libro Il dittatore libertario, nel terzo
dossier “Leggere l'anarchismo” (in “A”
379, aprile 2013, pag. 9), Fabio Massimo Nicosia ci ha inviato
tra l'altro questa sua precisazione:
C'è stato un periodo della mia esistenza, nella seconda
metà degli anni '90, nel quale mi sono definito anarco-capitalista.
Per la verità già in passato avevo subito l'influenza
dell'anarco-liberismo di Riccardo La Conca, che considerava
quella posizione l'unica coerente, in quanto favorevole tanto
ai diritti civili, quanto alle libertà economiche. L'unico
dubbio manifestato da La Conca era quello della realizzazione
dei beni pubblici, che, diceva, nel mercato è soggetta
a rischi di frustrazione da free-riding, ossia da soggetti che
non contribuiscono alla realizzazione del bene, ma che mirano
a usufruirne gratuitamente.
In realtà, io sono convinto che se nel mercato c'è
una domanda di bene pubblico, si differenzierà un imprenditore
in grado di fornirlo, quindi l'obiezione non mi pare seria,
anche perché non sta scritto da nessuna parte che un
bene debba essere realizzato.
Il punto è un altro, e cioè che molti attuali
anarco-capitalisti non sono affatto favorevoli a una politica
dei diritti civili, perché la considerano “statalista”,
come nel caso dei matrimoni gay. Piuttosto che ammettere il
riconoscimento di queste unioni da parte dello Stato, infatti,
essi preferiscono mantenere la discriminazione tra matrimoni
etero (che pure sono riconosciuti dallo Stato!) e matrimoni
gay, che non meritano di ambire a questo riconoscimento.
Ma c'è un punto più di fondo che mi allontana
dall'anarco-capitalismo, almeno per come viene compitato abitualmente,
e cioè la crudeltà con cui viene concepito il
diritto di proprietà Da un punto di vista teorico, gli
anarco-capitalisti considerano la Terra come res nullius, sicchè
chiunque se ne appropri non deve nulla agli altri, come invece
riteneva Locke, per il quale la Terra era res communis.
Ai primi arrivati tutti i diritti, e gli altri possono finire
sul lastrico o morire di fame, considerando costoro parassiti
della società in quanto non produttori. Secondo un anarco-capitalista
di oggi, l'uscere di un ministero è un parassita, mentre
un grande capitalista foraggiato dallo Stato è un degno
proprietario, dato che gli anarco-capitalisti non seguono l'indicazione
di Rothbard e di Nozick, per i quali i diritti di proprietà
vanno verificati nella loro legittimità storica, il che
porterebbe alla loro “rettificazione”.
Sì, è vero che in teoria gli anarco-capitalisti
riconoscono questo problema, tuttavia è raro che ne traggano
conseguenze pratiche.
Per gli anarco-capitalisti, ad esempio, un contratto di lavoro
è un contratto come tutti gli altri, in cui una parte
presta servizio a un'altra, senza considerare la profonda diseguaglianza
tra il datore di lavoro e il lavoratore, di tal che questo dovrebbe
poter essere liberamente licenziato e quindi patir la fame e
il freddo, o andare a vivere alla Caritas.
Per quanto mi riguarda, invece, col tempo ho maturato la convinzione
che, soprattutto in tempi di automazione e robotizzazione delle
fabbriche, i soggetti deboli non devono più ambire a
un posto di lavoro, che è sempre più difficile
da trovare, ma direttamente a un reddito, un reddito di cittadinanza,
o meglio una rendita di esistenza, che spetta per il solo fatto
di esistere e di essere comproprietario della Terra, sicchè
mi sono avvicinato alle posizioni geo-libertarie, ispirate da
Henry George. Io ci metto un carico libertario in più,
e cioè che la rendita di esistenza è una compensazione
che i proprietari fanno ai non proprietari, per la limitazione
di libertà che impongono loro, vietando il passaggio
e assicurandosi il monopolio della Terra.
Fabio Massimo Nicosia
Milano
Dibattito “Libertà senza Rivoluzione”/Ricordiamoci di Berneri
“O la botte vecchia resisterà al vino nuovo, o
il vino nuovo cercherà una botte nuova”: sulla
terza di copertina del libro di Nico Berti Libertà
senza Rivoluzione io avrei messo questa sentenza di Camillo
Berneri, anarchico sui generis come lui stesso si definiva per
denunciare la sopportazione con la quale era tollerato da moltissimi
compagni. Su di lui esiste una letteratura importante con relativi
convegni di studio che tuttavia hanno permesso che il vino nuovo
nel frattempo si cercasse una botte nuova.
In verità ci sono anche stati compagni e compagne che
in certi momenti recenti, hanno rilevato quanto fosse “ingombrante
il fardello della tradizione” oppure quanto fosse ormai
fuori luogo il linguaggio relativo al rivoluzionarismo di antica
matrice o addirittura necessario un confronto con la democrazia.
Berti poi, dopo “l'intervista agli anarchici”, dove
denuncia lo stato di subalternità “obbligata”
degli anarchicim in questa ultima sua opera invita ad un confronto
con la democrazia liberale e questo visti i fallimenti delle
precedenti fasi “rivoluzionarie” che hanno visto
anche il marxismo soccombere e soccombere oltretutto nella tragedia
e nella ignominia.
Sarebbe interessante che, a parte gli inviti scontati ad una
generica attualizzazione, si iniziasse a dare qualche indicazione
concreta a riguardo di questo auspicabile “confronto”
e questo al di fuori delle generiche indicazioni relative a
politiche comunaliste che fin qua hanno lasciato il tempo che
hanno trovato.
Ho letto interessanti interventi dedicati a questo lavoro di
Nico, da Umanità Nova, al Fatto quotidiano
e Arivista, ma ho avuto la netta impressione che sia
prevalsa una specie di “tasto, pizzico e non ne abuso”,
atteggiamento che, oltre al dibattito, non genera altro.
Chiedo scusa ma io non saprei far di meglio e perciò
chiedo ai compagni di aiutarmi ad uscire dal vago. Il rispetto
dovuto alle opinioni espresse dai nostri maggiori devono passare
finalmente al vaglio del presente, certi che “quando dal
cileo spariscono le stelle, l'alba è vicina” (Camillo
Berneri).
Alfredo Mazzucchelli
Carrara
Botta.../M5s Una posizione banale e scontata
Ciao “A”,
leggo da tempo la rivista online e vi ringrazio per la sua disponibilità
online e la nuova impaginazione.
Leggendo gli articoli di apertura di questo mese (“A”
379, aprile 2013) di Maria
Matteo e Antonio Cardella sono rimasto stupito e non potevo
non scrivervi. La posizione dei due, e quindi di “A”,
sulla questione M5s è banale e scontata, scontata come
altra buona parte dell'informazione che non capisce o non conosce.
Non chiamatemi grillino, per piacere. L'unico mio ideale è
l'uomo libero dalla sottomissione dell'uomo. Ho avuto modo di
leggere il blog di Grillo nel tempo e penso che sia uno dei
luoghi in cui la tesi anarchica sia più dibattuta anche
se non etichettata. Le citazioni e gli interventi di pensatori
anarchici nel blog e nel Movimento non mancano come ad esempio
una recente copertina del settimanale del blog con un intervento
di David Graeber.
Non voglio fare un elenco nè il difensore, ma mi aspettavo
da “A” una riflessione e un'analisi più approfondita
e pensata. Il fenomeno è accusabile di infinite critiche,
ma vorrei far presente che è anche un luogo dove l'anarchismo
è discusso.
Michelangelo Marra
duerama@hotmail.it
... e risposta/M5s Ma è un movimento monocratico
Caro Michelangelo,
io capisco che i tempi sono così confusi che indurre
in valutazioni non corrette sia sempre possibile e giustificabile.
Preliminarmente, penso che un uomo che tenga alla propria libertà
si guarderebbe bene dall'aderire a un Movimento chiaramente
monocratico, che rifiuta il confronto ed espelle gli adepti
che non ubbidiscono ai diktat del proprio capo. Io non so se
in quel Movimento vi siano anarchici. Spero tanto di no, perchè
ci sono abbagli che possono essere presi anche da personaggi
libertari come Dario Fo, ma difficilmente potrebbero essere
motivi di coinvolgimento per chi l'Anarchia la sente sino in
fondo e senza alcuna compromissione.
Ti ringrazio per l'attenzione che riservi a ciò che scrivo
e mi scuso se troverai questa mia replica molto decisa.
Con affetto
Antonio Cardella
Etnicizzazione del diritto: una riflessione
Con questo contributo, voglio tentare di indagare alcune proposte
e novità legislative degli ultimi tempi che introducono
delle norme nel diritto chiaramente tese a disciplinare e a
vietare dei comportamenti di persone con una determinata origine.
Che il diritto non fosse neutro è stato ampiamente indagato
e dimostrato: viene impostato da una determinata classe sociale
e su un determinato modello (la persona – l'uomo “medio”
quale metro di paragone); è tendenzialmente classista
(formato sugli interessi e le condizioni di vita della classe
medio-alta) e maschilista (formato sul curriculum vitae degli
uomini, lo si vede bene, nonostante i correttivi, ancora nell'ambito
delle assicurazioni sociali). Generalmente si tratta di caratteristiche
implicite, di cui né i rappresentanti né i rappresentati
sono veramente consapevoli, e che sono considerate giuste o
inevitabili.
Il fatto di riconoscere delle differenze e di trattare i soggetti
di diritto diversamente a seconda di determinate loro caratteristiche
non è di per sé negativo. L'uguaglianza, la parità
di diritto, ha in effetti due facce: che non vengano fatte distinzioni
insostenibili (discriminazioni), ma d'altra parte anche che
vengano fatte distinzioni laddove il rifiuto di farle significherebbe
assimilazione o renderebbe impossibile accedere a questi diritti:
le famose “pari opportunità”.
L'aspetto che ultimamente mi colpisce è che si legifera
in chiave etnica: a partire cioè dalla percezione secondo
cui delle persone di aspetto diverso, o con abitudini diverse
rispetto alla maggioranza costituiscano un gruppo omogeneo e
ascrivendo a questi gruppi precise caratteristiche.
Un esempio per esplicitare questo concetto è la votazione
sui minareti del 2010, con cui è stato introdotto nella
costituzione svizzera il divieto di costruire minareti. Questa
norma è stata votata chiaramente in ottica anti-stranieri.
Ma hanno sostenuto il sì anche certe cerchie femministe
perché l'islam sarebbe particolarmente sessista. Il sessismo
viene quindi etnicizzato: la discriminazione delle donne è
pensata essere una caratteristica dell'islam, e siccome si è
contro la discriminazione delle donne si è contro l'islam
(e quindi contro i minareti).
Particolarmente significativa è la nuova norma penale
contro le mutilazioni genitali femminili in vigore dal 1.7.2012
su iniziativa della consigliera nazionale socialista Maria Roth-Bernasconi:
rende punibile “chiunque mutila gli organi genitali di
una persona di sesso femminile, pregiudica considerevolmente
e in modo permanente la loro funzione naturale o li danneggia
in altro modo” (art. 124 Cps, Codice penale svizzero).
La norma, introdotta per proteggere le donne immigrate e le
loro figlie da questa pratica orribile, dimostra bene da un
lato il condizionamento culturale del nostro diritto, dall'altro
l'ascrizione di determinate caratteristiche a persone provenienti
da paesi africani e arabi dove questi interventi vengono praticati.
Il nuovo articolo di legge comporta infatti “dei problemi
di delimitazione” particolari rispetto alle cosiddette
operazioni genitali cosmetiche, che negli ultimi anni sono considerevolmente
aumentate: in pratica, come espone Terre des femmes nel suo
“Papier de position sur les Mutilations Génitales
Feminines”, “Questi divieti, pensati per proteggere
l'integrità fisica delle migranti, pongono dei problemi
alla luce del numero crescente di 'donne occidentali' che si
sottopongono ad operazioni nella zona genitale per motivi puramente
estetici o per aumentare le sensazioni di piacere”. Infatti,
la norma non prevede la possibilità per le donne di acconsentire
a un intervento sui propri organi genitali che non sia medicalmente
indicato, neppure se maggiorenni. Secondo la dottrina, è
vero che anche interventi quali piercing, tatuaggi e operazioni
estetiche di per sé cadono sotto l'art. 124 Cps, che
non distingue tra lesioni gravi e lesioni semplici. Risolve
tuttavia il “problema” mediante un'interpretazione
teleologica secondo cui il legislatore non voleva far cadere
queste pratiche sotto il divieto delle mutilazioni genitali
femminili.
Affermazione probabilmente vera, ma è proprio qui il
punto: per le donne vittime di mutilazioni genitali nel senso
attribuito generalmente a questo concetto, si parte dal presupposto
che anche da adulte avrebbero difficoltà di opporvisi
a causa della tradizione, della pressione sociale, del grado
di integrazione ridotto, della dipendenza finanziaria e dello
statuto precario in relazione al titolo di soggiorno. Dall'altra
parte, per quanto riguarda piercing, tatuaggi o operazioni di
chirurgia estetica (si parla sempre in relazione ad interventi
sugli organi genitali femminili), si considera che riguardino
unicamente l'integrità fisica e non tocchino altri beni
giuridici protetti quali l'integrità sessuale, la dignità
e l'autodeterminazione della donna o la protezione di una vita
non ancora nata (le mutilazioni genitali più gravi in
particolare comportano rischi maggiori di infezioni e complicazioni
durante il parto). La conclusione è che trattandosi di
lesioni semplici e siccome i motivi sono considerati rispettabili,
una donna adulta (che in questo caso è europea), può
ed è in grado di acconsentirvi liberamente (o –
in altre parole – di opporsi ad un intervento del genere
se non lo desidera). Eventuali pressioni culturali e da parte
di partner, coniugi, ecc., non vengono neppure discusse.
E naturalmente, per quanto riguarda la circoncisione maschile,
nessuno mette in dubbio che un uomo adulto possa acconsentirvi
liberamente, neppure chi mette in discussione la legittimità
di questi interventi sui minorenni.
Un altro aspetto dell'intera faccenda che mostra bene quanto
etnocentrico sia il nostro diritto, è quello legato agli
interventi di chirurgia plastica genitale su bambini con caratteri
sessuali ambigui: “Tra il 2006 e il 2010, l'assicurazione
invalidità (AI) ha rimborsato i costi dei provvedimenti
medici previsti in caso di ‘intersessualità' in
media per trenta bambini l'anno. Non è noto il numero
di interventi chirurgici effettuati, poiché la statistica
non riporta il tipo di prestazioni mediche rimborsate dall'AI.”
(Risposta del Consiglio federale all'interpellanza parlamentare
12.3920 del 28.09.2012). Ora, si tratta di interventi su minorenni
al fine di stabilire chiaramente il sesso, a livello di organi
genitali, che possono avere conseguenze gravi per tutta la vita
e che finora venivano eseguiti nell'interesse del bambino che
nella nostra società sarebbe preferibile crescesse con
un sesso ben definito. Pochi mettono in discussione la possibilità
per i genitori di acconsentire ad interventi del genere, considerati
medicalmente e socialmente indicati nell'interesse del bambino.
Mi chiedo: dove esattamente sta la differenza tra l'intervento
chiamato mutilazione genitale sui genitali femminili “per
fare una vera donna”, e l'intervento su genitali di un
bambino chiamato provvedimento medico in caso di intersessualità
per farlo diventare “una vera donna” o “un
vero uomo”?
A me paiono altrettanto dolorosi, gravidi di conseguenze e menefreghisti
dell'autodeterminazione della vittima.
Rosemarie Weibel
Canton Ticino (Svizzera)
Questo scritto è stato ripreso, con alcuni adattamenti
dell'autrice (e tralasciando le note), dal n. 24 (maggio-agosto
2013) del periodico anarchico ticinese Voce libertaria.
Se la sera prima il prof beve tre bicchieri...
Scena: mi trovo nell'aula meeting della mia scuola, il Convitto
nazionale Umberto I, ad ascoltare la relazione del medico competente
dell'istituto. La signora, una bionda sulla cinquantina, ci
spiega che ora, grazie a una delibera della Regione Piemonte,
tutti noi lavoratrici e lavoratori della scuola residenti in
regione possiamo essere oggetto di controlli a campione con
l'etilometro per stabilire il nostro grado di amore per la bottiglia
e per il suo contenuto alcolico.
Naturalmente la misura è presa per salvaguardare la salute
dei lavoratori alcolisti, per evitare incidenti sul lavoro e
per proteggere dalla fiatella a 60 gradi i poveri fanciulli
costretti a passare il proprio tempo con tipi poco raccomandabili
e forse ubriaconi impenitenti.
La neolingua con la quale conviviamo chiama queste continue
invasioni della libertà personale di ognuno “sicurezza”.
Sicurezza per l'alcolizzato che potrà essere sospeso
dal lavoro (e così senza stipendio si toglierà
il vizio), sicurezza per mamma e papà che non consegnano
a un seguace di Bacco il proprio creaturo, sicurezza per i figlioli
che possono vivere in un mondo perfetto, senza drogati, alcolisti,
parolacce (a quando una commissione di controllo che riferisca
sulla tendenza al turpiloquio dei maestri?)
Come sempre si parte da un assunto del tutto sensato e logico
che prevede che un lavoratore con responsabilità su altre
persone non faccia uso sul posto di lavoro di alcol e che non
arrivi sullo stesso nel pieno di una bella sbronza, per imporre
un peculiare stile di vita a tutti. Non si tratta di fissare
un limite al consumo di alcol come succede per il codice della
strada che non permette un consumo superiore alle 0,5 unità
alcoliche (un bicchiere di vino per intenderci) ai guidatori;
qui si tratta di vietare del tutto il consumo di bevande alcoliche
a maestri e professori. E si badi, non durante il servizio,
ma prima. Se la sera prima in una cena con amici durata un po'
più a lungo si è osato bere tre bicchieri di vino,
la mattina dopo il solerte controllore lo rileverà con
tutte le conseguenze del caso.
Sospensione del servizio, invio presso un ospedale per l'effettuazione
di visite di controllo e riammissione a scuola solo dopo la
dichiarazione medica della non riscontrata dipendenza da alcol
del lavoratore.
Ma quello che ancora più sconcerta è la decisione
di colpire nel mucchio prevedendo controlli a campione per non
meno di un terzo dei dipendenti della scuola. Insomma come se
le utenze telefoniche di un terzo degli italiani a caso venissero
ogni anno messe sotto controllo con il pretesto che chiunque,
prima o poi, potrebbe commettere un reato.
Con questa legge è stata messa nelle mani dei dirigenti
scolastici un'arma di intimidazione di massa assolutamente efficace.
Lavoratrici e lavoratori della scuola ritenuti poco affidabili
e magari sospetti per opinioni politiche e sindacali possono
essere messi sotto controllo, la loro vita rivoltata come un
calzino e messa sulla pubblica piazza così come si faceva
con i condannati alla berlina. Per non parlare di tutti coloro
che si prenderanno lo sfizio di denunciare (anonimamente, nel
migliore costume italiano) i colleghi antipatici, coloro ritenuti
un problema per la propria carriera, eccetera.
In sintesi, come ogni legge liberticida, un formidabile strumento
di controllo, ricatto e vendetta contro i lavoratori meno allineati,
e un mezzo di intimidazione per tutti gli altri. La scuola è
da tempo nel vortice di un mutamento radicale che deve portarla
nuovamente a essere un luogo di docile trasmissione dei saperi
ufficiali e delle future glorie dei ducetti della politica italiana.
Ovvio che servono mezzi come questi per condurre tutti alla
ragione e tutte le pecore all'ovile. A noi dimostrare che le
ciambelle non sono destinate tutte a riuscire con un bel buco
nel mezzo!
Stefano Capello
Torino
I
nostri fondi neri
|
Sottoscrizioni. Luigi Luzzatti (Genova) 20,00;
Bruno Gallo (Roletto – To) 10,00; Akberto Ramazzotti
(Muggiò – Mb) 20,00; Edo Bodio (Condino
– Tn) 9,00; Albino Trucano (Borgiallo –
To) 5,00; ricordando P.I. 400,00; Fabio Plaombo (Chieti)
200,00; Ugo Tombesi (Savona) 10,00; Michele Morrone
(Rimini) 10,00; Aurora e Paolo (Milano) ricordando
Sandro Jemoli, 500,00; Patrizia Diamante (Firenze)
“ricordando il mio amore Horst”, 40,00;
Eugenia (Milano) 10,00; Giorgio Meneguz (Brovello
Carpovigno – Vb) 20,00; Alessandro Fico (Godega
di Sant'Urbano – Tv) 10,00; Martina Guerrini
(Livorno) per contributo numero speciale lingua rom,
20,00. Totale € 1.374,00.
Abbonamenti sostenitori. (quando non altrimenti
specificato, trattasi di euro 100,00). Associazione
Alessandriacolori (Alessandria); Lucilla Dubbini (Ancona);
Fabio Palombo (Chieti). Totale € 300,00.
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