Un documentario
sugli arditi del popolo
Fondati nel 1921 per iniziativa di Argo Secondari, ex-tenente
dei reparti d'assalto durante la prima guerra mondiale, gli
Arditi del popolo furono la prima espressione di resistenza
popolare che si oppose con ogni mezzo al neonato squadrismo
mussoliniano.
Sconosciuti ai più, rappresentano uno fra gli eventi
più salienti di quegli anni al punto che tutte le forze
politiche di allora furono costrette a confrontarcisi. Nati
in continuità con l'arditismo di trincea, in breve tempo
si diffusero in tutta Italia ottenendo l'adesione di migliaia
di lavoratori, di varia tendenza politica, che videro il fenomeno
come un efficace strumento di opposizione al fascismo.
Da più di dieci anni la storiografia si sta occupando
di ricostruire il movimento degli Arditi del popolo e, con questo
piccolo lavoro, abbiamo voluto dare il nostro contributo.
L'idea di realizzare un documentario (Siam del popolo gli
arditi) nasce infatti proprio dalle presentazioni dei libri
alle quali ho avuto modo di assistere e, per l'esattezza, dalla
volontà di completare il quadro da esse offerto, utilizzando
un mezzo che possa permettere di cogliere meglio il contesto.
Ci è stato possibile sperimentare questo strumento grazie
alle basi pratiche e teoriche che ci hanno fornito un corso
serale di documentario – presso la scuola di cinema e
televisione di Milano – e la complicità dei docenti.
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Parma,
luglio 1921, barricate in via Nino Bixio |
Il documentario ripercorre la breve storia degli Arditi del
popolo dalla prima guerra mondiale alle barricate dell'agosto
1922, attraverso le interviste di alcuni degli storici (Eros
Francescangeli, William Gambetta e Andrea Staid) che ne hanno
ricostruito la vicenda. Mentre con Paolo Finzi, che riporta
il contributo anarchico, abbiamo avuto la possibilità
di approfondire temi affini all'argomento, come il sostegno
alla lotta degli Arditi del popolo da parte di Umanità
Nova, che già da poco più di un anno dall'inizio
della sua attività era stata violentemente colpita dalle
squadracce fasciste.
Quello delle interviste non è il solo linguaggio usato;
prendendo a pieno dal repertorio dei documentari, abbiamo deciso
di utilizzare diverse tecniche: tramite la messa in scena di
Luigi Fabbri, mentre scrive il suo testo la Controrivoluzione
preventiva, abbiamo voluto legare all'arditismo popolare
una contemporanea analisi del fascismo. I filmati di repertorio,
forniti da diversi enti, tra cui la Cineteca di Milano e la
Cineteca del Friuli, ci hanno permesso di ricostruire visivamente
il contesto storico. Infine, con le riprese da noi effettuate
fra tre diverse città, Milano, Parma e Roma, e l'utilizzo
delle fotografie dell'epoca, abbiamo ricostruito gli accadimenti
che hanno segnato quegli anni permettendo, a voi il compito
di giudicare come, di confrontarli con il presente.
Paolo Rasconà
prasco@gmail.com
Titolo:
Siam del popolo gli arditi
Genere: documentario
Durata: 40'
Formato: MiniDV
Audio, montaggio, regia, riprese, soggetto: Andrea Motta, Paolo Rasconà
Prodotto da: Fondazione Milano Scuola di cinema
e televisione |
Quel
15 dicembre
1969
E a finestra c'è la morti. Pinelli: chi c'era quella
notte di Gabriele Fuga ed Enrico Maltini (Zero in condotta
Milano 2013, pagg. 166, € 10,00 ) è senza alcun
dubbio un libro fondamentale per ricostruire che cosa è
successo nella notte del 15 dicembre nella questura di Milano.
Fondamentale perché grazie a un meticoloso lavoro di
ricerca sui documenti si può sapere come si sono comportati
gli uomini della polizia, dei servizi segreti e alcuni magistrati.
E soprattutto, documenti alla mano, viene in piena luce l'attività
di informatore del sedicente anarchico Enrico Rovelli. E come
questo fosse informatore del commissario Luigi Calabresi, ma
soprattutto pedina di Federico Umberto D'Amato, il potente capo
dell'ufficio affari riservati del ministero dell'interno.
Sulla notte del 15 dicembre scrivono Fuga e Maltini: “Quello
che sorprende e quello di cui per troppo tempo non ci siamo
resi conto, è che il tenebroso ufficio, nei giorni della
strage di piazza Fontana e della morte di Pinelli, era fisicamente
presente nei locali della questura di Milano, con funzionari
di alto rango e con un'intera squadra tecnica e informativa,
giunti a Milano da Roma già il 13 dicembre. Una presenza
davvero occulta: i soli di cui si trova traccia negli atti di
allora sono il vicequestore Silvano Russomanno, ma esclusivamente
per la vicenda dei vetrini 'trovati' nella borsa inesplosa alla
Banca commerciale di Milano, ed Elvio Catenacci – definito
allora dai giornalisti 'l'ispettore fantasma' – l'unico
ufficialmente inviato 'in missione' per una sedicente inchiesta
dal ministero dell'interno, nominalmente direttore dell'Uar,
in realtà fantoccio di D'Amato. Molti altri erano presenti,
ma nessuno fu mai interrogato nelle due istruttorie dei giudici
Giovanni Caizzi e Carlo Amati prima e Gerardo D'Ambrosio poi,
effettuate sulla morte di Giuseppe Pinelli. [...] Solo dal 1996,
con la scoperta dell'archivio segreto della via Appia e delle
carte ivi conservate, sarebbe stato virtualmente possibile scoprire
il pesantissimo ruolo avuto da costoro anche nella morte di
Pinelli, ma da allora fino ad oggi sul quel ruolo nessun magistrato
ha voluto indagare”.
Dalla documentazione, trovata dopo anni di ricerche, emerge
chiaramente che la “mente” dell'operazione 12 dicembre
va ricercata nell'Ufficio affari riservati che: “furono
una struttura 'coperta' ma istituzionale dello stato italiano.
I servizi segreti si chiamano così perché sono
segreti ai cittadini, non ai vertici e nessuno Stato al mondo
consente ai suoi servizi di 'deviare' dai compiti cui sono delegati”.
Che dire? Quando nel 1970 viene pubblicato il libro La strage
di Stato frutto dell'inchiesta coordinata da Marco Ligini,
militante della sinistra extraparlamentare, e da Edoardo Di
Giovanni, avvocato, viene confermata l'intuizione degli anarchici
milanesi del Ponte della Ghisolfa che coniano proprio quel termine
durante una conferenza stampa del 17 dicembre 1969. E il giornalista
del Corriere della sera, Enzo Passanisi, ironizzerà sull'edizione
del giorno dopo sulle precise accuse degli anarchici: “Pinelli?
Dato che non aveva alcun motivo per uccidersi, a ucciderlo non
possono essere stati che i poliziotti” Scrivendo poche
righe dopo: “I ragazzi del circolo, sotto lo choc subìto
in questi giorni, non si accorgono di spingersi un poco troppo
in questo gioco di controaccuse”. Controaccuse che, guarda
caso, andavano già nella giusta direzione per quanto
riguardava le responsabilità ad alto livello: “Colpevoli
che sono coperti dal ministero dell'interno, sul quale sarebbe
bene indagare”.
Bene, adesso, con questa mole di documenti, Fuga e Maltini (quest'ultimo
presente a quella conferenza stampa) danno solidità a
quelle accuse che, come si può leggere in questo “prezioso”
libro, non erano campate in aria, ma discendevano da una precisa
intuizione.
Luciano Lanza
Pierre
Clastres/
I primitivi e lo stato
La società contro lo stato: l'intera produzione intellettuale
di Pierre Clastres (1934-1977) può essere condensata
in queste poche parole (che costituiscono anche il titolo del
suo più importante lavoro, apparso nel 1974). Etnologo
e antropologo, specializzato nello studio delle popolazioni
indie sudamericane – prima ancora vicino al gruppo/rivista
Socialisme ou barbarie (legato in particolare a Cornelius Castoriadis
e Claude Lefort) –, la sua prematura scomparsa ci ha lasciato
in eredità un'opera e una ricerca che richiederanno valorizzazione
e approfondimento adeguati. E L'anarchia selvaggia, uscito
di recente per Elèuthera (Milano, 2013, pagg. 120, €
12,00), con introduzione di Roberto Marchionatti, aggiunge un
ulteriore, importante tassello nella conoscenza dell'opera di
questo autore.
Il volume è formato da quattro saggi fra loro indipendenti.
Nel primo (La questione del potere nelle società primitive),
dopo aver smitizzato la convinzione (“ingenua convinzione”,
sottolinea Clastres) di una supposta supremazia della civiltà
europea – con la sua gerarchia di valori – rispetto
a qualunque altro sistema sociale, viene mostrato come il potere
con tutte le sue dinamiche non sia separato e separabile dalla
società primitiva presa nella sua interezza. Non esiste
delega: la chefferie (vale a dire l'insieme delle funzioni
politiche esercitate dal capo in queste società) disgiunge
infatti potere e prestigio; al capo viene attribuito prestigio
ma non potere e infatti “nella tribù il capo è
sotto sorveglianza: la società vigila per evitare che
il gusto del prestigio si trasformi in desiderio di potere”.
Più complesso appare il secondo testo dedicato all'analisi
della violenza e della guerra presso i primitivi. Allontanandosi
dalle posizioni di Lévi-Strauss secondo cui sussiste
un forte legame fra dinamiche di scambio e pratiche di guerra
(gli scambi altro non sarebbero se non guerre risolte pacificamente,
mentre le guerre manifesterebbero l'esito di transazioni sociali
andate male), Clastres esplora altre direzioni. La guerra (o
meglio la macchina da guerra per usare un'espressione
di Deleuze e Guattari – i quali furono proficui interlocutori
con le tesi di Clastres) è al centro dell'essere sociale
primitivo; il quale elabora una serie concreta di dispositivi,
primo fra tutti quello di tipo bellico, volti a scongiurare
proprio la frammentazione della società e il suo assorbimento
in un ambito più ampio attraverso la formazione dello
stato. La macchina da guerra, come ricordano Deleuze e Guattari,
non è definibile e non ha necessariamente a che fare
con la guerra; meglio: si correla alla guerra solo quando se
ne appropria un apparato statuale; ad esempio: “Non si
può certo dire che la disciplina sia la caratteristica
della macchina da guerra: la disciplina diviene il carattere
indispensabile degli eserciti quando lo stato se ne appropria;
ma la macchina da guerra risponde ad altre regole [...] che
animano un'indisciplina fondamentale del guerriero, una continua
messa in discussione delle gerarchie” (Deleuze e Guattari
in Mille piani).
Il terzo contributo che compare nel volume è un appassionato
omaggio alla figura di Etienne de La Boétie, un autore
assai caro a Clastres (“il Rimbaud del pensiero”
lo definisce, sia per la giovane età in cui compose il
suo capolavoro che per la radicalità delle idee espresse);
un po' come Rousseau lo è stato per Lévi-Strauss.
Nel Discorso sulla servitù volontaria Clastres
trova anticipati con sorprendente lucidità alcuni dei
suoi più pressanti interrogativi, laddove egli mette
a confronto le società primitive con le società
moderne, divise in classi e sottoposte all'autorità statuale.
Perché gli uomini rinunciano alla libertà? Come
dare spiegazione dell'amore per il tiranno e della volontà
di servirlo? Dove è avvenuto questo malencontre,
il malaugurato accidente che ha snaturato e immiserito la natura
umana?
|
Pierre
Clastres |
L'ultimo scritto (Età della pietra, età dell'abbondanza)
transita dall'antropologia politica a quella economica e consiste
in un'ulteriore operazione di demitizzazione: quella secondo
cui l'economia delle società primitive sarebbe un'economia
di sussistenza e di miseria. Ripercorrendo gli studi di Marshall
Sahlins viene ribaltata tale tesi, così impregnata di
ideologia: quella primitiva è la prima società
dell'abbondanza, poiché in essa gli uomini e le donne
producono non per accumulare beni e ricchezze ma per soddisfare
i propri bisogni (e non quelli che all'uomo contemporaneo occidentale
fanno ritenere tali). Non basta: le società primitive,
nella misura in cui rigettano ogni forma di parcellizzazione,
così come rifiutano la politica quando si fa attività
separata, rifiutano anche l'economia, sono organismi antieconomici
e anti-produttivi. Per cui, ironizza Clastres, coloro che vogliono
assegnare a queste popolazioni un'etnologia della miseria non
fanno altro che denunciare la miseria della loro etnologia.
Come si sarà inteso è un volume ricco e articolato,
questo di Clastres, ma non rivolto esclusivamente alla cerchia
degli addetti ai lavori. Anzi: può interessare dappresso
chiunque avverta dentro di sé un'emergente insofferenza
nei confronti della sopravvivenza imperante e delle norme che
la disciplinano. Con le parole dello stessi Clastres: “Non
c'è dubbio che solo un'attenta disamina del funzionamento
delle società primitive permetterà di chiarire
la questione delle origini. E la luce così gettata sul
momento della nascita dello stato renderà forse chiare
anche le condizioni (realizzabili o no) della sua possibile
morte”.
Federico Battistutta
Tav,
una storia fantasy
Ovvero: le avventure di un pacco di caffè da Lisbona
a Kiev.
Binario morto (Chiarelettere, Milano, 2013, pp. 203,
&euro 12,90), scritto a quattro mani da Luca Rastello e Andrea
De Benedetti, è un'inchiesta sull'alta velocità
condotta col tono scanzonato di un interrail.
Lo scopo è fare chiarezza sul Tav, sul fantomatico Corridoio
5, la linea ferroviaria che, nei piani dell'Unione europea e
secondo la réclame, dovrebbe mettere in contatto l'Europa
occidentale e quella orientale, da Lisbona a Kiev. Quale modo
migliore per mettere un po' d'ordine che decidere di percorrere
di persona tutta la tratta? “Sembra una banalità,
visto che se ne parla da 15 anni”, spiega Rastello, “Eppure
ci siamo accorti con grande sorpresa che questo viaggio non
l'aveva ancora fatto nessuno. E soprattutto nessuna merce”.
Così, nella primavera del 2012, i due giornalisti partono,
portando con loro un pacco di caffè sottovuoto, scarrozzato
e fotografato a ogni tappa come il nano da giardino di Amélie
Poulain: prima e probabilmente unica merce realmente trasportata
sull'intera tratta.
I due si imbarcano nell'impresa con ostentata ingenuità,
con approccio conoscitivo, quasi straniato, più che militante.
Si portano dietro i dati ufficiali, le fonti “più
accreditate e meno ribelli”, ed è proprio cercando
conferme a questi dati che, cozzando con la realtà, riescono
a smentirli punto per punto. Una confutazione condotta come
una reductio ad absurdum, suffragata da una serie di
mirabolanti scoperte. A cominciare dal fatto che il grande progetto
concepito negli anni '90, la linea ferroviaria che avrebbe dovuto
collegare il Portogallo all'Ucraina, è oggi pesantemente
ridimensionato. Una nuova partenza ad Algeciras, in Andalusia
– la capitale portoghese dà ufficialmente forfait
il 21 marzo 2012, pochi giorni prima dell'inizio del viaggio
– e un nuovo probabile capolinea nella piccola Miskolc,
in Ungheria. Dal Corridoio 5 al Corridoio mediterraneo. E ancora:
l'asfalto ungherese; l'alta velocità ucraina, stabile
sui 108 km orari; la frattura diplomatica con la Slovenia, a
causa della quale, dal dicembre 2011, il collegamento ferroviario
Trieste-Lubiana è stato soppresso – o meglio, è
ora sostituito da una corriera.
“Abbiamo anche scoperto”, spiega De Benedetti, “che
le merci non possono viaggiare ad alta velocità, e noi
forse abbiamo ecceduto in alcuni tratti, traspontando il nostro
caffè sull'Ave spagnolo a 250 km orari, e il sottovuoto
spinto probabilmente ne ha patito... Abbiamo scoperto, anzi
ha scoperto, perché il vero protagonista del libro
è il caffè, l'alta velocità da bere...”.
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Susa (To), 23 marzo 2013, manifestazione No Tav. Migliaia
i partecipanti al corteo
che da Susa, percorrendo ben 8 chilometri, è arrivato
fino a Bussoleno |
Come in ogni diario di viaggio che si rispetti, i capitoli
costituiscono altrettante tappe e sono introdotti, oltre che
dal titolo, dall'espediente lettario della “rubrica”:
una sorta di sommario che anticipa brevemente ciò che
si andrà a leggere. Tipica dei romanzi di viaggio settecenteschi
(ma non solo), questa piccola introduzione offre spunti ironici,
permette di offrire una chiave di lettura degli avvenimenti
e rimanda a un'atmosfera alla Jonathan Swift che ben si addice
allo spirito di un viaggio che, attraversando terre più
o meno note, si propone di seguire le tracce di una fantomatica
creatura che ha ormai del leggendario: l'alta velocità.
Dalla locomotiva che “sembrava un mostro strano”
al Tav che si è rivelato un'irraggiungibile chimera.
D'altronde gli stessi autori lo definiscono “un libro
fantasy, a tratti noir e anche un libro di fantascienza”,
e ogni tappa-capitolo, oltre ai numeri, alle informazioni tecniche
e alle opinioni degli addetti ai lavori contiene impressioni
personali e reminescenze letterarie, come la citazione di Rilke
che descrive la città spagnola di Ronda o i toni cupi
da fiaba nera che assume la narrazione nel capitolo dedicato
alla tratta Modane-Chiusa di San Michele.
Tra tutti i luoghi visitati dal pacco di caffè, infatti,
quello più fiabesco è proprio la val di Susa:
“Se riesci a non guardare l'autostrada, i cantieri, le
industrie, le due statali, la ferrovia e i depositi abbandonati
sulle rive asciugate di un torrente, la valle è ancora
una quinta da favola, con riserve naturali intatte, paesi dai
nomi fiabeschi come Pampalù e Prapontin, angoli difesi
con ostinazione da chi ama questa terra”. Questo è
il capitolo più amaro, in cui si abbandona per un attimo
l'ironia, che per tutto il libro riesce a stemperare le informazioni
rigorose strappate agli esperti, per fare una breve digressione
e ripercorrere la storia della valle negli ultimi decenni: i
campi paramilitari neofascisti di Ordine nuovo, i processi del
'98, Sole e Baleno.
Se sul passato però c'è almeno la possibilità
di fare chiarezza, ciò che è ignoto per definizione
è invece il futuro e in questa “storia di velleità
megalomani, ambizioni disattese e ripensamenti tardivi”
la questione dell'orizzonte temporale è di enorme importanza.
Nel libro è citato il rapporto sull'analisi costi-benefici
dell'Osservatorio Torino-Lione, da cui si apprende che “i
lavori cominceranno nel 2014, termineranno (se tutto andrà
bene) nel 2035 e inizieranno a produrre benefici nel 2073”.
La riflessione sorge spontanea e riguarda la strutturale tendenza
delle innovazioni tecniche a diventare obsolete in breve tempo
e l'oggettiva difficoltà di fare previsioni economiche
a lungo termine. “Sessantun anni non sono un tempo da
economisti o banchieri, ma da futurologi, scrittori di fantascienza,
astrologi, profeti [...] Nel 2073, per quel che ne sappiamo,
le automobili potrebbero essere alimentate a saliva e gli aerei
a salsa di soia, sempre che nel frattempo non abbiano già
brevettato il teletrasporto”.
Questo ragionamento, che trova concordi i due principali esperti
interpellati, il professore spagnolo Germà Bel e l'italiano
Sergio Bologna, mette in crisi il motto positivista “non
serve ma servirà”, “con cui vengono solitamente
liquidati scettici, dubbiosi e misoneisti irriducibili”
e che, nell'ambito dei discorsi sul Tav, si accompagna spesso
a un altro assioma tecnocratico-patriottico: “L'Europa
è già pronta, l'Italia rischia di restare indietro”,
smentito puntualmente a ogni tappa del viaggio.
Così come vengono smentite tutte le false contrapposizioni
che ruotano intorno al Tav, a cominciare dalla dicotomia progresso-misoneismo,
per proseguire con quella che vede fronteggiarsi il profitto
e la difesa dell'ambiente, e ancora gli interessi generali con
gli interessi particolari. A questo proposito, ammesso e per
nulla concesso che i primi debbano prevalere, dall'inchiesta
risulta ovvio che per questa come per tante altre “grandi
opere” a farla da padrone è l'interesse personale
di chi investe nei lavori. E l'utopia marinettiana della velocità
come “nuova religione morale”, che impone di “sacrificare
i piccoli santuari e i campanili più periferici”
non è che vuota propaganda.
“L'idea che i nostri nipoti possano correre ad alta velocità
con le loro merci, che non sapremo quali siano”, spiegano
gli autori, “confligge con gli scenari che il futuro potrebbe
configurare. Per esempio, il direttore dell'autostrada ferroviaria
delle Alpi ha ammesso candidamente che con il solo costo della
tratta piemontese dell'alta velocità si può cablare
con la fibra ottica tutta l'Italia, fino al più remoto
paesino”. E forse questo progetto, così economicamente
gravoso per l'economia pubblica, è un sogno di futuro
che appartiene già al passato, “un'idea di futuro”,
dice Rastello, “che fa parte di un sogno industrialista
già tramontato da tempo”.
Laura Antonella Carli
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