Spezzare il pane nei vicoli oscuri
Intervista a don Andrea Gallo di Renzo Sabatini
“Il mio vangelo è poesia, il mio vangelo è musica, il mio vangelo è una voce che si ispira agli ultimi. Con una spruzzata di anarchia” ha dichiarato una volta don Andrea Gallo a proposito del “Vangelo secondo De André”.
A colloquio con un “prete da marciapiede” che cerca di portare la buona novella lontano dalle mura del tempio, fra i carrugi, tra il “letame dove nascono i fiori”.
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Don
Andrea Gallo |
Che significa essere un “prete da marciapiede”,
come lei ama definirsi?
Come prete, da oltre 46 anni, proprio in questa comunità
di San Benedetto al Porto (1) da cui parlo
adesso (qui siamo nell'angiporto di Genova) ho cercato di mettere
in pratica il consiglio amoroso di Gesù: andate, cercate.
A me piace girare la città, col suo angiporto, con i
suoi vicoli, le sue strade; mi piace andare in periferia; mi
piace il dialogo, l'ascolto. Qui, nel dicembre del 1970, abbiamo
deciso di aprire una porta dove bussano tutti: gli ultimi, i
vinti, i fragili, i perdenti. Ecco il mio incontro anche con
Fabrizio De André. In realtà “don Gallo
prete da marciapiede” me lo hanno attribuito gli altri,
perché io sono sempre da tutte le parti, cercando di
scoprire, di guardare negli occhi, di vivere accanto a loro
e poi, via via, di portare anche una solidarietà liberatrice:
l'inserimento nel lavoro, la cura… ecco, questo è
il mio marciapiede: andare per le strade e cercare di annunciare
un messaggio, una speranza.
Che cosa rappresenta per lei la comunità?
Per me è proprio la mia casa, la mia vita. Don Milani
(ma sono lontano dal volermi paragonare a quel grande maestro)
diceva, parlando della scuola di Barbiana: “Questi ragazzi
così bisognosi di tutto mi hanno insegnato la vita”.
Ecco, io posso dire la stessa cosa: dopo 35 anni di questa comunità
devo dire che i ragazzi, le ragazze, tutti gli emarginati che
ho incontrato, mi hanno insegnato la vita. Mi sono laureato
a questa università della strada.
Di Fabrizio De André lei ha detto che lui lo ha
coinvolto evangelicamente con la sua poesia e che le ha insegnato
a versare il vino e spezzare il pane non solo tra le mura del
tempio ma anche tra i vicoli oscuri. Che significa concretamente?
Come è avvenuta questa sua “conversione”?
È accaduto che io ho creduto davvero al suo messaggio!
Quando dice: “dai diamanti non nasce niente, dal letame
nascono i fior”, chi è che può smentire
questa affermazione? In questa morte che ormai stava diventando
Genova, mi ha insegnato l'alfabeto dell'amore, mi ha migliorato.
Leggere le sue poesie, i suoi canti, che sono una sorta di antologia
dell'amore, mi ha trasmesso una profonda inquietudine dello
spirito che coincide proprio con l'aspirazione alla libertà.
Non a caso recentemente l'editore Mondadori ha voluto intitolare
un libro su di me: “Angelicamente anarchico”. C'è
in Fabrizio questa attenzione agli ultimi, questo amorevole
intreccio che passa, direi, dal filo d'oro evangelico alla lirica,
alle note, e viceversa. Allora mi è sembrato di poter
annunciare il Vangelo veramente dando un senso alla vita, liberandomi
dalle mie paure; poter vivere una vita come servizio. E non
mi importa se chi mi implora tende la mano per gli altri oppure
è un assassino. Anzi, volendo approfondire ancora di
più, vorrei dire che Fabrizio mi ha richiamato alla trascendenza.
Penso al Pescatore, che qui nella comunità i ragazzi
cantavano già più di vent'anni fa. Nel Pescatore,
nel suo guardare oltre, c'è proprio una chiamata alla
trascendenza. Io ho scoperto questo punto di Dio in Fabrizio,
cioè nel senso che l'essere umano, al di là dell'appartenenza
a una qualche religione, può percepire la presenza di
Dio. Ecco allora perché in me c'è l'apertura a
tutte le etiche, a tutte le religioni. Ho scoperto così
il mio punto di Dio e ho capito che avevo un vantaggio direi
proprio della mia natura umana, di possedere un messaggio universale.
In Fabrizio è forte, profonda, questa voce che parte
dal profondo dell'uomo, che grida giustizia radicalmente e per
me gioiosamente, entrando anche in una cultura libertaria. Per
me quindi è stato un riferimento di senso per la mia
stessa vita: ho scoperto la spiritualità che appartiene
all'umano e che non è monopolio delle religioni. Lo dico
come prete cattolico che ama la sua chiesa: ma questo mi ha
insegnato Fabrizio, che la spiritualità non è
monopolio delle religioni. Quindi, al di là di ogni altra
considerazione io dico chiaro e tondo che Fabrizio è
a pieno titolo un mio evangelista, cioè portavoce della
profonda coscienza e della stessa energia vitale umana. Questo
per me è il valore di tutta l'opera di Fabrizio, così
poetica. Io sono legato anche a Fernanda Pivano, che mi ha fatto
scoprire della cose e che lo considera il più grande
poeta del novecento. Poi, vedendo i ragazzi della comunità
che vengono da dei tunnel, da situazioni difficili, ho capito
che quando l'uomo torna a cantare vuol dire che c'è ancora
speranza, non solo per l'individuo, ma per la stessa società.
Quindi tutta l'opera di Fabrizio è un evento universale,
per il mondo, per la storia e io credo che sarà la poesia
a salvarci da questa notte buia che stiamo vivendo.
Ma la chiesa ufficiale, quella del catechismo e dei precetti,
come ci si ritrova in questo “cristianesimo” dell'anarchico
De André?
Voi lo sapete, quando è uscita Si chiamava Gesù
la televisione italiana l'ha censurata mentre la radio Vaticana
la trasmetteva. Come può la chiesa non essere attratta
dalla bellezza, dalla profondità, dalla struggente ricerca
di riscatto della condizione umana? Questo è l'annuncio
di Fabrizio ed è anche il fulcro del cristianesimo. Con
Fabrizio si è consapevoli di partecipare a un importante
rito, certamente laico, senza caste sacerdotali; tuttavia questa
comprensione umana è anche preghiera, è guerra
alle ipocrisie, è amore per i derelitti, gli emarginati,
i perdenti che il mondo lascia sul terreno di questa sua inarrestabile
corsa verso il trionfo materiale. A volte parlo con dei vescovi
che ascoltano volentieri quelle canzoni. Perché quello
che io chiamo: “il Vangelo di De André” è
un percorso di comunione, che entra proprio nella metanoia cristiana,
cioè nel cambiamento di rotta su temi determinanti come
quelli della pace e della guerra.
Potremmo dire che Fabrizio, evangelicamente, si mette in una
posizione di umiltà, perché non ha la presunzione
di trasmettere una sua cultura, di indicare una strada. Casomai
l'unica presunzione che aveva era quella di riconoscere a se
stesso e agli altri la libertà di scelta. Ecco allora
lo spirito libertario, un'anarchia che mi piace tanto perché
non è l'adesione a un catechismo, a un decalogo e tanto
meno a un dogma. Emerge invece (e io conosco tanti anarchici)
come uno stato d'animo, una categoria dello spirito che, secondo
me, rasentava anche il francescanesimo. Quella inquietudine
dello spirito coincideva con l'aspirazione profonda alla libertà.
Pensiamo a quel verso: “signora libertà, signorina
anarchia”. Fabrizio è l'unico che riesce ad accomunare
in una medesima storia vincitori e vinti, per una liberazione
comune. È vero che questa avviene solo per un momento,
magari solo lo spazio di una canzone. Ma lì avviene,
perché rimescola le categorie del bene e del male, fino
a far emergere gli imprevisti: le prostitute insegnano e i professori
vanno a lezione! E allora ecco che mi ricorda la frase di Gesù:
“le prostitute e i pubblicani vi precederanno nel Regno”.
Ecco allora la mia vita di comunità e il nostro incontro:
perché i suoi personaggi sono i miei e lui dice che questi
ragazzi, con cui vivo, appaiono ricchi di una fragilità
che ce li rende cari, come nel Vangelo. Personaggi capaci di
coinvolgerci, che ci inducono a cercarli, come cerco di fare
io tra i vicoli della città vecchia, tra i vicoli delle
periferie. Quanti Miché, Marinella, Bocca di Rosa, Princesa,
incontro! Fabrizio poi si rivolge soprattutto a quelli che sono
tormentati.
È vero, molti mi fanno delle obiezioni e mi dicono: “non
ti sembra che il rapporto di De André con la religione
fosse veramente strano?”. E io rispondo: non era forse
strano, all'epoca, il rapporto di Gesù con i Farisei,
che chiamava “sepolcri imbiancati”? Chiaramente
il Dio di cui parla viene continuamente invitato a presentarsi
come uomo, forse l'unico modo in cui De André trova possibile
e desiderabile l'incontro. L'intero album de La Buona Novella
è una testimonianza di questo, ma già con Si
chiamava Gesù raccontava di un uomo fra gli uomini.
Anche la contestazione dei comandamenti nel Testamento di
Tito è del tutto coerente: Fabrizio contesta i comandamenti
uno a uno ma propone, per ciascuno di essi, un suo personale,
terreno e schiettamente imperfetto modo di appropriarsene. Prende
dentro lo sguardo dell'uomo quanta più vita possibile,
bonificando l'umana pietà dal rancore. Per arrivare,
alla fine, a quella Smisurata preghiera: “ricorda
signore questi servi disobbedienti alla legge del branco, non
trascurare il loro volto...”, ecco perché dopo
tanti anni dalla morte di Fabrizio è tutto un susseguirsi
di iniziative che parlano di lui e non c'è stato un vero
addio alla chiesa di Carignano. E quindi avrai capito che per
me è il mio poeta, il mio evangelista, il mio anarchico,
il mio artista. Ricordo quando abbiamo fondato la comunità,
nel 1970: qui tutti i ragazzi cantavano La guerra di Piero
e le altre canzoni dell'epoca.
Una sfrenata allegria
Lei era anche amico personale di De André...
...ma sai che avevamo finalmente pregustato il suo ritorno a
Genova? Fabrizio aveva già scelto una casa qui nella
zona del porto. Perché lui ormai viveva in Sardegna o
a Milano, ma aveva nostalgia. È mancato proprio in quei
mesi...
Com'era nata questa amicizia? Quando vi incontravate vi
capitava di discutere di queste sue canzoni a tema religioso?
No, mai! Da giovanissimo, viveva qui in zona e frequentava il
nostro bar, con Paolo Villaggio e altri e il suo modo di comportarsi
mi aveva subito attratto. Ma c'era un certo modo di stare assieme
con un'allegria sfrenata, quindi con lui non ho mai fatto delle
grandi discussioni. Lui tra l'altro aveva anche una certa timidezza
e cercava fraternità. Parlava più con gli occhi,
con lo sguardo, col sorriso. Era più facile che finisse
a spintoni e con una gran bevuta.
Lei poco fa ci ha definito De André come un evangelista.
Nessuno le ha mai tirato le orecchie in ambiente diocesano per
queste sue uscite, diciamo, poco ortodosse?
Non si sono mai permessi! Secondo me si sono accorti che la
morte di Fabrizio ci ha migliorati, come sa fare l'intelligenza
e io questo l'ho sempre ripetuto e credo che ormai abbia una
sua autorevolezza. A volte io ricevo dei richiami, perché
nel mio camminare domandando io frequento certe persone, per
esempio certi politici. Ma non ho ricevuto richiami per le cose
che ho detto di Fabrizio. Del resto io sono rimasto sempre accanto
agli emarginati e a volte devo affrontare l'arroganza del potere
ma lui mi ha lasciato una traccia indelebile, perché
in questa mia vita quotidiana mi calo nel racconto crudo di
Fabrizio e mi dà una grande speranza. Nella comunità
abbiamo una bacheca dove chiunque può scrivere e recentemente,
una mattina, scendendo nel salone, ho visto scritta sulla bacheca
questa frase, a caratteri neri, cubitali: “il male grida
forte”. Evidentemente il ragazzo o la ragazza che l'aveva
scritta stava molto male. Dopo qualche giorno io ho preso quel
pennarello e ho scritto: “la speranza grida più
forte”. E penso che questo è quello che ci ha lasciato
Fabrizio.
Gianni Novelli ci ha raccontato che nella comunità
di base di San Paolo, durante la messa, si canta Il pescatore.
Anni fa in una parrocchia romana cantavano l'Ave Maria
tratta da La Buona Novella. Immagino che anche voi nella
comunità continuate a utilizzare queste canzoni, magari
per la preghiera. Ma a De André faceva piacere che le
sue canzoni venissero utilizzate così? O magari lo considerava
un equivoco?
Non l'ha mai considerato un equivoco, così come non ha
mai avuto incertezze anche quando, a volte, c'era qualche accusa
o addirittura strumentalizzazione per quel che riguardava la
sua anarchia. Lui sentiva profondamente il messaggio che riusciva
a mandare. Capiva che, dove si incontrano i deboli con la voglia
di inseguire un'illusione, ampliare i propri orizzonti, sentiva
che le sue canzoni potevano svincolarli dalla passività
e dalla rassegnazione.
Noi abbiamo avuto ospite anche Princesa, la transessuale protagonista
della canzone, che poi era stata in carcere. Abbiamo avuto tanti
altri disperati, che avevano ricevuto delle condanne; tutte
persone che si ritrovavano per esempio in Geordie, perché
capivano che Fabrizio era riuscito a evidenziare la sproporzione
fra il loro gesto trasgressivo, la loro debolezza, e la risposta
impietosa del potere.
Fabrizio era contento di raccontare questa grande possibilità
che suscitava nelle sue “anime salve” un nuovo impegno
civile, di emancipazione per alcuni, per altri di solidarietà
e di lotta; di speranza soprattutto per i vinti, per gli ultimi,
i meno fortunati.
De André si è riferito a Gesù come
colui che: “guerra insegnò a disertare” e
lo ha definito come: “il più grande filosofo dell'amore
che donna riuscì mai a mettere al mondo”. Lei come
si trova in queste definizioni?
Mi trovo molto bene. Ho 77 anni e da 47 sono un prete cattolico
e ho capito che la mia non è stata una scelta ideologica,
come Fabrizio. Chi fa una scelta ideologica può anche
sbagliare ma la mia è stata una scelta di discepolato
di Gesù e quindi mi sono trovato sempre dalla parte dei
poveri, dei perdenti; dalla parte della cultura della pace e
della nonviolenza, come principi institutivi e costitutivi.
Io ho cantato tante volte il Laudate dominum e lui a
un certo punto se n'è uscito fuori con il Laudate
hominem. Perché? Perché sente il peso del
Golgota e vive Gesù come una magnifica persona. Ma riscopre
anche Tito, il ladrone, addirittura più innocente di
Gesù. Si vede che a Fabrizio proprio non interessavano
i santini, ma gli uomini.
In tema di Buona novella, fra i quadri di Via della
croce spicca il gruppo delle donne. Gesù in questo
caso viene individuato come colui che restituisce dignità
a donne: “umiliate da un credo inumano, che le volle schiave
già prima di Abramo”. Come la vede questa immagine
proposta da De André di Gesù e le donne?
Ma io continuo a dirlo alla mia chiesa: come è possibile
che negli anni 2000 siamo ancora a questo punto? Come la mettiamo
con la figura della Maddalena, che è la prima che incontra
Gesù risorto ed è la prima che ha l'incarico di
annunciarne la resurrezione? E dopo le parole di San Paolo:
“non c'è più né uomo, né donna;
né schiavo, né libero...”, come fa la chiesa
a mantenere questa figura arcaica della donna, cittadina di
serie C? Non è possibile! Quindi anche qui quello di
Fabrizio è un annuncio profetico con cui la chiesa prima
o poi dovrà fare i conti. Questa è una delle sfide
del futuro dell'evangelizzazione.
Molti hanno criticato la posizione tenuta da De André
e Dori Ghezzi dopo il sequestro, il perdono offerto ai pastori
che li hanno tenuti prigionieri. Lei cosa ne pensa?
È una conseguenza della sua coerenza. Fabrizio distingue
fra l'errore e l'errante. E ha fatto distinzioni, bisogna ricordarlo,
fra le colpe dei mandanti del sequestro e quelle dei pastori
carcerieri. È una distinzione profondamente umana. Così
Fabrizio offre a tutti una possibilità non solo di risarcimento
del male fatto ma anche di un progetto nuovo di vita. Non si
tratta di buonismo o di “perdonismo”. Comportandosi
così Fabrizio e Dori sono andati più vicini al
vero significato della giustizia.
Il punto di vista di Dio
Perché un artista anarchico e probabilmente non
credente come De André sentiva il bisogno di esprimersi
anche nella forma della preghiera, come in alcune sue canzoni
molto belle?
Io ho scoperto, da non molto tempo, che le scienze hanno delineato
tre tipi di intelligenza: intellettiva, emotiva e spirituale.
Fabrizio aveva in grande misura tutte e tre queste intelligenze.
Secondo gli studiosi esiste in noi, addirittura in maniera scientificamente
verificabile e misurabile, un tipo di intelligenza spirituale,
che ci libera dai fondamentalismi e dagli integralismi di tutte
le religioni e a mezzo della quale non captiamo solo fatti ed
emozioni ma con la quale percepiamo i contesti più grandi
della nostra vita; totalità significative attraverso
le quali ci sentiamo inseriti in un tutto. Il nostro quoziente
di spiritualità ci rende sensibili ai valori, a questioni
legate alla trascendenza. Dei neurobiologi hanno definito questo
quoziente: “il punto di Dio”. Allora possiamo forse
evidenziare il punto di Dio in De André, che è,
come dicevo prima, l'essere umano, che, laicamente, al di là
dell'appartenenza a una qualche religione, può percepire
l'esistenza di Dio. In De André è palese, profondo:
è una voce che parte dal profondo. Costituisce un riferimento
di senso che allo stesso tempo uccide i tentativi di tutte le
religioni di passare all'integralismo e imporre Stati confessionali.
È una liberazione della spiritualità. Fabrizio
scopre che la spiritualità appartiene all'umano e non
è monopolio delle religioni. Quindi al di là di
ogni considerazione Fabrizio è a pieno titolo uno spirituale,
anche se non un credente, che pone l'uomo al centro della sua
spiritualità e che si fa portavoce della profonda coscienza,
dell'energia vitale umana. Del resto in questa epoca che viviamo,
se non si riuscirà ad anteporre l'uomo al mercato non
sarà possibile dirigere le sorti dell'umanità
verso la giustizia. Le canzoni di Fabrizio in questo senso sono
strumenti artistici alti della cultura popolare universale,
sarei quasi tentato di paragonarle alla teologia della liberazione
(2).
Nella Ballata del Miché e in Preghiera
in gennaio De André espone anche la sua amarezza per
quella che, all'epoca, era la posizione della chiesa nei confronti
dei suicidi, destinati a essere seppelliti: “Senza il
prete e la messa, perché d'un suicida non hanno pietà”.
Lei che ne pensa?
In passato mi sono battuto contro questa norma così disumana
che, per fortuna ormai è caduta in disuso. Ma sai che
Fabrizio era tormentato da queste cose già da giovanissimo.
Cose che noi ritroviamo in Si chiamava Gesù e
in Preghiera in gennaio lui le aveva scritte in temi
elaborati ai tempi della scuola. Temi così profondi che
il prete che gli faceva religione e li aveva letti, li aveva
poi mandati al vescovo, perché erano riflessioni che
turbavano la coscienza. Chissà, sarà magari servito
anche quello a far cambiare idea alla chiesa che, almeno su
questo punto, ha fatto un salto di qualità (3).
Io individuo un filo rosso che lega i personaggi dei bassifondi
della Città vecchia ai Rom di Khorakhané.
Un filo che corre quindi lungo più di trent'anni della
nostra storia, dal 1963 al 1996. Nel testo del '63 De André
invitava a non giudicare “da buon borghese” ma a
capire fino in fondo: “se non sono gigli son pur sempre
figli, vittime di questo mondo”. Nel '96, parlando dei
Rom accusati di rubare, De André dice questa cosa, molto
poetica, molto bella: “se questo vuol dire rubare lo può
dire soltanto chi sa di raccogliere in bocca il punto di vista
di Dio”. Che poi è, tanti anni dopo, lo stesso
invito a cercare di conoscere e di capire, a non giudicare secondo
le categorie del borghese benpensante. Lei che ne pensa?
Assieme a Dori Ghezzi, a Milano, sono stato a presentare Khorakhané
in un campo Rom. È stato un abbraccio con i Rom veramente
profondo, ne ho un grande ricordo. Con Khorakhané
siamo nel solco del camminare verso cieli nuovi e terre nuove,
verso la ricomposizione della famiglia umana e universale. C'è
un'appartenenza all'essenza della natura umana; c'è un
abbraccio che riconosce il rispetto per tutte le etnie e tutte
le culture. E c'è un concetto profondamente libertario.
È come se Fabrizio ci gridasse: “È inutile
che voi vi riempiate la bocca della parola libertà”.
Se accanto a libertà non ci mettete anche giustizia e
uguaglianza, non serve.
Ma non le pare che ci sia anche un ribaltamento netto
della morale comune? Il Rom che ruba, per la società,
è comunque un ladro ma De André ci dice che il
punto di vista di Dio potrebbe essere del tutto diverso. Chi
commette il reato potrebbe essere non chi ruba ma chi costringe
i Rom a rubare perché li tiene nell'emarginazione.
Dovremmo qui approfondire concetti molto importanti. Perché
le chiese tendono a tradurre i testi religiosi in una realtà
pesante, dispotica, autoritaria. Cioè i testi, siano
la Torah, la Bibbia o il Corano, li considerano come fonti di
autorità. Così abbiamo queste caste sacerdotali,
che esistono ancora in tutte le religioni, che prendono questa
lettera e la considerano parola di Dio. Invece quella non è
parola di Dio e i testi devono essere capiti, interpretati.
Bisogna approfondire e andare all'essenza originaria, alla formazione
di quei testi.
Ti voglio fare un esempio, che mi sembra pertinente, che riguarda
un mio vecchio e caro amico, un grande prete, don Dante Clauser,
che ha più di ottant'anni. Lui ha un centro d'ascolto
a Trento dove ha ospitato anche delle prostitute. Adesso è
molto anziano, ma ogni tanto si fa un giretto per Trento. Recentemente,
durante uno di questi giri, ha incontrato una vecchia prostituta,
che l'ha salutato con affetto: “Ciao don Dante, sai ho
smesso il mestiere, ormai son vecchia. Però ti assicuro,
quando incontro qualcuno dei tuoi anziani, la mia prestazione
la faccio lo stesso, gratis. Penso, così, di fare il
bene”. Don Dante questa cosa l'ha scritta, ha scritto
che questo è proprio quello che piace a Dio, questa gratuità
spontanea. Ha scritto che anche questo è amore. Figuriamoci!
Tutte le gerarchie ecclesiastiche gli hanno dato contro, è
uscito anche sul giornale! Ma lui mi ha telefonato ridendo,
mi ha detto che era contento di aver provocato questo scandalo
nei palazzi vescovili.
Questo bell'aneddoto che, ovviamente, qui agli antipodi
non era arrivato, lo offriamo in esclusiva ai nostri ascoltatori!
Quando è uscito: “Il Vangelo secondo De André”,
del giornalista trentino Andrea Ghezzi, lei ha detto che, se
fosse stato il cardinale prefetto per gli studi ecclesiastici,
lo avrebbe inserito come testo di studio nei seminari delle
università teologiche. Ha provato a proporlo davvero?
Per la verità non ricordavo di averlo detto, ma lo confermo
adesso. I nostri seminari sono asfittici! Ci sono ancora solo
i vecchi testi, c'è questa grande ondata di bisogno di
ortodossia, si fanno selezioni accurate. Io direi che se nei
seminari entrasse la musica, non solo quella di De André
ma anche quella di tanti altri musicisti e cantautori, io dico
che la formazione dei seminaristi sarebbe molto più umana.
Avrebbero modo di scoprire delle cose. Io farei suonare Fiume
Sand Creek, le canzoni di quel disco. E lo stesso discorso
vale per le caserme. Farei ascoltare le canzoni delle Nuvole
contro il potere proprio dentro le caserme. Io a tutti gli ufficiali
che incontro gli recito La guerra di Piero: “Dormi
sepolto in un campo di grano...”.
Avviandoci alla conclusione vorrei tornare al rapporto
di De André con la vostra comunità. Ho letto che
c'era un rapporto diretto, che senza farsi pubblicità
lui vi aiutava.
È vero, sempre. Ma ti posso assicurare che lui aiutava
anche altri. Cose che nessuno sa perché i suoi contributi
li elargiva sempre in forma privata. E in questi anni dalla
sua morte Dori Ghezzi ha continuato ad aiutarci. Ha continuato
a dare significato a questo titolo, questo motto che noi usiamo:
“Faber e gli ultimi”. Credo di poter raccontare
che proprio poco tempo fa mi ha annunciato una grossa elargizione
e io volevo organizzare qualcosa di pubblico per ringraziare
a nome della comunità. Ma lei si è assolutamente
opposta, mi ha detto: “no, facciamo come voleva Fabrizio”.
Così ci sostiene senza farsi nessuna pubblicità.
E ricordo anche che quando c'è stata a Genova quella
grande serata al Carlo Felice, il 12 marzo del 2000, con tutti
i big della canzone che sono venuti a cantare per offrire un
tributo a De André, in quella occasione è stata
proprio Dori a coinvolgermi affinché portassi al Carlo
Felice tutti gli ultimi di Genova. Gli organizzatori volevano
riservare ai miei le ultime file ma Dori si è opposta,
voleva invece che questa gente si mischiasse agli altri nella
sala, ai politici, alla gente bene. Gli organizzatori avevano
paura: “ma chissà chi porti, chissà cosa
succederà”. Ma quello che è successo è
che alla fine tutti questi che ho portato: barboni, vecchie
prostitute genovesi e giovani prostitute di colore, disabili,
Rom... alla fine erano tutti commossi. Erano commossi anche
gli artisti: ho visto piangere Jannacci! Attorno a certe canzoni
tutti riscoprono questo bisogno di essere più umani.
Però i più commossi, i più rispettosi,
i più attenti erano loro: gli ultimi. E così anche
in quella occasione abbiamo confermato che dal letame nascono
i fiori.
Ma queste persone che lei ha portato al Carlo Felice...
in un certo senso loro sono proprio i protagonisti di quelle
canzoni. Ma loro ci si riconoscono?
Per loro è una speranza. I ragazzi della mia comunità
le cantano in continuazione quelle canzoni. Da noi, soprattutto
alla domenica, alla fine del pranzo si sfilano le chitarre e
quasi sempre si comincia e si finisce con le canzoni di Fabrizio.
Concludiamo tornando alle canzoni di De André che
più direttamente affrontano il tema religioso: queste
canzoni corrono il rischio di invecchiare o possono servire
anche in futuro per aiutare la gente a riflettere in modo diverso
sugli eventi del Vangelo, magari spingere qualcuno a vivere
la fede in maniera più coerente?
Quelle poesie non invecchieranno mai perché, come dice
Fernanda Pivano, l'opera di De André rappresenta la speranza
in un mondo nuovo e ci dice che un nuovo mondo è possibile.
Queste canzoni dicono che il povero e il perdente potrebbero
prendere consapevolezza e rifiutare questo sistema di oppressione
e, soprattutto, cominciare a costruire delle alternative. Tutta
quest'opera direi che non potrà venir meno, perché
continua ad essere una buona novella.
Renzo Sabatini
Poscritto:
Nel gennaio 2008 sono andato a Genova a conoscere don Gallo
e a visitare la sua comunità, in quell'angiporto di Genova
che, come tanti della mia generazione, ho conosciuto, ancora
prima di averci messo piede, ascoltando “La città
vecchia” e “Via del Campo”. Dall'alto dello
scalone che accede alla comunità mi sorrideva Fabrizio
De André, incorniciato in un grande e commovente ritratto.
Ho trascorso ore serene e coinvolgenti con quei “ragazzi”
di cui parla don Gallo nell'intervista. Anche in quell'occasione
hanno tirato fuori le chitarre e cantato per me Fiume Sand Creek,
Il testamento di Tito e altre che non ricordo. Ne approfitto
oggi per ringraziarli dell'accoglienza. Non so che direzione
abbiano preso i loro complessi percorsi di vita, ma conservo
i volti nel cuore e le voci nel registratore. Ringrazio di nuovo
anche don Gallo per gli splendidi racconti che ha voluto donarmi
in quell'occasione, seduto nel suo piccolo ufficio, affollato
da un andirivieni di gente di ogni tipo, fra le nuvole di De
André e quelle del suo immancabile sigaro toscano.
Note
- www.sanbenedettoalporto.org.
- Teologia elaborata fin dagli anni '60 in America Latina a
partire dal tema della liberazione dei poveri.
- Tuttavia nel dicembre 2006 la chiesa negò i funerali
religiosi alla famiglia di Piergiorgio Welby. Don Gallo assunse
in quella occasione posizioni che gli valsero nuove reprimende
e articoli ostili sull'Avvenire. In una conversazione del 2008
mi disse di aver chiesto perdono ai familiari di Piergiorgio
Welby per il comportamento della chiesa in occasione dei funerali.
(intervista realizzata via telefono nell'aprile 2005. Registrata
presso gli studi di Rete Italia – Melbourne. Andata in onda
nell'ambito della trasmissione radiofonica settimanale: “In
direzione ostinata e contraria”, dedicata ai personaggi
delle canzoni di Fabrizio De André).
In
direzione ostinata e contraria
Con
questa intervista, prosegue la pubblicazione su “A”
di una parte significativa delle 27 interviste radiofoniche
realizzate da Renzo Sabatini e andate
in onda in Australia nel programma “In direzione
ostinata e contraria” sulle frequenze di Rete Italia
fra il maggio 2007 e l’agosto 2008. In tutto si
è trattato di sessanta puntate (ciascuna della
durata di circa quaranta minuti, per un totale di quasi
40 ore di trasmissioni), nel corso delle quali sono state
trasmesse le 27 interviste e messe in onda tutte le canzoni
di Fabrizio De André. Si tratta dunque della più
lunga e dettagliata serie radiofonica mai dedicata al
cantautore genovese.
Se proponiamo questi testi,
è innanzitutto per dare ancora una vlta spazio
e voce a quelle tematiche e a quelle persone che di spazio
e voce ne hanno poco o niente nella “cultura”
ufficiale. E che invece anche grazie all’opera del
cantautore genovese sono state sottratte dal dimenticatoio
e poste alla base di una riflessione critica sul mondo
e sulla società, con quello sguardo profondo e
illuminante che Fabrizio ha voluto e saputo avere. Con
una profonda sensibilità libertaria e – scusate
la rima – sempre in direzione ostinata e contraria.
Precedenti interviste
pubblicate: a Piero
Milesi (“A” 370, aprile 2012), a Carla
Corso (“A” 371, maggio 2012), Porpora
Marcasciano (“A” 372, maggio 2012), Franco
Grillini (“A” 373, estate 2012), Massimo
(“A” 374, ottobre 2012), Santino
“Alexian” Spinelli (“A” 375,
novembre 2012)); Paolo
Solari (“A” 376, dicembre-gennaio 2012-2013);
Gianni Mungiello,
Armando Xifai, Alfredo Franchini (“A”
377, febbraio 2013); Giulio
Marcon e Gianni Novelli (“A” 378, marzo
2013); Sandro
Fresi e Paola Giua (“A” 379, aprile 2013);
Luca Nulchis
(“A” 380, maggio 2013).
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