Il coraggio del passero
di Nicoletta Vallorani
La morte si merita rispetto.
Sempre. Anche quando è un atto deliberato, una forma
di resistenza. Poi, chi resiste non dovrebbe sentirsi insultato.
Me la volto e rivolto nella testa, la faccenda dei tre suicidi
a Civitanova Marche. Non c'è niente da capire, in realtà.
Triplice suicidio per difficoltà economiche, sottrazione
di dignità, vergogna di essere talmente poveri da non
poter neanche considerare di sopravvivere. Faccio l'insegnante.
L'intellettuale. La scrittrice, con il disagio di chi scrive
in un paese strampalato, dove la cultura è vergogna.
Considero una scena vista infinite volte. Non è la storia
a ripetersi, sono gli uomini. Ci vorrebbe un necrologio non
dico capace di garantire un passo avanti, ma almeno di evitare
una vertiginosa corsa all'indietro.
Ora, il mio problema è: cosa dire di nuovo? Cosa andare
a raccontare ai ragazzi? Quale futuro? Come si educa alla libertà?
Che vuol dire responsabilità? Alla fine il punto è:
cosa racconto ai miei studenti, ai miei figli, quando provo
a immaginare un futuro? Che cosa intendiamo quando parliamo
di domani? Ce n'è abbastanza per macellare la speranza,
quella personcina esigua la cui aspettativa di vita è,
oggi, inesistente.
Poi succede che la figlia ventenne di un mio amico amatissimo
che se n'è andato da poco e che era un grandissimo pittore
mi chiede un consiglio su una lettera che lei e un suo compagno
hanno scritto all'assessore alla cultura. Con un piglio rabbioso
ma deciso, con parole dirette e senza nascondersi dietro una
retorica ormai inutile, nella lettera denunciano una situazione
culturale allo sfascio, una politica artistica insensata e ostaggio
delle esigenze di marketing e l'assenza assoluta di prospettive
promozionali. Succede che questa lettera, colma di ingenuità
ma appassionata e determinata, mi restituisca il pezzo che mi
mancava: l'idea che forse un futuro possa esserci. E succede
che mi metto ad adattare la lettera alla retorica dell'interazione
tra grandi, smussando gli angoli e adattando le asperità.
Poi faccio un passo indietro. Dieci passi indietro. E restituisco
la lettera com'è, dicendo ai ragazzi che il futuro è
loro e che non devono arrendersi. Noi siamo il passato. Occorre
rispetto per la rabbia dei giovani.
Succede anche che incontro in metrò un mio ex-studente.
I visi si dimenticano con facilità, le parole restano.
Il ragazzo mi riconosce e mi racconta di come abbia trovato
un lavoro e ne sia fiero: è una piccola cosa, ma è
quello per cui ha studiato e che ha intensamente voluto. Certo,
ha dovuto reagire ai primi fallimenti, incassare colpi pesanti.
Mi riconosce il merito improbabile di avergli insegnato, appunto,
che non ci si arrende. Non io, in realtà: la cultura,
quelle piccole pillole di resistenza quotidiana che innumerevoli
insegnanti infilano nella loro quotidianità.
Succede infine che l'uomo della mia vita torni a casa e mi racconti
di come l'autogestione nella scuola di cui è responsabile,
una struttura povera e disastrata, dimenticata dalle amministrazioni
pubbliche ma ben presente nel quartiere dissipato in cui è
incastonata, si sia trasformata in una entusiasmante jam session
multietnica di studenti e insegnanti: produzione artistica popolare
a improvvisazione libera, e una straordinaria carica di ottimismo.
La risata è sempre liberatoria. Anni fa, al funerale
del suo padre amatissimo, la mia amica Barbara ha letto un racconto
di Stefano Benni. Era una funzione laica e strapiena. Renzo
era molto amato, un po' come Carlo Oliva. Insomma, la mia amica,
ridendo e piangendo, ha letto il racconto di Benni, perchè
Renzo lo adorava. Lentamente e inesorabilmente, nel commiato
umido e piangente, si è insinuato il virus di una ilarità
irresistibile. Di una potenza devastante, uno tsunami capace
di restituire alla vita chi poi non se ne sarebbe mai andato.
Non so: credo che anche Renzo se la stesse ridendo, e fosse
del tutto consenziente a questo insolito rituale di lutto. In
seguito, quando l'assemblea si è progressivamente sciolta,
ancora tra lacrime ridacchianti, qualcuno ha salutato la famiglia
con un improbabile “alla prossima”: vagamente blasfemo,
ma esilarante.
Ecco. Perciò torno a dire. La morte merita rispetto,
e pertanto guai al politico che osa andare a commemorare un
suicidio del quale è responsabile per il fatto stesso
di essere un politico. La responsabilità si accetta,
non si espia cospargendosi inutilmente il capo di cenere. La
libertà è un dono, e consiste anche e primariamente
nella possibilità di mantenersi col proprio lavoro. È
molto semplice. Elementare. Perché certa gente non riesce
a capirlo?
Nicoletta Vallorani
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