rom/2
Cronache arbitrarie
di Francesca de Carolis
Guardandosi intorno, guardandosi dentro...
Quel trenino da Roma verso la periferia, le baracche distrutte, la festa degli zingari in Camargue, e poi....
Facendo il pendolare sul trenino
che dal centro di Roma porta verso la periferia, c'è
un punto sul quale sempre mi soffermo con lo sguardo. Un attimo
prima di arrivare al ponte sul fiume, lì dove, sulla
destra, una enorme baraccopoli confina con uno sfasciacarrozze
e non si capisce dove finisce l'una e dove comincia l'altro,
quello che è chiaro è che tutto quel mare di lamiere
sembra pronto ogni momento ad affogare nel fiume. E sulla sinistra,
dietro una rete di quelle modello pollaio (o forse è
l'illusione di un intreccio di rovi trasmutati in recinto),
c'è un campo di casupole e container, o qualcosa del
genere, più o meno disordinato, più o meno confuso
a seconda dei tempi e delle stagioni, comunque con la sua sbilenca
fila azzurrina di gabinetti chimici... insomma una specie di
campo attrezzato, come si dice. Magari tollerato, come si dice,
immaginavo, se una delle prime volte che l'avevo notato, qualche
anno fa, davanti ad una delle baracche una rosa era fiorita
su una pianta composta di un unico stelo. E ho pensato alla
mano che aveva avuto cura di piantarla accanto alla porta di
casa. I fiori si piantano quando si sa di poterne attendere
lo sviluppo, la crescita, le stagioni del suo fiorire. O almeno
lo si spera.
E prima e dopo quel tratto di strada, piccoli assembramenti
di illusioni di case compaiono e scompaiono tra i rovi. A seconda
dei tempi e delle stagioni.
Una mattina, che l'inverno non era ancora passato, un'intera
fila di quelle case era completamente rasa al suolo. Le pareti
squarciate, lamiere e legni e cartoni squassati, tetti schiacciati,
insomma, proprio come succede dopo il passaggio di una ruspa,
e qualcuno, qualche adulto, qualche bambino, ancora vi si aggirava
a rimestare...
Pensando alla semantica dei gesti e al Piano nomadi di Roma
che va avanti. Con episodi di grande violenza. Ricordo solo
quello denunciato dall'Associazione 21 luglio: lo sgombero dei
genitori della bambina di 14 mesi che nel febbraio scorso era
caduta nel Tevere ed è morta due giorni dopo in un ospedale.
E quei genitori rom, ricorda l'associazione, “nei giorni
successivi al decesso della bambina non hanno ricevuto alcuna
assistenza e alcun sostegno dal comune di Roma e solo con l'aiuto
di alcuni volontari dell'associazione stavano provvedendo alle
pratiche per il funerale e il rimpatrio della salma”.
Florin e Liliana, come in un copione che sempre si ripete, senza
preavviso hanno visto la loro casa abbattuta e sono stati costretti
ad allontanarsi in fretta con le loro cose, e i pochi ricordi
della bambina morta. Loro che pure, raccontano le cronache,
avevano donato gli organi della piccola, e per questo erano
stati proprio dal comune elogiati. E così, ci ricorda
l'Associazione 21 luglio, si è consumato il 510°
sgombero del Piano nomadi.
Un gesto di una violenza inaudita. Il cui significato, il cui
insegnamento, va ben oltre il momento di quell'atto.
|
Roma, 11 novembre 2009. Lo sgombero del campo nomadi Casilino
700 |
Aria stanca e un po' indifferente
Abbattere una casa, davanti agli occhi di chi vi abita. è
gesto che “educa” alla paura. Che educa a violenza
e inumanità del sentire, instillate nell'animo di noi
spettatori altri che queste scene abbiamo imparato a guardare
con indifferenza, quando non con compiacimento. Essendo noi,
abitanti di quest'altra riva, tutti buoni e puliti...
Non so se o a quale numero di sgombero risponda il risultato
dello spianare di ruspe che ho visto quella mattina... Comunque,
quella stessa mattina, sullo stesso tragitto, una ragazza è
salita sul vagone chiedendo soldi. Come accade da qualche tempo,
ultimamente saliva un ragazzo... Senza parlare ti lascia accanto,
sul seggiolino, sul bordo del finestrino, un biglietto con su
scritto: sono povero, ho due figli ecc... Distribuendone un
po' percorre tutto il vagone e poi ritorna e, sempre senza parlare,
raccoglie ciascun biglietto e, a volte, qualche soldo d'elemosina.
In genere si ha tutti l'aria stanca e un po' indifferente, fin
dal viaggio d'andata, su quel trenino di pendolari, ma quella
mattina il passaggio della ragazza (non importa chi fosse, se
rom, se rumena, se di altra terra dalle parti dell'Est...) ha
scatenato la polemica spietata e infastidita di due donne che,
si poteva ben immaginare, dividono con zingari e quant'altri
le paure e le miserie delle stesse periferie. Non la riporto.
Non era più inarticolata dell'argomentare di tanta nostra
gente che ci amministra. Né di tante persone, che pure
ho sentito, asserragliate in belle case che proprio di periferia
non sono.
Certo rubano. Riascoltando le parole di De André, nel
cd Ed avevamo gli occhi troppo belli..., De André
che dice, introducendo un suo concerto, “anche a me hanno
rubato”. E ci ricorda che gli zingari rubano solo oro
e non l'argento ad esempio, che lascia macchie scure, non porta
bene... e in effetti pensandoci, solo oro e un computer anche
a me hanno portato via...
Ma, sempre ci ricorda De André, c'è chi ci ruba
l'aria, riempendola di veleni, chi ci ruba il lavoro. C'è,
anche, chi ci ruba la vita sottraendo spazio che dovrebbe essere
pubblico, e negando lo spazio privato che serve ad accudirla,
la propria vita.
Certo la storia e le storie non sono per niente semplici. All'interno
delle varie comunità, in rapporti e dinamiche che non
ci appartengono, si consumano anche violenze. Ma questo non
sembra mai interessarci.
Eppure, eppure, sempre torna l'eco delle parole di De André:
“...dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono
i fior...” E a proposito di fiori nati fra il fango delle
periferie romane, dunque, sempre a proposito di rom, lessi un
libro un po' di tempo fa, che varrebbe la pena di andare a ritrovare.
Chejà chelen, ragazze che ballano, libro edito
da Sensibili alle foglie. Scritto da Vania Vancini, che zingara
non è, ma al mondo rom dedica la vita. E, fra parentesi,
mi piace ricordare che in qualche modo, a guardarla bene, qualcosa
della luce selvaggia dei figli del vento è trasmigrata
sul suo viso, gli occhi davvero troppo belli..., come capita
succeda, fra persone che si sono amate e accompagnate a lungo.
Vania Vancini si era occupata del progetto di scolarizzazione
dei minori rom con l'Arci solidarietà Lazio, e in questo
libro parla del loro mondo, come non è facile parlarne.
Senza ipocrisie e senza nasconderne le asperità, ma pure
con quella vera curiosità e quella passione dell'uomo
con cui si capisce ha inseguito e costruito il suo progetto
di vita. Convinta com'è, che ‘la verità
non è mai da una parte sola'. Vania con le ragazze rom
ha messo in piedi un corpo di ballo, le Chejà chelen
del titolo del libro. E di loro, soprattutto, ne ha affollato
le pagine. Rimangono nel cuore i racconti che, nelle interviste,
piccole e grandi donne rom fanno di sé. Una frase, di
A.H., che fa parte del gruppo di ballo e che ‘non è
mai stata da nessun'altra parte': “Ci piace ballare con
le amiche, sentiamo la musica, ci mettiamo i vestiti adatti...
sono colorati, me li ha fatti mamma, ha comprato la stoffa a
piazza Vittorio, luminosa, colorata, e li ha cuciti. Ci vogliono
vestiti eleganti, che si vedano di notte e che facciano rumore”.
Vestiti. Che si vedano di notte, e che facciano rumore... Chejà
Celen, rimane, ancora oggi, una bella guida per addentrarsi
nella periferia di Roma.
Ho accennato alle asperità di quel mondo che il libro
non nasconde. Ma, a fare un po' di attenzione, si tratta di
asperità e violenze che sono in qualche modo intrecciate
alle nostre. Viene in mente una delle tante pagine di brutta
cronaca. Fu sventata qualche anno fa sempre nella periferia
romana un'organizzazione che “forniva” bambini rom
a pedofili. Peccato, che i clienti eravamo noi... Fiori nel
fango, ancora, il nome dell'operazione di polizia.
Ancora un'immagine e una riflessione sulla semantica dei gesti.
Sulla spiaggia della Camargue
Sempre sullo stesso trenino che porta fuori Roma. Un pomeriggio
sale sul vagone una giovane donna. Forse trent'anni. Forse molti
di meno. Perché la vita, si sa, sul volto delle zingare,
lascia presto i suoi segni più profondi. Accanto ha il
suo bambino. Vivacissimo, con dei grandi occhi neri. Sconfinati,
mi sembrano, mentre mi guarda con aria monella. Ha una brutta
tosse. Ma si muove e saltella e si alza e si risiede con l'energia
curiosa dei bambini della sua età. Tre anni, mi dice
la madre. Che lo afferra, lo lascia, lo riacciuffa, lo bacia.
Ancora gli sfugge, lui mi sfiora. E, “non disturbare”
lo sgrida lei. Il bambino mi fissa. Un'ombra di paura, e poi
guardando la madre punta il dito verso di me: “Polizia?”
chiede. Tre anni e, mi chiedo, quali e quanti gli orchi delle
sue fiabe... “Polizia?” insiste. Quanti e quali
gesti lo hanno già educato alla paura.
Ancora.
Ripensando a un viaggio fin nel cuore della Camargue, fino a
Saintes Maries de la Mer, per il grande raduno della Festa degli
zingari. Un giorno di fine maggio di un anno che non ricordo
più. Tempo anche di furti e quant'altro, lessi in seguito
in un tuonante articolo su un giornale della zona, diventata
anche ben “attraente” con il suo turbinare di curiosi
e più o meno ricchi turisti. Ma molto più forte
è rimasto il ricordo dell'affollatissima festa delle
tre Marie degli zingari. Sara, Maria di Betania, Maria Salomè.
Che si narra fuggite dalla Terrasanta su una piccola barca,
che è poi approdata sulla spiaggia della Camargue dopo
un volo sul mare. Due Marie bianche e una, Sara, dalla
pelle nera. Tutte e tre veneratissime. Ma è Sara che
portano in processione ogni anno, a fine maggio, quando la primavera
già sfoca nell'estate, fino alla spiaggia, per bagnarla
con l'acqua del mare che a quella terra e agli zingari, insieme
alle altre, l'ha donata. Una cerimonia bellissima, come la leggenda
di quel volo sul mare ( e chi non desidera volare in barca sul
mondo?). Difficile dimenticarne gli echi, di preghiere, balli
e canti. Da quella riva. Lontanissima. Che ritorna qualche volta
alla mente, quando, al capolinea del sopracitato trenino che
mi porta al lavoro, assisto ad una scena che si ripete ogni
mattina. Ecco.
Arrivano con le prime corse. In gruppi di dieci, dodici, e anche
di più. Scendono dai vagoni lanciandosi fra loro poche
parole, che sembrano d'intesa. Più spesso in silenzio.
Gli occhi che frugano lontano. Magari, il sospetto è
forte, anche nel tempo. Ma chissà se sia il passato o
il futuro, quello che vedono. Gli uomini, vecchi e giovani,
quasi tutti dotati di stampella. Le loro donne, in genere sono
molte di più, tutte, vecchie e giovani, con i bambini.
Spinti in carrozzelle, tirati per mano, avvolti in pezze annodate,
a sacca, al collo. Ti aspetti che scompaiano subito nel fiume
dell'altra gente. Invece prima di puntare all'uscita della stazione
le donne si fermano. Come a un comando dell'anima, in un movimento
che è, vi assicuro, coreografia di passo di danza: tutte
insieme ruotano verso il muro, sul fondo della stazione, dove
c'è un'edicola della Madonna. Quella dei ferrovieri.
Mezzo giro di gonne, un inchino, il segno della croce e un bacio
mandato alla Madonna.
Con una preghiera, che si legge nell'aria. Per un istante sospese
nell'aria anche loro, quelle donne, con le gonne a un soffio
da terra, come ai tempi in cui avevano le ali. Sì, gli
zingari, l'ho letto da qualche parte, avevano le ali e per vivere
non dovevano mendicare e rubacchiare. Volavano, con gli altri
uccelli, e quel che mangiavano gli uccelli mangiavano anche
loro. Ma questo, oggi, non lo ricorda più nessuno. E
comunque l'idea di troppa libertà, sempre darebbe un
po' fastidio...
|
Roma,
11 novembre 2009.
Prima dello sgombero, il campo Casilino
700 ospitava circa 400 persone, tra cui circa 140 bambini |
La capacità di relazione
Più di un volta ho visto inchinarsi e segnarsi anche
qualche uomo. Prima di avviarsi al lavoro. Sì perché
penso proprio di lavoro, e ben faticoso, si tratti. Provando
a immedesimarsi un po': dopo essersi svegliati all'alba per
raggiungere dal fango delle periferie l'asfalto del centro,
stare ore ed ore su un marciapiede, al caldo o al freddo, immobili
o tremolando su stampelle. E se pure quello zoppicare fosse
finzione, proviamo a immedesimarci un po', nella fatica di tenere
per ore e ore una posizione innaturale e torta. E chiedere la
carità che è sempre un mortificarsi, ancora più
terribile quando non c'è la risposta nemmeno di uno sguardo.
Ed è fatica, questo umiliarsi, anche quando la vita indurisce
al punto da non saperlo più... A volte, penso, meriterebbero
uno stipendio.
Ecco, solo alcune immagini di cronache, lo ammetto, assolutamente
arbitrarie. Ma rimane, vero, il significato dei gesti. E ce
ne è uno che in particolare penso sempre vada fatto.
Il gesto dell'elemosina, per quanto (mi si passi la contraddizione)
vi sia “ideologicamente” contraria, perché
ritengo che la società che si fa Stato debba creare le
condizioni perché nessuno, per vivere, sia ridotto ad
affidarsi alla generosità dei singoli. Ma è
un gesto che ancora compio, perché è gesto che
apre alla relazione. E forse lo faccio anche per me. Perché
è la capacità di relazione, il mondo complesso
e pur contraddittorio che ne nasce, quello che ci fa umani.
Francesca de Carolis
Roma/Dopo
il fallimento dell'“emergenza nomadi”
Il Piano nomadi di Roma nasce dopo l'emanazione
del decreto che dichiarava lo stato d'emergenza in relazione
agli insediamenti di Campania, Lombardia e Lazio, che
seguì al rogo, nel maggio del 2008, dei campi rom
del quartiere Ponticelli a Napoli (una vicenda ancora
poco chiara. L'unica cosa su cui molti concordano è
che su quella zona si concentrasse un groviglio di
interessi per un terreno da rendere edificabile...). Lo
stato d'emergenza, previsto per un anno, fu poi prorogato
ed esteso a Piemonte e Veneto. In seguito ad un ricorso
presentato da European roma rights centre e da una famiglia
rom, una sentenza del consiglio di stato del novembre
2011 ha statuito l'illegittimità di quel decreto.
Contro questa sentenza il governo italiano ha presentato
ricorso presso la corte di cassazione, ricorso infine
nel maggio scorso rigettato dalla corte suprema.
Anche il governo italiano, impegnandosi ufficialmente in sede
europea per l'attuazione della “Strategia nazionale per
l'inclusione di rom, sinti e caminanti”, ha di fatto riconosciuto
il fallimento delle politiche emergenziali nei confronti delle
comunità romanì.
Nell'annunciare la chiusura dell'“emergenza nomadi”,
l'Associazione 21 luglio ha ricordato che per il Piano
nomadi a Roma sono stati spesi più di 62 milioni
di euro. Inoltre, se il piano prevedeva la chiusura di
101 insediamenti e la sistemazione di 6000 rom in 13 villaggi
attrezzati entro il 2011, a quasi quattro anni dall'avvio
del piano, i villaggi attrezzati sono otto, mentre gli
insediamenti a Roma si sono quintuplicati, diventati più
di 500 nonostante i 536 sgomberi forzati.
Altri dati: più di 4000 rom vivono nei “campi formali”
di Roma e Milano, campi attrezzati e autorizzati dalle autorità
(a questi si aggiungono i campi “tollerati” e gli
insediamenti abusivi). Eppure, secondo quanto denuncia una ricerca
del Centro europeo per i diritti dei rom condotta su
sei campi formali, molti problemi proprio da questi campi nascono.
Chi vi abita non ha contratto d'affitto, ma solo un verbale
di consegna che stabilisce condizioni ma non dice nulla sulla
durata della permanenza. I campi si trovano generalmente in
aree insalubri, isolate e segreganti. Estremamente difficile
l'accesso ai servizi sociali, la tutela della salute, l'accesso
all'istruzione. A Roma, ad esempio, a Camping River e Castel
Romano non sono disponibili bus scolastici, nonostante la fermata
di autobus più vicina disti rispettivamente a tre e a
quattro chilometri. I bambini rom che vi vivono soffrono per
le inadeguate condizioni abitative, per la mancanza di garanzia
del possesso dell'alloggio, per la paura degli sgomberi. La
condizione abitativa a cui si è costretti ha impatto
anche sulla salute mentale: uso di alcol, droghe e problemi
psicologici sono largamente diffusi nei campi osservati.
Secondo una ricerca condotta in Italia dall'Agenzia dei
diritti fondamentali dell'Unione Europea, il numero dei
rom che si dichiarano disoccupati è fino a quattro-cinque
volte superiore rispetto ai non rom. A Milano, ad esempio,
dei 112 rom adulti nel campo di Chiesa Rossa, solo sei
hanno un lavoro regolare. A Camping River, vicino Roma,
su 289 solo 20 hanno un lavoro. Rivelare la propria etnicità
è spesso ulteriore barriera all'impiego.
Ultima nota: rom, sinti e caminanti nella maggior parte
sono cittadini italiani. Nella quasi totalità non
sono nomadi. Le famiglie che ancora viaggiano in carovana
rappresentano solo il 2-3 per cento dei rom in Italia,
che in tutto sono 170-180mila.
FdC
Per
saperne di più
21luglio.org
errc.org |
|