Signora libertà signorina anarchia
Intervista a Paolo Finzi di Renzo Sabatini
Tra gli intervistati nel 2005 da una radio australiana su Fabrizio De André, c'era anche un redattore di questa rivista che in Australia ci andò due volte per parlare del cantautore genovese.
E spiegò perché non si può ignorare il fatto che Fabrizio
sia stato anche un anarchico, di notevole spessore, anche se a modo suo.
Anarchico, giornalista, redattore di “A”, rivista storica
dell'anarchismo italiano. Cosa significa essere anarchici nel
terzo millennio?
«Non è molto facile rispondere o forse è
facile, nel senso che essere anarchici nel 2000, come nel 1900,
significa avere determinate idee, un certo tipo di sensibilità
e la volontà di applicare queste idee, che sono quelle
storiche dell'anarchismo, che hanno ormai 150 anni e che sono
nate, non a caso, da un filone del movimento operaio e del movimento
socialista e quindi sono, se vogliamo usare una vecchia definizione,
delle idee di sinistra, se per sinistra si intende la sensibilità
di stare dalla parte del popolo, contro l'ingiustizia, eccetera.
Che senso ha essere anarchici oggi? Più che in positivo,
per le grandi realizzazioni fatte dagli anarchici in questo
periodo – perché in realtà non sono grandi
– una ragione per essere anarchici è il sostanziale
fallimento delle altre proposte e delle altre ideologie. Io
per adesso mi fermerei qui, sapendo di non aver risposto, ma
del resto è difficile rispondere perché il senso
di essere anarchici è in realtà legato alla propria
concezione dell'anarchismo e quindi bisognerebbe poi andare
a definire bene che cosa sia stato storicamente e che cosa sia
oggi l'anarchismo.»
Parlando di concezioni individuali dell'anarchismo, Fabrizio
De André per tutta la vita si è detto anarchico,
sostenendo però che non si trattava tanto di una posizione
politica quanto di una condizione dello spirito. Però
nella sua produzione artistica non ritroviamo riferimenti espliciti,
diretti, all'anarchia. Allora che tipo di anarchico era De André?
«Era un anarchico di tipo particolare, come sono in realtà
tutti gli anarchici. L'anarchismo è un elemento spesso
presente nel mondo artistico; l'amore per la libertà,
la simpatia per i diversi e per quelli un po' fuori dalle righe,
il rifiuto delle regole: sono componenti storicamente molto
presenti nel mondo degli artisti. Però queste componenti
non presuppongono una conoscenza specifica dell'anarchismo,
del movimento politico degli anarchici e spesso nemmeno una
lettura dei testi. È più semplicemente un modo
per definirsi.
Quello che mi preme qui sottolineare è che Fabrizio non
era un anarchico di questo tipo; non era un artista anarchicheggiante
perché particolarmente amante della libertà, in
questa accezione un po' provocatoria, un po' strana, che fa
anche “fino” in certi ambienti. Fabrizio aveva conosciuto
gli anarchici sia come persone che come idee. Il suo primo tramite
con l'anarchismo erano stati i dischi di George Brassens che
aveva portato suo padre da Parigi e che lui aveva ascoltato
da ragazzino. Brassens per un lungo periodo della sua vita si
era definito anarchico e aveva collaborato con la stampa anarchica
francese e così il primo tarlo dell'anarchia è
arrivato a Fabrizio da Brassens. Successivamente lui, che era
un grande intellettuale e un grande lettore, ha letto molti
libri sulla storia del movimento operaio, sull'anarchismo, sulla
storia della rivoluzione russa e di quella spagnola del 1936.
Quindi conosceva bene sia le idee che la storia di questo movimento
e la sua adesione all'anarchismo, seppure non portò mai
ad un'azione di tipo militante nel movimento, però lo
fece restare in contatto con gli anarchici, frequentare anarchici,
leggere la stampa anarchica, come dimostra del resto il rapporto
che ebbe con noi della redazione della rivista anarchica “A”.»
Se immaginiamo di leggere quelle canzoni per cercare in
quei versi l'anarchico De André, dove lo troviamo?
«Anche qui è opportuna una premessa. Le persone
dalla profonda cultura e dalla grande sensibilità e curiosità,
in una parola: gli intellettuali come Fabrizio De André,
non possono mai essere ridotti e catalogati con un semplice
aggettivo.
Detto in altre parole, le fonti di riferimento culturale di
queste persone non sono mai univoche e quindi l'anarchismo è
presente nella storia e nell'opera di Fabrizio insieme, a fianco,
mischiandosi con tutta un'altra serie di elementi. Per cui la
sua grande sensibilità, che è un po' la cifra
di tutto il suo lavoro, questa pietà e solidarietà
per i dannati della terra gli deriva certamente dal suo anarchismo
ma, a mio avviso, contemporaneamente anche da altri filoni culturali,
penso per esempio alla sua grande attenzione al pensiero religioso,
cristiano in particolare, ma non solo. Per cui, in realtà,
più che andare a cercare elementi specifici di anarchismo,
credo che nell'insieme si possa rispondere dicendo che la sua
eccezionale sensibilità umana e culturale verso le persone
più “sfortunate” contenga anche il suo anarchismo.
C'è da dire però che, avvicinandosi, mettendo
a fuoco l'argomento, viene fuori che in Fabrizio non c'è
solo la solidarietà, la pietà, la comprensione,
la capacità di mettersi nella pelle del transessuale
o del rom. C'è anche un passo successivo che è
specifico dell'anarchismo, anche se forse non solo dell'anarchismo:
il rifiuto, la rivolta, il contrasto contro queste situazioni.
Fabrizio non si limita a mettere in luce queste figure o questi
stati sociali, ma sembra indicare la via dell'affermazione concreta
e attiva della loro dignità, in contrasto con il potere.
E qui arriviamo forse al punto centrale di quello che si può
meglio riconoscere come l'anarchismo di Fabrizio. Un anarchismo,
è bene precisare, soffuso e diffuso nelle sue canzoni,
nel senso che non c'è nessuna sua canzone esplicitamente
dedicata alle idee anarchiche. Ma c'è questa sua critica
demistificatoria del potere, che è contenuta in decine
e decine di punti della sua opera poetica e che è in
piena sintonia con l'anarchismo.»
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Il Giornale di Napoli, martedì 24 settembre
1991 |
Un pensiero originale, la voce che conosciamo
De André si affianca in questo ad altri artisti
che sono stati e si sono dichiarati esplicitamente anarchici.
Tu hai già citato George Brassens, poi c'è Leo
Ferré e tanti altri. Fra gli anarchici italiani quanto
è conosciuto De André?
«Fabrizio è amatissimo dagli anarchici italiani
e ovviamente non solo dagli anarchici. Fin dagli anni sessanta,
in una intervista su una rivista musicale dell'epoca, Ciao 2001,
si era definito anarchico e quindi c'era stato subito un interesse.
Gli anarchici avevano subito colto, oltre al contenuto delle
canzoni, anche questa specificità. Ma la questione interessante
è che Fabrizio è stato amato non solo dagli anarchici
ma in genere dai giovani di tante generazioni. La guerra
di Piero, che è stata una canzone degli anni della
contestazione, del sessantotto italiano, viene cantata ancora
oggi nelle manifestazioni del movimento pacifista.
Quindi Fabrizio, con le sue canzoni, ha saputo interpretare
in maniera profonda le istanze non solo degli anarchici e neanche
solo della sinistra, intesa come movimenti politici. Perché
per esempio Fabrizio è una delle voci più amate
e più cantate anche nel mondo giovanile cattolico che
ha trovato nell'antibellicismo, nel rifiuto della guerra e anche
in altri temi di Fabrizio elementi importanti e condivisibili.
Una cosa importante (e qui andiamo forse al cuore del modo di
essere di Fabrizio) è che questa sua capacità
di influenzare, di essere presente, di condizionare la vita
delle persone, è legata alla capacità di unire
un pensiero assolutamente originale alla voce che conosciamo,
alla sensibilità poetica e a quella musicale. Insomma
in Fabrizio c'è qualcosa di magico nell'incontro fra
pensiero, poesia, musica, persino il modo di suonare la chitarra.
Questi elementi fanno di Fabrizio una persona che non viene
percepita come un propagandista. Queste sue poesie diventano
un veicolo per delle idee e delle sensibilità che riescono
a colpire nel profondo le persone.»
De André ha sempre avuto un suo pubblico importante,
era già molto famoso prima di morire. Ma perché
dopo la sua morte s'è scatenato questo fenomeno così
enorme di passione, mitizzazione, con libri, concerti, incontri,
seminari, festival, cover band, piazze, strade e scuole a lui
intitolate, centri di ricerca, fondazioni, tesi universitarie…
in Italia sono diventati tutti anarchici?
«No, non sono diventati tutti anarchici. Dovremmo partire
da una data, quella dell'11 gennaio 1999, quando muore Fabrizio.
Se andiamo a rileggere titoli e dichiarazioni sui giornali del
12 gennaio troviamo di tutto. È vero che ci fu un generale
riconoscimento dell'anarchismo di Fabrizio, però ci fu
al contempo un'operazione che non era studiata, non sto parlando
di una congiura, però si mise in moto un meccanismo che
volgeva alla sterilizzazione di questo anarchismo. Si descriveva
insomma Fabrizio come il cantore delle puttane, dei carcerati
e degli emarginati, però lasciando il tutto a un livello
piuttosto estetizzante.
Questo spiega come mai anche esponenti della destra come Gianfranco
Fini, solo per citarne uno, potessero riconoscersi nel dolore
generale del popolo italiano per la morte di Fabrizio. Insomma
c'era una grande ipocrisia e una grande superficialità.
In tutta questa attività messa in campo per ricordare
la sua figura va ricordato che Fabrizio (questo è solo
un aspetto, ma è importante sottolinearlo) è uno
che “vende”, cioè quando si pubblica qualcosa
che lo riguarda si ottiene anche un certo successo in termini
economici. Questo spiega, in parte, perché si sia scatenato
intorno a lui un certo interesse.
Evidentemente, però, il fenomeno che tu sottolineavi
è molto più grande e secondo me, nella sua parte
più positiva, che è quella prevalente, è
legato alla scoperta o alla riscoperta della profondità
del messaggio di Fabrizio. Quindi credo che il merito sia sostanzialmente
suo. Già in vita lui era considerato una sorta di senatore
della musica italiana e, in effetti, se si prende in considerazione
la profondità, la densità anche culturale del
lavoro di Fabrizio, bisogna dire che non ha pari nel lavoro
degli altri cantanti e cantautori italiani. In genere cerco
di evitare la mitizzazione del personaggio però non è
nemmeno giusto non riconoscere come Fabrizio abbia avuto questa
capacità di affrontare in maniera davvero eccezionale
le tematiche più profonde che riguardano l'uomo, come
l'amore e la morte.
Basti osservare come, a distanza di otto anni dalla morte, si
continuino ad organizzare convegni e a scrivere saggi nei quali
troviamo riletture, approfondimenti, scoperte, analisi sempre
nuove. Cioè il pensiero di Fabrizio è un pozzo
senza fine dal quale si continua ad attingere e c'è ancora
moltissimo da studiare e da scoprire. Spesso anche su un solo
verso di una sua canzone si potrebbe scrivere un saggio. Questo
perché lui aveva anche una grandissima capacità
di controllo delle parole, che usava in maniera assolutamente
appropriata e profonda.
Quindi le quasi duecento canzoni che ha scritto Fabrizio constituiscono
un corpus culturale senza pari nel mondo della musica italiana.
In effetti, a mio avviso, Fabrizio oltre che come cantante,
deve essere visto come una fonte di riflessione. Io sostengo
che Fabrizio sia anzitutto un intellettuale e questo forse può
aiutarci a capire la sensibilità del suo studio, del
suo lavoro, la sensibilità che metteva nel suo affrontare
i problemi del mondo.»
Un propagandista dell'anarchismo
Dando uno sguardo al movimento anarchico italiano tu
pensi che Fabrizio abbia contribuito in qualche misura a ingrossarne
le fila?
«Certamente sì. Per parlare dell'oggi, ho appena
ricevuto in redazione la lettera di una ragazzina di Nuoro che
ci chiede di ricevere una copia della rivista, ringraziandoci
al contempo di tutto quello che abbiamo fatto per ricordare
Fabrizio. Ecco un caso di una giovane che si è avvicinata
alla nostra rivista attraverso la passione per Fabrizio. Ci
sono tante persone che sono arrivate a conoscere, ad apprezzare,
in qualche caso anche ad aderire all'anarchismo tramite il collegamento
che Fabrizio permetteva, dichiarandosi anarchico. Questo collegamento
consentiva alla gente di riflettere sul fatto che, se Fabrizio
faceva delle belle canzoni e allo stesso tempo diceva quelle
cose e dichiarava di essere anarchico, allora forse gli anarchici
erano qualcosa di interessante da conoscere. Io ho conosciuto
tantissime persone che, tramite Fabrizio, sono arrivate all'anarchismo.
Quello che, però, mi sembra più interessante e
da sottolineare è come, tramite Fabrizio, un grandissimo
numero di persone, anche senza aderire al movimento, abbia comunque
conosciuto l'anarchismo tirandolo fuori dal pozzo di negatività
in cui in genere giace, come sinonimo di terrorismo, superficialità,
cosa piccolo-borghese e quant'altro, e abbia saputo posizionarlo
nello spazio che gli compete, che è quello di un movimento
di idee e di persone, un movimento storico, con una sua dignità.
In questo senso Fabrizio ha certamente contribuito in maniera
forte e, anzi, io ho anche sostenuto che Fabrizio è stato
uno dei più grossi propagandisti dell'anarchismo, utilizzando
questa espressione un po' ottocentesca.
In realtà era lungi da lui il ruolo del propagandista,
legato al movimento politico. Però, proprio per questo,
in realtà, sul piano culturale, ha contribuito molto
a sdoganare l'anarchismo, presentandolo come una cosa positiva,
da conoscere e con la quale confrontarsi.»
Pur non essendo un militante De André, come hai
raccontato tu stesso, ogni tanto metteva discretamente mano
al portafoglio per aiutare la vostra rivista o altre realtà
anarchiche. Come avvenivano queste donazioni?
«Anche qui vorrei fare una piccola premessa di carattere
generale: Fabrizio era persona generosa, anche, ma non solo,
sul piano economico. Spesso gruppi e gruppetti, fautori magari
di piccole iniziative, andavano a “battere cassa”,
come del resto si usava spesso negli anni settanta e ottanta
con i cantanti politicamente connotati. Fabrizio ha sempre dato
il suo contributo e, per quanto ne so io, l'ha fatto sempre
con modestia e forse si incazzerebbe anche sapendo che ne parlo,
perché lui non faceva questo per la maggior gloria ma
lo faceva perché gli piaceva sostenere determinate iniziative.
In questo contesto uno spazio, forse prioritario, l'hanno avuto
gli anarchici e, in particolare, la stampa anarchica. Per cui
lui, ogni tanto, ci chiamava, ci facevamo una bella chiacchierata
e, alla fine, ci dava qualche assegno. Noi della rivista “A”,
comunque, abbiamo una pagina, che si chiama: “I nostri
fondi neri”, dove elenchiamo ogni mese le donazioni ricevute
e in questa pagina appariva il milione di lire che ci dava Fabrizio
accanto alle cinquemila lire che ci dava magari il vecchio contadino
pugliese anarchico; questo non perché ce lo chiedesse
Fabrizio ma perché ha sempre fatto parte di una politica
di trasparenza della rivista rispetto ai sottoscrittori.
Un discorso a parte meritano invece i due concerti che fece
a Carrara negli anni ottanta e a Napoli all'inizio degli anni
novanta, specificamente a sostegno della stampa anarchica. In
questi casi si è trattato di una posizione pubblica.
Queste cose Fabrizio le ha fatte e ci ha sempre sostenuti. Certo,
ogni tanto scompariva, anche per lunghi periodi, perché
questa era un po' la sua personalità, in questo forse
accomunato ad altri artisti. Ma in linea generale è stata
una presenza costante di sostegno per noi.
Fabrizio poi frequentava molti anarchici, aveva molti amici
e collaboratori anarchici. Per esempio l'allora suo tecnico
delle luci, Pepi Morgia, che adesso è una delle figure
principali nella realizzazioni di concerti in Italia1
è un anarchico proveniente da una famiglia con tradizioni
anarchiche.»
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Dori Ghezzi e Fabrizio De André ad una cena
di sottoscrizione per la rivista anarchica “A”, nella Trattoria Della Torre, a Milano negli anni '80 |
Il suo anarchismo, molto diverso dal nostro
Se non ti spiace vorrei provare a fare un salto indietro
nel tempo: molti anni fai strappasti un appuntamento a Fabrizio
De André. Tu eri un ragazzo e lui era già un mito.
Poi hai scritto che il risultato di quell'incontro fu che ne
uscisti con un mito in meno e un amico in più. Ci puoi
dare un ricordo di quel tuo primo incontro con il cantautore
genovese?
«Be', diciamo che ognuno di noi ha passato un qualche
momento della vita di cui si sente particolarmente fiero ed
orgoglioso. Anche se ormai sono nell'età avanzata in
cui i ricordi si affievoliscono, quell'incontro con Fabrizio
per me è uno dei ricordi destinati a rimanere. Forse
sarà l'ultimo che dimenticherò, perché
per me è stato così significativo. In realtà
noi, come redazione della rivista anarchica, cercavamo da tempo
un incontro con Fabrizio – sto parlando del 1973 o 1974
– perché lui era già molto famoso e si definiva
anarchico, quindi ci interessava contattarlo e non solo per
fini economici, anche se l'idea di fondo era comunque quella
di contattare i vari cantanti e cantautori che esprimevano simpatia
o vicinanza per cercare di organizzare concerti a nostro sostegno.
Ovviamente il personaggio noi lo conoscevamo solo sul piano
pubblico e non su quello privato.
Non era facile fissare un appuntamento con Fabrizio che, per
motivi comprensibili, creava attorno a sé delle barriere
che gli erano necessarie per sopravvivere. Poi lui stava anche
attraversando una fase travagliata della sua vita. Comunque
alla fine riuscimmo, tramite amicizie, a ottenere questo appuntamento
in un albergo di Milano e salimmo in tre compagni della rivista
in questa stanza, dove Fabrizio ci accolse dando l'impressione
immediata di una persona timidissima.
Ci sedemmo al tavolo e lui era imbarazzatissimo. Così
lasciai perdere il registratore che avevo preparato e l'intervista
che avevo in mente e cominciammo invece a parlare (lui ci chiese
della nostra rivista) e l'impressione umana fu ottima, nel senso
che Fabrizio era molto disponibile e, come dicono i ragazzi
oggi, non se la tirava assolutamente, anzi aveva lui quasi un
atteggiamento di ammirazione nei nostri confronti; sembrava
quasi che fosse più lui un nostro fan, per via del lavoro
che facevamo, piuttosto che il contrario. Fabrizio quel giorno
parlò a lungo di anarchia e colsi subito che ne aveva
una conoscenza profonda e aveva letto tutti i libri che allora
i militanti anarchici leggevano (perché era l'epoca in
cui ancora si aderiva a un movimento solo dopo attente letture).
Fabrizio conosceva le cose, conosceva alcune persone della federazione
anarchica di Genova che conoscevo anch'io, e c'era soprattutto
una buona conoscenza storica. Insomma, ci piacque.
Lui quel giorno spiegò il suo anarchismo, il suo modo
di essere anarchico. Non ricordo con esattezza le parole ma
si trattava di un anarchismo molto diverso dal nostro, nel senso
che il nostro era l'anarchismo dei militanti politici mentre
il suo era un anarchismo che si collocava più fra l'individuale
e il sociale, con questa sua forte attenzione per gli ultimi,
gli emarginati, le puttane, gli zingari, ecc, attenzione che
lui collocava nel solco dell'anarchismo. In realtà, come
ho avuto modo anche di scrivere, pur restando un militante politico
dell'anarchia, col tempo mi sono avvicinato a quelle posizioni
perché ho capito che il suo approccio all'anarchismo
era molto interessante. Ho capito che quell'approccio non era
solo legato alla sua personalità, ma che aveva una forte
attenzione all'etica, che è quella che veramente fa la
differenza, a mio parere, fra l'anarchismo e altri movimenti
politici.
Il mio ricordo è, insomma, quello di una persona che
subito ci parve profonda, interessante. Io, in particolare,
mantenni i rapporti con Fabrizio e ci rivedemmo spesso dopo
quel primo incontro ed è per quello che, descrivendo
quell'incontro, ho detto che lì nacque l'amicizia e scomparve
il mito. Scomparve il mito perché conobbi Fabrizio come
uomo e chiaramente anche lui, come tutti gli esseri umani, era
uno con pregi e difetti e quindi, frequentandolo, è stato
possibile per me vederlo su un piano profondamente umano. Però
vorrei anche aggiungere che l'amicizia con Fabrizio, per certi
aspetti, è sempre stata un po' strana. Perché
quando lo andavo a trovare e si faceva una chiacchierata parlando
non solo di politica (perché con Fabrizio si parlava
veramente di tutto), poi, magari, tornando a casa in macchina,
mi capitava di mettere la cassetta con le sue canzoni e allora
sentivo la stessa voce con cui avevo chiacchierato fino a pochi
minuti prima e che ora cantava La guerra di Piero. In
questi momenti, in qualche modo, il mito ripartiva.
Quindi, anche se con Fabrizio c'è stata un'amicizia profondamente
umana, la sua componente artistica è sempre stata un
convitato di pietra, in qualche modo sempre presente. Forse
questo proprio per il fascino di quella voce, che a volte facevo
fatica a identificare con la persona fisica che avevo davanti.
Quindi in qualche modo il mito è scomparso ma è
anche rimasto sempre.»
Nel corso di questa vostra frequentazione, a tratti anche
molto intensa, vi è mai capitato di progettare assieme
delle cose che riguardassero la vostra comune appartenenza anarchica?
«È difficile rispondere perché Fabrizio
aveva davvero una personalità molto singolare. Per farti
un esempio concreto, quando stava scrivendo le canzoni delle
Nuvole, mi telefonò per dirmi che stava lavorando
a un disco anarchico. Io che, probabilmente, sul piano artistico,
sono piuttosto limitato, pensai ingenuamente che fosse un disco
dove ci fosse in maniera esplicita il riferimento all'anarchia
o magari che ci potesse stare dentro qualche canto tradizionale
degli anarchici come Addio Lugano bella. Invece nulla
di tutto questo. Però, in realtà, se si vanno
a vedere i testi di quelle canzoni, si possono fare delle analisi
profonde e viene fuori l'anarchismo, il rifiuto della società
e del potere.
Cito questo esempio perché in Fabrizio la sua attività
anarchica coincideva sostanzialmente con la sua produzione musicale,
dove ha riversato tutto quello che aveva dentro, compreso il
suo anarchismo. Del resto nel rapporto con Fabrizio non c'era
una distinzione fra l'ideologico e il personale. Lui era così
sia come artista che come uomo e del resto così dovrebbe
essere l'anarchismo che, ancor più e ancor prima di essere
una scelta politica, dovrebbe essere, alla base, una scelta
di tipo esistenziale, quindi accompagnata da coerenti comportamenti
personali.
Comunque la risposta alla domanda è no, nel senso che
non abbiamo mai progettato di fare un convegno o una pubblicazione.
Io veramente cercai anche di coinvolgerlo in alcune cose. Per
esempio quando morì Brassens lo chiamai in Sardegna per
chiedergli di scrivere un articolo per la rivista. Sarebbe stata
una cosa culturalmente grossa per noi, un vero scoop. Ma lì
agirono altri meccanismi, lui mi disse che non se la sentiva
perché era troppo emotivamente coinvolto. In realtà
era difficile coinvolgere Fabrizio su cose pratiche, perché
aveva una sua vita per certi aspetti un po' stramba e la sua
notevolissima attività intellettuale e artistica. Poi
a volte scompariva, magari stava con Mauro Pagani in mezzo al
Mediterraneo e ricompariva improvvisamente e si faceva vivo
con delle idee nuove. Insomma una persona che ti segna la storia.»
Fabrizio, un patrimonio (ma non economico)
Dopo la morte di De André la tua rivista ha pubblicato
un dossier, poi un cd, poi dei dvd. Tutti prodotti molto curati
anche nella veste grafica. Forse qualcuno vi ha anche accusato
di voler cavalcare l'onda dell'emozione. Perché tutti
questi prodotti su De André? Motivi di mercato o volevate
rimarcare la sua appartenenza anarchica?
«Noi volevamo rivendicare la sua appartenenza anarchica
e mostrare la sua dimensione intellettuale. È vero che
qualcuno ci ha accusato di aver cavalcato l'onda dell'emozione.
Sono critiche anche legittime considerando che esisteva e tuttora
esiste questo fenomeno generale per cui Fabrizio “vende”.
Ma la nostra scelta, chi ci conosce bene lo sa, è nata
con un spirito completamente diverso. Il fatto che noi, seppure
rimanendo assolutamente indipendenti, abbiamo sempre collaborato
con la Fondazione De André e con il suo presidente Dori
Ghezzi, con cui permane una profonda amicizia che dura ormai
da oltre trent'anni, testimonia della nostra credibilità,
perché Dori è molto attenta. Credo che anche i
prodotti stessi siano testimonianza della nostra onestà
intellettuale. Il dossier che pubblicammo non era che la riproposizione
di articoli pubblicati nel marzo 1999, nel primo numero della
rivista successivo alla morte di Fabrizio.
Quella fu anche la prima volta in cui noi dedicammo una copertina
a un personaggio che non fosse un pensatore anarchico tipo Malatesta
o Bakunin e persino questo suscitò dei malumori da parte
di qualcuno che ci accusò di coltivare il culto della
personalità. In realtà non si trattava di culto
ma io, sostenitore di questa linea, colsi subito che Fabrizio
era un patrimonio, ma non in senso economico.
Fabrizio era una persona che avrebbe continuato a segnare il
tempo successivo alla sua scomparsa e rivendicare il suo collegamento
con l'anarchismo non voleva avere un valore passatista ma serviva
a tenere aperto il collegamento fra quelle idee, quelle canzoni
e il nostro movimento. Solo in questo senso è stata un'operazione
studiata, sentita con il cuore ma anche pensata.
Il cd che abbiamo fatto in seguito è stato un nostro
grande successo, ha venduto ventimila copie, ma tutti i soldi
che abbiamo guadagnato vendendo i prodotti su Fabrizio li abbiamo
tutti reinvestiti in nuovi progetti, l'ultimo dei quali, uscito
circa un anno fa, è un doppio dvd con libretto sullo
sterminio nazista degli zingari. Un lavoro che abbiamo dedicato
a Fabrizio che agli zingari aveva, a sua volta, dedicato Khorakané,
una canzone di eccezionale valore non solo artistico ma proprio
culturale. L'argomento era particolarmente caro a Fabrizio e,
anche qui, si capisce che occuparsi di zingari con un prodotto
anche costoso, chiaramente non è una scelta di mercato
ma è una scelta culturale. Quindi è chiaro che
a noi in questa operazione non premeva guadagnare ma, all'interno
della memoria che questo Paese ha di Fabrizio, presidiare la
componente libertaria e anarchica.
Non è un caso che il dvd: Ma la divisa di un altro
colore, che abbiamo pubblicato nel 2003, proprio all'inizio
della guerra in Iraq e che ha un titolo antimilitarista ispirato
alla Guerra di Piero, fu realizzato in collaborazione
con Emergency, cui veniva destinato il 50 per cento dei ricavi.
Anche in questo caso non si trattava solo di una operazione
politica di sostegno, perché nel libretto che accompagna
il dvd c'erano le testimonianze di Teresa Sarti e Gino Strada,
i fondatori di Emergency, che ricordavano il loro incontro con
Fabrizio a metà degli anni novanta, i contributi economici
che Fabrizio aveva dato a sostegno di Emergency2,
e quindi tutto si legava. Insomma noi abbiamo sempre cercato
di lavorare in sintonia con quello che, a nostro avviso, era
veramente Fabrizio, per tenerlo vivo nella battaglia attuale,
in questo caso la battaglia contro la guerra in Iraq e contro
tutte le guerre, finanziando contemporaneamente il centro chirurgico
di Emergency in Sierra Leone.
Nell'insieme io sono molto fiero dei prodotti che abbiamo pubblicato,
perché sono convinto che abbiamo fatto delle cose belle,
non tanto sul piano estetico quanto sul piano sostanziale. Scomodo
per una volta una formula che in genere rifiuto per dire che
credo che a Fabrizio, conoscendolo, queste cose sarebbero piaciute.»
Hai scritto che il pensiero anarchico di De André
era un impasto originale di vari elementi e che nel vostro primo
incontro ti sembrò che alcune supposizioni fossero bizzarre
o ingenue ma che, però, nel corso degli anni, il vostro
percorso di anarchici è andato avvicinandosi fino a che,
come ci hai detto poco fa, sulla questione zingara, con Khorakané,
vi siete ritrovati pienamente. Ma com'era questo pensiero anarchico
originale di De André? Come si sposava con altre correnti
dell'anarchismo?
«Come avevo accennato prima Fabrizio enfatizzava molto
questo suo interesse per gli emarginati. All'epoca del nostro
primo incontro noi eravamo impegnati in maniera più politica,
come giovani anarchici, in campagne contro le stragi di stato,
per l'antifascismo militante, eccetera.
Esagerando potremmo dire che eravamo inseriti nel movimento
generale dell'estrema sinistra di allora. In molti di noi c'era
una minore attenzione verso quegli aspetti che erano cari a
Fabrizio, che pure facevano capo a un filone storico dell'anarchismo,
cosiddetto “individualista”, che era un filone che
non rifiutava la lotta sociale ma guardava soprattutto alle
questioni legate alla vita degli individui. È un filone
che sottolineava il rifiuto del potere come rifiuto dell'obbedienza,
quindi enfatizzando più il concetto della rivolta che
quello della rivoluzione. Si tratta di un filone di pensiero
che a livello internazionale ha avuto esponenenti importanti,
come ad esempio Albert Camus in Francia. Fabrizio conosceva
bene questo filone, aveva letto libri come L'iniziazione
individualista anarchica di Émile Armand, e il suo
anarchismo era più orientato su questo versante individualistico
che su quello social-socialista che invece ci caratterizzava.
In questo senso lo sviluppo poi generale della storia, per esempio
il discorso del '77 sul personale e il politico, è sembrato
ai miei occhi non dico di dare ragione del tutto, ma sicuramente
sottolineare la validità dell'approccio di Fabrizio,
che in qualche misura aveva precorso i tempi. Per esempio all'epoca
una delle lotte degli anarchici era quella per l'astensionismo.
Fabrizio era meno interessato a queste cose, era molto più
eclettico. Quindi nell'approccio c'erano delle differenze. Però
in realtà sui temi profondi dell'anarchismo ci siamo
ritrovati. Lui ha continuato a seguire con attenzione il nostro
lavoro e a leggere le nostre pubblicazioni, su cui spesso ci
dava il suo parere, anche molto critico.»
Religiosità laica
Un aspetto che ha suscitato spesso delle perplessità
è questo contrasto fra il De André anarchico e
quello attento alle tematiche religiose, specie l'attenzione
alla figura di Gesù che lui ha descritto come una sorta
di anarchico ante litteram. Tu hai parlato di “religiosità
anarchica” di De André e del resto un prete cattolico
come don Gallo ama definirsi “angelicamente anarchico”.
Sbrogliamo un po' questa matassa: come si incontrano il De André
anarchico e quello della Buona novella?
«In realtà si incontrano facilmente. Vorrei qui
fare un salto indietro sul piano storico: se andiamo all'ottocento,
alla nascita del movimento socialista e anarchico, troviamo
molti libri, opuscoli e altro materiale che parla di un Gesù
anarchico o socialista; un Gesù usato come arma anticlericale
e addirittura, a volte, antireligiosa. D'altra parte l'operazione
che farà poi Fabrizio con la buona novella sarà
quella di una umanizzazione di Gesù, letto tramite i
Vangeli apocrifi e non tramite quelli ufficiali. In realtà
con queste operazioni Fabrizio è in assoluta continuità
con un filone, carsico e minoritario, ma presente nella sinistra
italiana, che è quello del: “riappropriamoci di
Gesù”, anche in chiave anti vaticana. L'operazione
di Fabrizio è però assolutamente sincera e nasce
da profonde conoscenze e convinzioni. Tanto è sincera,
sentita e profonda, quanto non è capita dai movimenti
della contestazione di allora.
Io sono convinto comunque che in molti casi le ragioni di fondo
dell'adesione a movimenti molto diversi fra loro, come possono
essere l'anarchismo e il cattolicesimo, possono essere ragioni
che si incontrano, perché riguardano spesso, in entrambi
i casi, il desiderio di migliorare il mondo. Anche fra coloro
che aderiscono all'anarchismo, che è un movimento politico
tradizionalmente ateo, anticlericale e laico, c'è sempre
stata una piccola componente di anarchici cristiani, non solo
tollerati ma anche apprezzati. Ci sono stati del resto anche
anarchici ebrei e ho conosciuto persino un'anarchica islamica.
Si tratta di persone che hanno dovuto fare i conti con le loro
contraddizioni, come del resto dobbiamo fare tutti nella vita.
Fabrizio ha fatto sempre i conti con questa doppia appartenenza,
che forse nel suo caso era anche una appartenenza multipla per
via della complessità della sua personalità. Fabrizio
era sicuramente anarchico per delle ragioni di fondo che lui
ritrovava però anche nel pensiero religioso. Io ho parlato
di “religiosità laica” di Fabrizio, perché
sostengo che in genere si usa il termine religioso per definire
anche le persone che si occupano di determinati argomenti, perché
determinati argomenti, come la vita, la morte, l'esistenza,
sembrano essere attinenti solo alla sfera religiosa. Ma questo
non è vero perché anche l'anarchismo e probabilmente
anche altre teorie del pensiero, nella loro dimensione più
profonda, nella loro valenza etica, che sono la vera cifra di
lettura di questi filoni del pensiero, si occupano, in maniera
laica, di queste tematiche, che quindi non sono patrimonio esclusivo
della religione.
Fabrizio è tutto dentro a questo contrasto. Lui è
quello che, anche rispetto all'idea di Dio, in alcuni versi
esprime pensieri molto vicini all'ateismo anarchico e in altri
sembra essere persona profondamente religiosa. Forse è
difficile dipanare questa matassa ma si può cercare di
comprenderla: quando uno va a toccare i tasti veri e profondi
della vita, quelli che fanno sì che la filosofia greca
di migliaia di anni fa o il pensiero buddista, anche nell'era
tecnologica, ci parlino ancora di cose attuali, evidentemente
le etichette non bastano. Non basta la definizione di cristiano
né quella di anarchico e le due cose possono, magari
parzialmente, sovrapporsi.»
Sulle orme di Fabrizio. In Australia
Sei venuto in Australia nel 2004 proprio per parlare
di De André. Che ricordo hai di quell'esperienza?
«È
stata un'esperienza veramente eccezionale, anche per la dimensione
turistica, perché era una prima volta. Ma restando a
De André ho avuto la possibilità di parlarne in
tre città importanti, con conferenze negli istituti italiani
di cultura di Melbourne e Sydney e presso l'istituto Dante Alighieri
di Brisbane. Ho avuto incontri con la stampa, interviste radiofoniche
e persino due incontri con gli studenti alle università
di Melbourne e Sydney, dove c'erano insegnanti che si occupano
di De André nei loro corsi di lingua e cultura italiana.
È stato eccezionale scoprire che anche dall'altra parte
del mondo Fabrizio era riuscito in qualche maniera ad essere
presente, a influenzare, con vari filoni perché, se da
una parte ho incontrato i nostri emigrati liguri, che legano
il loro amore per Fabrizio al fatto che fosse genovese, dall'altra
ho conosciuto studenti australiani che hanno scritto delle tesi
su particolari aspetti della poetica di Fabrizio. Un dato molto
significativo è che dopo il mio rientro in Italia si
è anche cercato di stabilire dei rapporti fra le università
australiane e quella di Siena, presso la quale si trova il centro
studi su De André. Prima mi chiedevi come mai in Italia
ci sia un tale fiorire di iniziative su Fabrizio. Io potrei
girare la domanda chiedendo come mai in Australia, paese dove
non ha mai messo piede, nel 2004, cinque anni dopo la sua scomparsa,
si trovavano tracce vive di Fabrizio, che oltretutto non ha
mai cantato in inglese.»
A questa osservazione potrei rispondere che la poetica
di Fabrizio De André, come dimostra questa piccola trasmissione,
che va avanti da molti mesi, ha una valenza veramente universale.
Vorrei aggiungere anche che il filo rosso di quelle “tracce”
di cui parlavi non si è ancora interrotto anzi, ci sono
artisti locali che stanno cominciando a inserire canzoni di
De André nei loro concerti e aumentano gli studenti e
i docenti interessati. Nel 2005 la Fondazione De André
ha fatto una generosa donazione di libri e materiali sonori
al dipartimento di italianistica della Monash University di
Melbourne, quella dove tu hai tenuto la tua “lectio magistralis”
su De André. Quindi le cose stanno procedendo con molta
intensità e si arriverà prima o poi a organizzare
qualche concerto interamente dedicato a Fabrizio3.
Tornando a noi, nel lungo percorso di questa trasmissione
abbiamo intervistato tanta gente che in qualche modo poteva
sentirsi rappresentata nella poetica deandreiana: la prostituta,
il transessuale, l'omosessuale, il detenuto, il rom, l'ex tossicodipendente,
e così via. Volevamo indagare su quanto De André
avesse colto nel segno parlando di queste persone. Questa domanda
potrebbe anche sembrare provocatoria: ti sei sentito anche tu
in qualche modo rappresentato o ti senti piuttosto un osservatore?
«Io sono un osservatore. Vengo da una famiglia milanese
della sinistra ebraica e antifascista che non ha nulla a che
vedere, in prima battuta, con il mondo del lumpenproletariat
descritto da Fabrizio. Quindi sarebbe un'ipocrisia non riconoscere
questa mia provenienza di classe, questa mia storia personale
che, d'altronde, è molto simile a quella di Fabrizio,
che non veniva certo dal mondo del sottoproletariato ma da una
famiglia al confine fra la borghesia e l'aristocrazia genovese.
Quindi non mi sento rappresentato, dal punto di vista sociologico,
nel mondo descritto da Fabrizio, che è un mondo al quale
io guardo con grande attenzione, sensibilità e passione
ma pur sempre dall'esterno.
Quello che Fabrizio aveva era non solo la capacità di
rappresentare, con le sue canzoni, queste persone. Ma anche,
proprio grazie a questa sua sensibilità individuale,
a questo suo anarchismo individualistico, la capacità
di entrare sotto la pelle di queste persone. Lui, attraverso
quelle canzoni, diventava veramente uno di loro. Quando Giorgio
Bezzecchi, presidente dell'Opera nomadi, nel filmato Faber4
dichiara che Fabrizio era un rom a tutti gli effetti, riconosce
che lui non era solo un amico ma che era diventato proprio uno
di loro. Cioè Bezzecchi aveva capito che Fabrizio, nel
periodo in cui aveva scritto Khorakané si era
immedesimato fino al punto da diventare, in qualche modo, uno
di loro. E questo non solo perché è stato probabilmente
l'unico cantante al mondo che si è sognato di comporre
un testo e farlo tradurre nella lingua dei rom (e teniamo presente
che il 99 per cento delle persone, cantanti inclusi, non sa
nemmeno che esiste una lingua dei rom). Ma anche perché
si capiva che non si trattava di una operazione superficiale
di tipo culturale. Si capiva che era una cosa che gli veniva
spontaneamente, da dentro, che lo portava a entrare sotto la
pelle dei suoi personaggi.
Quando canta delle prostitute, quando canta di Marinella, Fabrizio
è Marinella, è la prostituta. Lo è nel
senso che riesce a identificarsi, secondo due aspetti. Il primo
è l'aspetto politico-culturale che lo portava sempre
a stare dalla parte dei perdenti: zingari, tossici, suicidi.
L'altro aspetto è quello di documentarsi a fondo. Proprio
parlando di rom, quando ha deciso di scrivere Khorakané
Fabrizio è andato alla libreria anarchica di Milano e
ha chiesto tutti i testi disponibili sull'argomento. Non ha
preso solo quelli che c'erano in quel momento in negozio ma
ha chiesto di fare una ricerca accurata e di poterli avere tutti.
Poi ha voluto conoscere Bezzecchi, non solo per farsi tradurre
una poesia ma proprio per avviare una conoscenza con i rom.
Insomma in Fabrizio, e qui voglio ribadire questa sua eccezionale
dimensione intellettuale, non c'era solo la sensibilità
di stare da una certa parte ma anche la voglia di capire veramente,
di documentarsi. La stessa cosa avvenne quando parlò
degli indigeni americani. Anche lì si era documentato,
aveva studiato e incontrato. Quindi in Fabrizio c'era un abbinamento
forte di colore, sensibilità e cervello, cultura. Questo
ha permesso a Fabrizio di rappresentare con tanta precisione
queste figure.
E io lo sento come un compagno di strada che avrebbe potuto
fare la sua vita andando in giro su uno yacht e invece si è
occupato di rivendicare la dignità di queste persone.»
Né padre Pio né immaginetta sacra
Chiudiamo questa intervista con una tua ultima riflessione:
c'è qualche canzone, poesia, verso di De André
che secondo te rappresenta meglio di qualunque altra l'anarchismo
o comunque la sua visione anarchica?
«Io continuo ad ascoltare le sue canzoni, in maniera quasi
monomaniacale. Quando ho bisogno di pensare, quando devo scrivere,
ascolto le sue canzoni, sento la sua voce e invece di continuare
a fare quello che sto facendo mi fermo a pensare, a riflettere
su un verso sul quale magari ho già riflettuto mille
altre volte. Una sorta di espressione finale sul mio rapporto
con Fabrizio potrebbe essere questa: io sono largamente e sinceramente
contrario ad ogni forma di mitizzazione però (invecchiando
divento sempre più sincero), pur riconoscendo che siamo
tutti uguali, devo dire che esistono alcune persone che, più
di altre, nella poesia, nell'arte, nella vita quotidiana, sono
qualche passo avanti a noi.
Secondo me Fabrizio era molti passi avanti a noi. Io ho avuto
la possibilità di conoscerlo e questo mi ha dato tanto
di più. Ma credo che, anche chi non l'ha conosciuto,
possa capire questo. Del resto conosco tante persone che non
l'hanno conosciuto personalmente eppure hanno questo rapporto
individuale, profondo e inestricabile con Fabrizio. Quindi,
non voglio mitizzarlo, ma penso che ci si possa riferire a lui
come a un pozzo o uno scrigno da cui attingere. Vorrei aggiungere
che, in alcuni momenti difficili della mia vita, Fabrizio, senza
con questo volerlo trasformare in un padre Pio o in un'immaginetta
sacra, mi ha aiutato a riflettere. Fabrizio aiuta a fare delle
scelte perché resta una buona sponda con cui dialogare.»
Renzo Sabatini
Note
- Pepi Morgia, nato a Genova nel 1950, regista e tecnico delle
luci di tutte le tournée di Fabrizio De André
e di molti altri cantanti italiani, fondatore a Genova del Teatro
della Tosse, è deceduto nel settembre 2011.
- Associazione nata nel 1994 con l'obiettivo di assistere
dal punto di vista medico le vittime dei conflitti armati.
Per approfondimenti si può consultare il sito: emergency.it.
- Cosa poi avvenuta grazie all'impegno di Danilo Sidari, un
ligure che vive a Sydney ed è riuscito a mettere assieme
un gruppo di artisti e mettere in scena due concerti di successo,
a Sydney e Melbourne.
- Di Romano Giuffrida e Bruno Bigoni, 1999.
In
direzione ostinata e contraria
Con
questa intervista, prosegue la pubblicazione su “A”
di una parte significativa delle 27 interviste radiofoniche
realizzate da Renzo Sabatini e andate
in onda in Australia nel programma “In direzione
ostinata e contraria” sulle frequenze di Rete Italia
fra il maggio 2007 e l’agosto 2008. In tutto si
è trattato di sessanta puntate (ciascuna della
durata di circa quaranta minuti, per un totale di quasi
40 ore di trasmissioni), nel corso delle quali sono state
trasmesse le 27 interviste e messe in onda tutte le canzoni
di Fabrizio De André. Si tratta dunque della più
lunga e dettagliata serie radiofonica mai dedicata al
cantautore genovese.
Se proponiamo questi testi,
è innanzitutto per dare ancora una vlta spazio
e voce a quelle tematiche e a quelle persone che di spazio
e voce ne hanno poco o niente nella “cultura”
ufficiale. E che invece anche grazie all’opera del
cantautore genovese sono state sottratte dal dimenticatoio
e poste alla base di una riflessione critica sul mondo
e sulla società, con quello sguardo profondo e
illuminante che Fabrizio ha voluto e saputo avere. Con
una profonda sensibilità libertaria e – scusate
la rima – sempre in direzione ostinata e contraria.
Precedenti interviste
pubblicate: a Piero
Milesi (“A” 370, aprile 2012), a Carla
Corso (“A” 371, maggio 2012), Porpora
Marcasciano (“A” 372, maggio 2012), Franco
Grillini (“A” 373, estate 2012), Massimo
(“A” 374, ottobre 2012), Santino
“Alexian” Spinelli (“A” 375,
novembre 2012)); Paolo
Solari (“A” 376, dicembre-gennaio 2012-2013);
Gianni Mungiello,
Armando Xifai, Alfredo Franchini (“A”
377, febbraio 2013); Giulio
Marcon e Gianni Novelli (“A” 378, marzo
2013); Sandro
Fresi e Paola Giua (“A” 379, aprile 2013);
Luca Nulchis
(“A” 380, maggio 2013); don
Andrea Gallo (“A“ 381, giugno 2013).
la redazione di “A” |
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