pedagogia libertaria
Incidentalità/progetto
reportage di Giulio Spiazzi
Autenticità, reciproco rispetto e competenza nel rapporto educativo. Alcune note e alcuni confronti su un tema spinoso e poco compreso dell'educazione libertaria.
Per me, il principio primo dell'anarchismo non è la
libertà ma l'autonomia, la capacità di darsi un
obiettivo e perseguirlo lungo un proprio cammino... La debolezza
del «mio» anarchismo è che la brama di libertà
è un forte motivo di cambiamento politico, e l'autonomia
no. Gli individui autonomi si proteggono ostinatamente ma con
mezzi meno energici, facendo anche largo uso della resistenza
passiva. La cosa che vogliono la fanno comunque. Il pathos degli
individui oppressi, tuttavia, è che, se si liberano dalle
catene, non sanno cosa fare. Non essendo stati autonomi, non
sanno cosa significa, e prima che imparino, si ritrovano nuovi
amministratori che non hanno alcuna fretta di abdicare...
Paul Goodman
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Kether - Saper scalare un albero, ovvero saper entrare incidentalmente
in dialogo con una realtà sociale autoeducante |
“Cavarsela da soli”. Sembra strano ma, quest'arte
naturale di sopravvivenza e di equilibrio sociale, è
stata dimenticata da gran parte della giovane popolazione
di studenti dell'Italia attuale. Questo processo graduale, incisivo,
il più delle volte viscerale, di smarrimento,
riguarda i rapporti che si sono solidificati (processo inverso,
corrosivo, di dipendenza) nelle strutture della micro-famiglia
dei giorni nostri, nelle realtà sintetiche di
bambini/e e ragazzi/e che “formano gruppi di aggregazione”
artificiali, nella paradossale, assurda, istituzione
della cosiddetta scuola contemporanea.
Non è un caso, che nelle piccole realtà libertarie
della Penisola, arrivino sempre più bambini/e e ragazzi/e
che rifiutano radicalmente il rapporto con gli adulti e, in
specie con gli inoculatori di parole ed azioni preposti
all' “insegnamento”, lontani da ciò che reputano
essere la percezione prima del loro “ fresco senso della
vita”. La domanda più frequente che affiora dalle
giovani labbra è: “perché tutte quelle ore,
in quelle aule, su quei banchi, ad ascoltare parole e a scrivere
cose noiose?”, oppure: “ma... a cosa serve
imparare tutto questo?”. Minati alla radice del loro immaginario,
molti di essi vivono in una condizione di profondo spaesamento
l'Unheimlich del colonizzato e non certo quello della
“scelta”, ove anche i riti sorgivi e intimamente
autentici del gioco, hanno ormai (e si parla di giovane o giovanissima
età) assunto il tono della copia, della replica male
imitata, non costruita, di difficile rielaborazione creativa.
Se si annienta il gioco, come si può chiedere
di affrontare la vita, esponendo la propria irriducibile particolarità
all'evento?
Dunque, questo moto obbligatorio, ormai incosciente ed
accettato, del portare la “cultura elementare”,
del “dare conoscenza dei fatti accaduti (le materie
ad esempio) o “praticabili”, (le scienze,
per di più considerate esatte)”, del promuovere
schematicamente il “passaggio all'astrazione”, per
trasformare in fondo il tutto in “cultura”, e in
specie patrimonio del sapere europeo e/o occidentale,
guarda o non guarda il bambino/a, il ragazzo/a, il giovane/la
giovane? E se lo fa, da quale angolatura indirizza la propria
attenzione? Da quella della libertà dell'individuo?
Dalla coltura della sua autonomia? Oppure da quella di
qualche altro “terreno ben arato” (“volto
al futuro” o semplicemente “subito nel presente”),
in realtà non “altro”, nel senso dell'incontro
e del riconoscimento, che poco contempla le radicali e differenziate
interpretazioni del mondo del giovane che inizia una vita?
A cosa effettivamente servono, come sostengono i bambini/e
rigettati/e o in fuga dalle istituzioni di tutti i tipi, (o
semplicemente, il ragazzo/a “che chiede”), questi
meravigliosi capolavori di tessitura, questi arazzi
di dominio filati nel corso degli anni da mani/macchine
che propongono democraticamente o con metodi totalitari,
il “cittadino”, “l'uomo nuovo”
(dopo due guerre mondiali, … ad esser corretti: 'un po'
obsoleto'...), lo specialista di settore, il consumatore
di massa, il tecnico esecutore ecc. ecc.? Come potrà
mai rispondere un giovane o giovanissimo, a quella che percepisce
chiaramente essere una minaccia alla propria libera espressione
“mente-corpo-creatività illimitata”, perpetrata
da un enorme Golem di menzogne e inutilità, devoto allo
spegnimento dell'interesse, della curiosità, dell'errore
come ineguagliabile pratica di conoscenza per la propria esistenza?
Quali percorsi non-adulto-centrici di risposta potrà
mai praticare un individuo, nel verde dei suoi anni,
avviluppato nei legacci di una “non-scelta” che
pretende sudditanza, non-pensiero, inazione, e, ancora una volta,
frena il divertimento e allontana il gioco della vita?
Perché nella tetra “fortezza d'Occidente”
si è così “razionalmente” e
“responsabilmente” lentamente ed oggi, perentoriamente
ordinato che, non s'“impari ad imparare”?
Che cosa “serve” effettivamente ad un ragazzo/a
che si apre al cosmo del suo quotidiano, nella delicata
opera di organizzazione autonoma del proprio “sapere”
di pratica e di studio?
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Afghanistan, Taloqan - Il nostro nonno ciabattino e l'apprendimento incidentale del bazaar |
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Afghanistan, Piana del Takhar - La strada si fa maestra di occasioni. I piccoli venditori di dolci |
Noor, bambino afghano
Noor Makhmud ha sette anni, vive nella provincia nord orientale
dell'Afg2hanistan, al centro della piana del Takhar. Nella città
di Taloqan aiuta il nonno ciabattino nell'attività di
riparazione di sandali e di scarpe. È un lavoro che lo
impegna “a tutto tondo”, anche perché prevede
una costante abilità nel rintracciare nuovi potenziali
clienti, disposti a recarsi dall'abile anziano ottuagenario,
nel caotico e affollato mercato del capoluogo.
Per avvicinare Tajiki, Uzbeki, Hazara e Pashtun, è necessario
aver imparato tutto quello che c'è da sapere su queste
imprevedibili e incostanti tribù montanare. Riconoscere
un uomo da un abito di foggia particolare è un'azione
etnografica di un certo rispetto, ma, indovinare con precisione
un soggetto culturale differenziato dal tipo di calzatura indossata,
è una concretizzazione conoscitiva di percorso, riservata
solo a chi desidera ed aspira ad imparare, un
mestiere. Per arrivare a questo, il giovane Makhmud è
passato attraverso il “praticantato di strada” del
fratello maggiore Wajid che, con pazienza e caparbietà,
gli ha riferito per filo e per segno come si deve osservare
uno dei tanti “stranieri interni” del variegato
mosaico umano dell'Afghanistan. Ridendo Makhmud racconta che
Hazara e Uzbeki hanno piedi piccoli e quadrati e che a volte
non è facile distinguerli e riconoscerli dal viso, avendo
tutti e due lineamenti orientali ma, che “da come poggiano
i piedi per terra, … non ci si può sbagliare”.
“Gli Hazara poi, hanno bisogno di calzature molto robuste,
a differenza degli Uzbeki, perché, pur essendo entrambi
grandi camminatori, gli Hazara hanno piedi più compatti,
piatti, potenti, in grado di consumare sandali da mulattiera
e frantumare scarpe poco protette”. Wajid che ha dodici
anni, racconta di come sia importante “aiutare il fratello
minore” nel farsi sicuro in quest'arte della distinzione.
“La sera, dopo il mercato” aggiunge, “ci raccogliamo
sotto l'arco di un piccolo portico per raccontarci le cose accadute
durante la giornata. Con noi c'è un'altra decina di ragazzi
che alla spicciolata arrivano da varie parti del quartiere.
Io e Makhmud, siamo fortunati. I nostri genitori sono
morti durante la guerra ed il nonno non vuole sentire parlare
di farsi aiutare per sistemare le sue faccende domestiche.”
“Così io posso ascoltare” sorride
Makhmud e carpire “i segreti che Wajid e i suoi amici
più grandi conoscono, dopo anni di attività”.
Molto seriamente sostiene che non è ancora in grado di
distinguere se un piede “appartiene ad un Pashtun del
Sud o a uno di frontiera” ma, assicura, che nel giro di
un paio di anni capirà esattamente tutte “le indicazioni
e i dettagli che suo fratello maggiore gli sta illustrando con
estrema pazienza da molto tempo”. E il particolare non
è da poco.
Un abitante afghano d'oltre montagna (leggi: confine), è
più facile da “conquistare”, rispetto ad
un Patano di Kandahar ed inoltre, assicura un pagamento immediato
e corposo. “E...la scuola e... le lingue per poter spiegarsi
con gente così poco affine culturalmente? Il tagiko è
ben diverso dal pashtun!” Wajid e Makhmud, ridono a crepapelle:
“Vorrai dire il Dari e l'Urdu, vero? … S'imparano
sulla strada, nel mercato. Lì puoi iniziare a
parlare anche l'uzbeko, il dialetto kirghiso, il cinese degli
Uiguri e... conosciamo anche la lingua degli Sciuravì:
nogha-piede; obùvnoì-scarpa...,
ce la hanno insegnata altri ragazzi del mestiere, più
grandi di noi, che lavoravano al mercato quando c'erano i Russi...non
si sa mai che...ritornino a cambiarsi gli stivali...”
“Questo è quello che ci piace e ci interessa
e che ci fa vivere”. Per scrivere e leggere poi,
c'è sempre il nonno che ci aiuta quando gli chiediamo
di farlo”.
“Nostro cugino va a scuola ma, lì vogliono farti
pensare in Arabo e a noi non va bene, è pericoloso, ti
può far cambiare la testa e... non serve a quello
che ci piace fare e che ci dà il nan, il pane.
E poi, ...gli Arabi vanno a cavallo... ”
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Afghanistan - Generazione della speranza. Giovani e adulti in stretto contatto autoformativo |
A Kether, nessuna maggioranza
Sul pavimento della “stanza dei computer”, nella
Piccola Scuola Libertaria Kether di Verona, H. si rotola lentamente
osservando a tratti il soffitto e saltuariamente gli affaccendati
ragazzi delle medie, intenti a sfogliare i fascicoli di una
vetusta enciclopedia ad immagini, per giovani studenti di un
tempo. I fascicoli colorati di rosso e le stampe variopinte
di “Conoscere”, non attraggono particolarmente H.
(a differenza dei suoi voraci “colleghi di lavoro”),
come pure e tanto meno, gli accompagnamenti di materia, tarati
per la sua fascia d'età ed abbandonati sul piano di una
sedia. Ad H. piace librarsi nei cieli dei suoi mondi
fantastici, percorsi da vuoti d'aria e da repentine brezze primaverili
provenienti, in simbiosi, dal bosco circostante. Osserva le
volute di una pesante mosca nera che visita l'ambiente con traiettorie
irregolari, per poi imitare con le dita sollevate, i tracciati
geometrici scomposti, dell'insetto. H. non dipende da nessuno,
se non da se stesso. Per mesi è stato “messo alle
corde” in concitate assemblee di bambini/e-ragazzi/e-accompagnat/ori/rici
che ne volevano l'allontanamento momentaneo o drasticamente,
l'espulsione, a causa delle sue marcate provocazioni, vere e
proprie violenze ai danni di persone e cose, “capricci
e opposizioni”. Ma a Kether non vige il metodo della “maggioranza”
e, il raggiungimento fondamentale dell'“unanimità”
in decisioni lente e faticose, ha permesso fino ad ora ad H.
di “darsi del tempo”, per imparare a convivere
“a modo suo” e a partecipare ad un percorso
individuale e comune di quotidiana, serena frequentazione. Dunque
H. vaga libero nel suo scorrere dei giorni, nel suo
spazio fisico e immaginifico osservando tutto e tutti, al
più passivo, non agente, in una simulata dimensione
di dimenticanza dell'altro, quasi abitasse una tregua
ipnotica necessaria a capire se stesso e il contesto
in cui si vuol calare ma di cui non riesce ancora appieno
ad apprenderne le indicazioni, per poter forgiare i propri
utili strumenti di rapporto e di rispetto. Considerando
come si è presentato a settembre, comunque H. ha impercettibilmente
imparato da L. e da G. a non scontrarsi fisicamente
per ogni situazione di contrasto nel gioco e nello studio. Egli
ha costruito invisibilmente con F. e con N. un parametro di
relazione per quel che concerne la “costruzione di un
ambiente ludico” come la “base”, il
“mercatino” nel bosco o più semplicemente,
ha stabilito la propria posizione nella ritualità
della partita di calcio sul prato, alternando momenti come operatore
attivo del gioco o come spettatore delle dinamiche
di attacco e difesa, quando il confronto si fa più deciso.
H., all'inizio, aveva una particolarità tutta speciale
da spendere, per cercare di ricevere una propria visibilità
speculare all'interno di un gruppo: quella di fungere da
capro espiatorio. Quando indirizzava le sue risposte
violente a qualcosa o a qualcuno di mirato (facendo così
intendere che a tutti gli effetti vedeva “l'altro”),
si assumeva quasi con consapevole indifferenza la patente
di colpevole. Quando non era realisticamente l'artefice
di qualche azione che infrangeva le regole auto-stabilite in
assemblea, costruiva una sorta di immagine catalizzatrice
che permetteva agli altri di indicarlo come responsabile, anche
se in effetti non aveva agito né svolto alcunché
di contrario alle suaccennate decisioni collettive. Dopo mesi
di sfuggente scambio di informazioni sociali non verbali, dopo
numerosi passaggi d'esempio e d'esperienza tra bambini/e, ragazzi/e,
raccolti sul terreno del loro sentire e del loro agire
come micro-comunità in grado di auto-produrre vita,
gioco, interesse alle cose del mondo, H., pur rimanendo
a tratti ancora “H.”, si sta auto-educando
alla relazione non conflittuale con chi compone attualmente
il cammino libertario di Kether. H. sostiene che a lui “serve”
stare con gli altri, provare cose che non siano solo i giochi
elettronici (pur andandone pazzo), sentirsi coinvolto nelle
situazioni ludiche, senza dover essere sempre “il primo
attore”, anche se è difficile riconoscere questo.
A tratti e subitaneamente, dichiara di essere stato abituato
a “primeggiare”, anche solo per il fatto di passare
ore e ore senza un coetaneo o con adulti seri e/o “eccessivi”.
H. è sensibile al contatto fisico rassicurante, si “scioglie”
quando un amico o una compagna lo abbraccia con affetto e lo
“smonta” pezzo dopo pezzo della sua corazza d'irascibilità
e frustrazione scomposta. Ed H. impara, perché vuole
imparare, ma non dai libri, né dagli accompagnamenti
di materia o di studio scolastico.
H. frequenta un percorso di auto-apprendimento dell'essere umano
con l'essere umano, e non può né vuole “vedere”
un traguardo d'esame che sancisca una sua presunta “idoneità
alla classe successiva”. Che senso può avere
per H. una simile astrazione lontana, rispetto ad una lenta
conquista del suo stare nel gioco ed imparare
ad imparare relazioni di vita? H. in questi giorni passa
alcune ore su un albero. È diventato uno dei maestri
d'arrampicata, grazie alle sue forti doti di equilibrio
fisico, coraggio e disponibilità allo scambio di tecniche
di salita. Aiuta “piccoli” e “grandi”
in quest'arte antica e dimenticata attraverso la sua profonda
generosità. Tutto ciò lo fa star bene e
già molti lo vivono con più accettazione ed iniziano
a stimare i suoi aspetti socializzanti emergenti. Forse quella
mosca che gira vorticando nella stanza, gli sta insegnando
parametri ignoti sul come scalare meglio la cima di un albero.
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Kether - Esperimenti e autodidattica. Alcune calamite, molta passione e qualsiasi orizzonte della fisica ci appartiene |
Con serenità e caparbia
A questo punto, ci si potrà dunque chiedere, che cosa
possa legare dei bambini nati e vissuti in Asia Centrale con
un ragazzo in crescita nell'Europa Occidentale. Quale “flutto
di contatto” (considerando l'educazione un “divenire”
simile all'acqua che scorre in ogni dove di un fiume), possa
mai esserci tra l'auto-formarsi sulla base della propria gioiosa
volontà di sopravvivenza, in una strada afghana, e la
ricerca graduale e a volte sofferta, di un'accettazione in un
gruppo (che diventa un prototipo di società italiana),
sulla base di un'auto-correzione volta allo sviluppo di una
partecipazione? Una possibile risposta, tra altre, potrebbe
ben essere, la possibilità di esercitare pratiche
di educazione incidentale, coscienti o al più delle
volte inconsapevoli, ove il giovane viene coinvolto dalla
vita, non tanto per raggiungere un obiettivo di sapere astratto
e codificato ma, per imparare, nell'assunzione della
propria autonoma volontà d'intervento, nella costanza
dell'inevitabile prova di rispetto reciproco, nella stretta
frequentazione, nell'autenticità di relazione,
le estensioni intensive (i qualia dunque e
non solo i quanta) di rapporto con l'altro, ovvero
quell'aspetto fluido, impalpabile di crescita sociale, che i
ragazzi/e molte volte sintetizzano, chiaramente (per chi vuole
intendere), con il verbo, non a caso al presente e in
terza persona: “serve”.
Come sosteneva Paul Goodman, per chi non lo avesse momentaneamente
presente, ricordo brevemente chi fosse questo “maestro”
di Ivan Illich [Paul Goodman nasce il 9 settembre 1911 a New
York (nel Greenwich Village), da famiglia ebraica. Compiuti
gli studi superiori, si laurea al City College di New York nel
1931, seguendo poi corsi alla Columbia, a Harvard e all'università
di Chicago, dove ottiene il dottorato nel 1954. Nel 1939-40
è già assistente all'università di Chicago,
incarico che perde quasi immediatamente a causa della sua condotta
apertamente omosessuale. Si definiva “uomo di lettere”,
dunque era anche un poeta, un drammaturgo, un romanziere e un
acuto critico, e pure un pensatore educativo, uno psicoterapista
e un anarchico e per me, senz'altro un filosofo da annoverare
nel limbo del pensiero contemporaneo, se non altro per la sua
capacità di creare o rifondare a modo proprio, concetti],
ebbene, si diceva, “fino ad un'epoca assai recente,
in tutte le società, sia primitive che altamente civilizzate,
gran parte dell'educazione era incidentale. Gli adulti svolgevano
il loro lavoro e assolvevano gli altri compiti sociali. I bambini
non erano esclusi. I grandi prestavano loro attenzione e li
preparavano alla vita futura; ma non si impartiva loro un <<insegnamento>>
vero e proprio. Nella maggioranza delle istituzioni e delle
società, l'educazione incidentale è stata presa
per scontata. Essa ha luogo nel lavoro della comunità,
negli organismi di apprendistato, nelle gare, nei giochi, nelle
iniziazioni sessuali e nei riti religiosi.”
Se accompagnato con serenità e caparbia, nelle piccole
realtà libertarie educative già operanti in vari
contesti nazionali, questo processo incidentale si adatta alla
natura dell'apprendere, meglio del cosiddetto insegnamento diretto.
“Il giovane sperimenta cause ed effetti, invece che
esercizi pedagogici. La realtà è sovente complessa
ma, ogni giovane può coglierla a modo suo, nel suo momento,
secondo i suoi interessi e la sua iniziativa. Inoltre, cosa
ancora più importante, può imitare, identificarsi,
essere approvato o disapprovato, cooperare o competere senza
soffrire dell'ansia causata dall'essere il centro dell'attenzione.”
Come dunque la “strada”, meglio ancora la “strada
che cresce” o una piccola comunità d'intesa educativa
aperta all'imprevedibilità della vita, possono
essere un “paradigma sbocciato” di una ricerca educativa
incidentale, così per Goodman, l'archetipo realizzato
di questa fattiva possibilità incidentale è “il
bambino che impara a parlare, impresa intellettuale formidabile
che si attua universalmente. Non sappiamo come avvenga, ma le
condizioni principali sembrano essere quelle di cui parlavo
prima: l'attività procede ad implicare il parlare. L'infante
partecipa: gli adulti fanno attenzione a lui e gli parlano;
egli gioca liberamente con i suoi suoni; e infine, è
vantaggioso per lui [come dicono i bambini/e, ragazzi/e:
“serve”] farsi comprendere”.
“Lo scopo della pedagogia elementare è molto modesto:
un bambino piccolo deve essere in grado, per spinta propria,
di interessarsi curiosamente a tutto quanto avviene e, con l'osservazione,
le domande e l'imitazione pratica, trarre qualche insegnamento
da questo suo curiosare intorno. Nella nostra società
ciò succede a casa, fino ai quattro anni; ma dopo, diventa
di una difficoltà proibitiva.”
Ed è proprio da questa “difficoltà proibitiva”
di cui parla lucidamente Goodman, da questa “distorsione
immobilizzante”, che ripropone l'“angoscia dell'imparare”,
dalla corretta percezione dell' “insensatezza per ciò
che comunque si deve fare ma che non ‘serve'”
del bambino/a, del preadolescente e dell'adolescente che ricerca
una visione accettabile del proprio impegno scolastico, che
si crea la “dimensione di azione” nel qui ed
ora, di una prospettiva libertaria che vuole la pratica
negli interstizi del fare attuale, lontana dai terreni anestetizzati
dell'aspettare futuro. L'implicare come dice bene
Goodman, ci riporta correttamente al concetto di plier, “piega”,
il fulcro d'ellissi situato nella parte concava della curva
di inflessione che è la condizione nella quale appare
al soggetto la verità di una variazione. Il bambino/a,
il ragazzo/a, in una situazione di libertà ed autonomia
pressoché assoluta, vive costantemente nell'ambiente
inattaccabile dalle logiche adulte, di quei ripiegamenti interiori
che permettono la rappresentazione del mondo e i ripiegamenti
esteriori della materia (l'albero, la buca, i materiali “vivi”,
la corteccia, il colore, l'acqua, il fango, la neve ecc. nel
loro “ripiegarsi cavernoso”).
Come l'infante di Goodman, in cui si esercita la fattiva
possibilità incidentale dell'imparare a parlare,
il puro Evento, della linea o del punto, il Virtuale o l'idealità
per eccellenza che si fa attuale nel gioco di auto-crescita
è il mondo, o piuttosto il suo cominciamento, come diceva
Klee, è il “luogo della cosmogenesi”, “punto
non-dimensionale”, “tra le dimensioni” del
giovane che impara ad imparare. È dunque l'incidentalità
il punto di crisi che fa dell'apprendimento la “possibilità
d'oltre orizzonte” dello studente che auto-impara. L'educazione
incidentale, vista dunque nell'ambito di una geometria della
relazione umana, porta nel proprio tratto agente l'evento
della vita, la linea di crescita, il punto di
comprensione acquisibile, scaturente dal contatto di esperienza
diretta con il concreto “altro”, con la frequentazione
spontanea e naturale del o dei soggetti “immersi e operanti
nelle realtà delle cose”, che creano la condizione
“fonte” il luogo-gioco di inflessione, il fulcro
laddove la tangente attraversa la curva come il punto-piega,
il punto elastico che segna la genesi delle linee attive e spontanee,
il continuum di variazione invisibile e costante di un
imparare da sé partecipante, nella propria autonomia
d'esposizione. Per dirla con Gilles Deleuze, oltre le lande
dello Strutturalismo, il bambino/a, il ragazzo/a, che cresce
nella incidentalità conoscitiva del proprio percorso
di vita, che è e che incessantemente (in senso eracliteo)
diviene opera di sensazione esso stesso, nella pratica
libera dell'approccio alle cose del mondo, “crea”
in sé e con sé una «modulazione temporale
che implica una variazione continua della materia e uno sviluppo
continuo della forma».
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Kether - Alcune pietre, bastoncini e il racconto materico di una situazione, ricreano la casa perduta di C. |
Nel rispetto della relazione educativa
Conseguente ad una pratica coerente quotidiana e di lungo periodo,
relata all'educazione incidentale, sta la mediazione (adulto/non
adulto) che si potrebbe instaurare tra un accompagnatore preparato,
consapevole ed auto-disciplinato (dunque con alle spalle una
propria, appassionata auto-formazione meglio se poliedrica e
“vissuta”, tenuta in paradossale fecondante, tensione-elastica
non-impositiva, con il gruppo di lavoro collettivo) e i/le
giovani frequentanti le realtà educative libertarie.
Il rapporto dialogico tra le componenti differenziate
coinvolte nel progetto di crescita comune, coinvolge tutte le
figure (dunque accompagnatori e studenti posti su un piano di
parità) negli aspetti decisionali di gestione, anche
fisica della “scuola” (pulizie, raccolta di legna
per la stufa durante il periodo invernale, pasti, scelta delle
materie, frequentazione di corsi specifici, giochi, discussione
sui programmi didattici da presentare agli esami e così
via) e viene concepito e praticato direttamente in assemblea.
Ma è sul “nodo delle competenze” che spesso,
chi opera in questo campo, glissa istintivamente il confronto,
quasi fosse questo, un vero e proprio “campo minato”
per l'educatore-accompagnatore. E così in effetti è.
Summerhill, con la sua lunga esperienza, nella nostra contemporaneità,
ci ha insegnato che esiste un percorso delicato, spinoso e al
contempo irrinunciabile, di strenuo contatto tra la salvaguardia
della dimensione esistenziale e di auto-apprendimento di valori
del giovane e le conoscenze culturali necessarie per
potersi collocare con altrettanta necessaria consapevolezza
e, io direi, soddisfazione nel mondo. Questo vasto fiume
del fluire educativo o meglio, auto-educativo, ci permette di
cogliere l'immagine di due sponde, due “argini”
se vogliamo, che per essere frequentati, entrambi abbisognano
di un “bridge”, un “ponte” abbastanza
solido da permettere uno scambio costante tra il momento
relazionale e quello dell'istruzione (chiamiamola
così per intenderci su un termine sibillino, che ha albergato
e ancora oggi è ben presente, nel “modo statico”
di concepire la “massa delle conoscenze”, “da
portare”).
Questo “passaggio assiduo a doppio senso di marcia”,
osservato in modo simbolico attraverso l'immagine, appunto di
un ponte, a mio avviso si chiama: equilibrio. Nell'arte
reiterata del rispetto della relazione educativa, si dovrebbe
con perseveranza e in contemporaneità, “far schiudere”
in modo armonico ed organico il proprio bagaglio d'esperienza
fecondante, con l'apporto culturale delle conoscenze, e l'apprendimento
dei saperi indispensabili e di base, insomma, utilizzando tutti
quegli strumenti coerenti, alchemicamente mescolati nella condizione
di un “incontro inaspettato”, atti a poter iniziare
ad affrontare il mondo degli uomini e delle cose.
Francesco Codello, che qui cito, di buon grado, per la sua insostituibile
dedizione allo sviluppo e alla diffusione di un sentire educativo
libertario applicabile e reale, ci parla, a questo avviso, della
“metacognizione”, cioè dell' “acquisizione
del metodo col quale si impara ad imparare”,
ancora una volta, guarda caso, basato sul “come”
si impara ad imparare, che nella frammentarietà e continua
instabilità dei mutamenti delle “scienze e dei
dati d'insegnamento”, rimane un fattore “abbastanza
stabile nel tempo e nel mutare dei saperi”. Fu William
Godwin (si vede che tra God[win] e Good[man] e viceversa, ...ci
deve essere qualcosa di buono...così sembrano dirci incidentalmente
anche gli OM di Al Cisneros, in un loro recente album musicale
intitolato appunto … ‘God is Good'... [tipico gioco
di parole in voga tra chi compone liberamente e ‘cabalisticamente'
testi “seminali” inattesi]), a mettere in essere
questo concetto, già nella seconda metà
del Settecento e Summerhill, come si è accennato, a sperimentarne
la pratica nel tempo (e questo dovrebbe far pensare chi, ogni
anno, attonito, ancora ci guarda stupito, in sede di commissione
statale d'esame, applicando alla lettera la “non volontà
adulta” di conoscenza per i centenari e io rimarcherei,
rifacendomi alla storia dell'uomo, addirittura millenari, tracciati
dell'educazione libertaria - solo per citare analisi di “riposizionamento”
di John Zerzan o di Riane Eisler o della antropologa lituana
Marija Gimbutas).
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Kether - Scelta e incidentalità. Nord chiama Sud, Sud chiama Nord. Magneti e attrazioni, la vita crea lezioni |
La scuola di un tempo “altro”
Codello ci mette comunque in guardia a riguardo di questa ottima
“prospettiva di lavoro” definita come “meta-cognizione”,
per ciò che concerne la sua attenta “applicabilità”
nel nostro contesto diciamo “globalizzato”, affinché
essa non arrivi a creare paradossalmente delle disuguaglianze.
Ed è ancora una volta pesantemente in gioco, io ritengo,
l'azione consapevole dell'accompagnatore adulto che, per poter
svolgere un buon cammino con i giovani, deve, saper intervenire
con, ripeto, equilibrio, per valutare appunto la presenza
o meno di “parametri motori” diciamo “attuali”,
che vedono nella “scuola come mercato” la
mistificazione del principio stesso di “metacognizione”.
Persone che, grazie ad un percorso particolare di crescita nell'educazione
scolastica ottengono delle solide metodologie di acquisizione
delle conoscenze, risulterebbero più avvantaggiate
rispetto a quelle che strutturano delle conoscenze specifiche,
chiamiamole “inamovibili”. Se ciò, però
venisse come oggigiorno viene spesso virato, in ambito
di dominio, risulta evidente che “l'esaltazione
della 'metacognizione', rispetto all'acquisizione di contenuti,”
diviene “il parametro attraverso il quale passa
il potere all'interno dei sistemi scolastici.”
Dunque, paradossalmente, “anche il valore della 'metacognizione'
è stato calato in una concezione consumistica
dell'educazione e dell'istruzione, una concezione per la quale
non conta la tua qualità [si ritorna al qualia
dell'educazione incidentale] come individuo, ma la tua adattabilità
al sistema economico.”
Sulla base di questi pensieri, l'accompagnatore auto-formato,
dovrebbe innervare il suo cammino di competenza, appellandosi
ad una ricerca di sentire metacognitivo (che in
quanto tale si pone categoricamente in opposizione al deleterio
nozionismo, entrato drammaticamente anche nei corsi universitari
che dovrebbero ancora avere il sapore della “passione
per lo studio”), che sappia rinunciare alle logiche
di mercato e di consumo ossessivo delle conoscenze, ormai
marcatamente indotte dall'impianto omologante dell'Occidente.
Non è un caso, (e qui concludo), che si sia partiti da
un ragionare sull'educazione incidentale, ponendosi fuori
dai confini della cosiddetta “civiltà progredita
del sol calante”, per dare un fuggente sguardo
alle semplici pratiche di crescita spontanea, nelle polverose
contrade dell'Asia rurale che ancora “resiste” alla
strumentalizzazione dell'acculturamento “usa
e getta”. La “scuola” di un tempo “altro”,
che si esprime nelle piccole realtà educative libertarie,
nasce contemplando ritmi diversi, recupera “una condizione
di 'costante ripensamento' e di ‘saggezza' nella conoscenza,
rivedendo e metabolizzando costantemente i contenuti, proposti
incidentalmente e non, sulla base delle sensibilità e
delle percezioni d'interesse delle collettività di studio
composte da giovani ed accompagnatori. L'imparare ad imparare
coinvolge dunque le “responsabilità di vita”
e di scelte di coloro che in toto sono attori del proprio,
autonomo progetto educativo: bambini/e, ragazzi/e, giovani e
adulti.
Per quanto ci riguarda dunque, individualmente e collettivamente,
l'incidentalità è in sintesi il “progetto”.
Giulio Spiazzi
giuliospiazzi@gmail.com
www.kether.it
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