storia
Gli anarchici italiani (1943-1968)
di Pasquale Iuso
È stato uno dei quattro coordinatori del Dizionario Biografico degli Anarchici Italiani. Docente all'università di Teramo,
ora pubblica con BFS edizioni “Gli anarchici nell'età repubblicana. Dalla Resistenza agli anni della Contestazione.”
Ne pubblichiamo qui l'introduzione.
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Carrara, 15-19 settembre 1945 - Primo congresso della Federazione anarchica italiana |
Perché manca una sintesi
sull'anarchismo italiano dal dopoguerra agli anni della contestazione?
A fronte di una serie di studi e ricerche più recenti
che hanno colmato lacune importanti, viene da pensare che tale
situazione sia derivata dalle vicende che hanno contraddistinto
il movimento fra la Guerra di Spagna e la Resistenza, e da quella
crisi iniziata pochi mesi dopo la sua ricostituzione poi aggravatasi
nel corso degli anni che vanno dal 1949 al 1968-69, allorquando
visse una fase di ripresa, rispetto alla quale troviamo un nuovo
interesse di studio collegato soprattutto alla stagione dei
movimenti.
Una sorta di parentesi sembra, dunque, aver segnato la storia
dell'anarchismo e degli anarchici? Una parentesi sostanzialmente
definita all'interno di un lungo intervallo, nel corso del quale
tutto sembra ricondurre a un'incapacità di fondo nel
rispondere ai mutamenti degli scenari, ai nuovi problemi posti
dai processi di modernizzazione e dalla trasformazione radicale
della società italiana iniziata con la ricostruzione
lungo l'asse del modello americano e occidentale, e giunta al
suo apice con il boom economico e con la crisi della metà
degli anni Sessanta. Tutti elementi che, di fatto, avrebbero
ingabbiato il movimento e le sue problematiche in una sorta
di incapacità diffusa di porsi i giusti quesiti ma, soprattutto,
di trovare risposte adeguate ai problemi che gli si ponevano
di fronte: il ruolo e il peso dei partiti, il pluralismo sindacale
e il suo essere espressione della rappresentanza politica, la
repressione e la violenza (occulta e palese), che stavano disegnando
il profilo dell'Italia repubblicana.
Alle analisi spesso acute e alle conseguenti proposte, ai tentativi
di rilancio e agli sforzi organizzativi, al manifestare un dissenso
acceso, ma certo minoritario, e al contrapporsi alla logica
del bipolarismo, gli anarchici sembrano non riuscire a rispondere.
Eppure non fu così; gli studi dedicati a questo o a quell'aspetto,
sottolineano la crisi di un movimento e della sua capacità
di azione e di consenso. Infatti da queste analisi, che si concentrano
su realtà locali, su episodi centrali dell'anarchismo
italiano dopo il 1945 (la Federazione anarchica italiana, il
ruolo di «Umanità Nova», i Gruppi anarchici
di azione proletaria), o su singoli esponenti (come Giovanna
Caleffi Berneri, Armando Borghi, Gigi Damiani, Pier Carlo Masini,
oppure su sindacalisti come Alberto Meschi, Attilio Sassi, Umberto
Marzocchi e Gaetano Gervasio), emergono molteplici elementi
di riflessione che spingono verso una diversa valutazione di
quegli anni che, attraverso una prima e non certo completa ricostruzione,
sembrano arricchirsi, inducendo verso l'osservazione di un periodo
all'interno del quale (fra sconfitte, crisi e tentativi di rilancio)
gli anarchici italiani si confrontano e si scontrano. Certo
non rappresentano più, in termini quantitativi, quel
movimento che aveva segnato con rilievo la storia politica e
sociale a cavallo fra l'Ottocento e il Novecento, fin dentro
il fascismo, ma sono ancora quegli uomini e quelle donne che
lanciano una sfida, certo di minoranza, alla nuova società
nata dalla Resistenza, che si stava definendo nell'impianto
repubblicano.
Seguendo questa linea ricostruttiva, sembrano emergere gli sforzi
interni ed esterni, i tentativi di aggiornare la prassi e la
teoria, l'impegno contro le censure e nelle lotte (la condanna
della Spagna franchista, l'antimilitarismo, la difesa delle
vittime politiche), le scelte organizzative, i dibattiti e gli
scontri, la difesa della tradizione; tutti elementi che ci segnalano
una ricchezza culturale e di analisi, per certi versi anticipatorie
di anni a venire, di lotte classiste e di trasversalismo sociale,
di richiesta di maggiori diritti e di difesa dell'individuo,
di unità sindacale e di autonomia dei lavoratori, che
non possono far liquidare questi decenni come un periodo vuoto.
Al contrario, sembrano essere anni nel corso dei quali un movimento
progressivamente ridotto nei numeri e nel peso sociale, attraversa
esperienze che ne contraddistinguono la vicenda anche nei primi
decenni repubblicani, nel corso dei quali la partecipazione
dei giovani e la ripresa degli anziani paga il prezzo a una
difficile e incerta attualizzazione rispetto alla nuova realtà
economica, sociale e istituzionale. Non è un caso che
il contrasto generazionale tra vecchi e nuovi militanti, si
ripresenta in modo quasi costante, spingendo il movimento a
trovare nuova forza e diffusione nella stagione dei movimenti,
lungo la quale molti degli elementi dibattuti negli anni che
la precedono (dall'educazionismo alla nuova sessualità,
dal rifiuto di ogni delega, alla lotta contro ogni forma di
autoritarismo, dal controllo sociale alla ricerca della piena
libertà individuale e culturale di espressione) si ritrovano
e si diffondono1.
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Carrara, 15-19 settembre 1945 - Un'altra immagine del primo congresso della Federazione anarchica italiana |
Recente accresciuto interesse
Per addentrarsi in un segmento così particolare della
storia dei movimenti politici, non si può non fare anche
un richiamo ai diversi problemi che pone in termini metodologici
e di ricostruzione. Sotto moltissimi punti di vista e in tutte
le diverse fasi in cui è suddivisibile la vicenda del
mondo libertario italiano2, emerge
in modo chiaro come esso non possa essere inteso e ricostruito
come una tradizionale storia di una organizzazione politica,
perché è stata la sua stessa natura che ha creato
la differenza: tendenze individualistiche, spiccate personalità,
volontà di agire in modi talvolta scollegati, processi
riorganizzativi, esperienze regionali e provinciali specifiche,
motivazioni e lotte particolari collegate a contesti diversificati
specie nei mesi della guerra in Italia3,
sono alcuni degli elementi e dei possibili motivi di diversità
che si ritrovano nel secondo dopoguerra.
Tale frammentazione si ripresenta nella lettura delle fonti. Queste ripropongono le variegate realtà dell'anarchismo italiano nei primi decenni della Repubblica, che, a loro volta, si riflettono nella composizione sociale e politica del movimento: se, quindi, tale ricchezza da una parte è utile per dar conto delle articolazioni e sfaccettature dell'anarchismo, dall'altra fa sorgere non pochi ostacoli nella ricerca di comuni denominatori, quindi di scelte da parte di chi ne vorrebbe ricostruire le vicende.
La documentazione dal punto di vista interno, appartiene almeno
a sei tipologie principali: le carte e i periodici, elementi
indispensabili per lo studio dei movimenti libertari4;
le pubblicazioni appartenenti alla pubblicistica del movimento;
le biografie; i resoconti congressuali che vanno tuttavia intesi
non vincolanti, bensì integrativi delle varie tendenze
presenti; le testimonianze dirette e indirette5.
Documentazione varia, quindi, che permette di far emergere –
nella sua formazione e progressiva stratificazione – la
diversificazione e l'articolazione del movimento stesso e, con
questo, le difficoltà di ricondurlo a un comune denominatore
(rappresentato almeno nella primissima fase dalla Fai). Dal
punto di vista esterno nella documentazione permane la questione
altrettanto tradizionale delle carte provenienti da quegli archivi
che si “occupavano” degli anarchici per un fatto
quasi istituzionale: Ministero degli Interni e Direzione Generale
Pubblica Sicurezza su tutti.
Un cenno merita infine lo stato della ricerca rispetto al periodo repubblicano. Solo in anni recenti sembra essere nuovamente cresciuto l'interesse verso questo segmento della storia dei movimenti politici. In quello che tuttora è un panorama parziale rispetto alla ampiezza delle indagini possibili, hanno inciso molti elementi. Parlare del movimento anarchico italiano significa innanzitutto ricordare – prima di ogni definizione – il suo protagonismo nella società italiana nel corso dell'Ottocento e del Novecento, e non ridurlo a un movimento politico marginale.
Parlare degli anarchici italiani, nel secondo dopoguerra, significa – oltre a tracciare il profilo di un movimento destinato a scemare come importanza rispetto ai decenni precedenti, quindi non rapportabile in modo diretto con quel periodo – sgombrare il campo da tradizionali stereotipi o dalla ricorrente impressione di non essere più un movimento. Gli anarchici ponevano il singolo come momento centrale della loro attività e della loro propaganda, in funzione dei diritti e del valore che lo stesso aveva nella società contemporanea in tutti i suoi aspetti e al di là delle differenziazioni di classe: individuo, interclassismo, lotta per i diritti, la giustizia, la pace e contro la guerra, le ideologie totalitarie e gli imperialismi, congiunti con una forte dimensione etica e umanitaria sono alcuni degli elementi che lo continuano a caratterizzare tanto quanto i diversi tentativi di attualizzarlo, recuperando la sua dimensione di classe in senso sempre più anticomunista.
Parlare di movimento anarchico nella seconda metà del 900, inoltre, significa tenere in conto che le sue organizzazioni (o meglio sarebbe dire i suoi tentativi di giungere a una forma organizzativa coerente con gli ideali), i suoi congressi, i suoi uomini non riescono singolarmente a rappresentarne la complessità. FAI, FLI, GAAP, GIA, GAF, FAGI, così come i gruppi locali e regionali, in certi momenti rappresentano altrettanti modi di interpretare, aggiornare e rendere concreta la pratica anarchica e libertaria. Di conseguenza parlare di una sigla, di un gruppo o di un singolo militante, non significa parlare del movimento nella sua interezza e complessità, ed è per questo che, con questo lavoro, non si vuole tracciare la “storia” degli anarchici, bensì “una” delle possibili storie.
Con queste caratteristiche, gli anarchici italiani dopo il secondo conflitto mondiale non potevano allontanarsi facilmente dalla tradizione e dalla loro storia: Malatesta, la Spagna, il fascismo, la Resistenza e le sue speranze, la libertà dei popoli, la frenetica attività giornalistica e di propaganda, il dibattito e lo scontro dialettico, le polemiche, appartengono fino in fondo alla loro vicenda negli anni della Repubblica, e non poteva essere altrimenti. Fu un limite? Fu errato, nei momenti più critici dei rapporti interni, riferirsi ai programmi malatestiani degli anni Venti, rifiutando in parte di procedere verso un aggiornamento, considerato troppo facilmente un pericoloso deviazionismo verso il comunismo? La risposta non può che essere duplice.
Probabilmente no perché si riuscirono a confermare e
mantenere chiare le origini, i metodi, gli obbiettivi; con il
risultato di disegnare un quadro dove rintracciare un filo conduttore
da seguire nella sua evoluzione e trasformazione dalle origini
al fascismo e poi nell'Italia repubblicana; un filo conduttore
che nel secondo dopoguerra – sull'onda delle analisi di
Camillo Berneri e Luigi Fabbri, poi riprese, tra gli altri,
da Giovanna Caleffi Berneri e da Cesare Zaccaria attraverso
quell'importante esperienza che fu «Volontà»6
– modifica l'anarchismo «da movimento politico sociale
con agganci classisti, a movimento politico culturale con agganci
a-classisti»7.
Probabilmente si, perché in uomini come Pier Carlo Masini o in esperienze come la FLI e in parte gli stessi GAAP, pur giudicati fratture insanabili, portavano alla luce un malessere diffuso, legato alla marginalizzazione e depauperamento, cui cercavano di rispondere con tentativi di ricerca e apertura di un rinnovato spazio politico, che non poteva non portare – nel contesto di quei decenni – a una qualche contaminazione.
Quattro
periodi
I connotati polemici più frequenti rimasero comunque
quelli sulle deviazioni filo marxiste, quelli di tipo organizzativo/antiorganizzativo,
e quello sindacale stretto fra “entrismo” nella
CGIL e scelta autonoma, il tutto calato all'interno di un movimento
che si trovava di fronte problemi inesistenti nei decenni precedenti:
il sistema dei partiti e la loro progressiva occupazione del
potere alla ricerca e al mantenimento del consenso, il pieno
dispiegarsi di una società di massa centrata sul sistema
economico industriale di tipo fordista, il confronto ideologico
bipolare e la contrapposizione fra est e ovest, fino agli anni
del boom economico (con le radicali e contraddittorie trasformazioni
della società italiana), e poi nel decennio dei movimenti
con l'inizio della crisi economica e della strategia della tensione,
hanno rappresentato altrettanti scenari con i quali gli anarchici
hanno dovuto prima confrontarsi e poi operare, attraversare
crisi e scissioni, per tentare ogni volta di definire un proprio
percorso e una propria attualizzazione.
Un quadro del tutto nuovo, che li vede costretti fra un rivoluzionarismo
tradizionale e la necessità di percorrere strade diverse.
Tra le speranze rivoluzionarie resistenziali e le delusioni
legate alla stabilizzazione istituzionale e sociale dell'immediato
dopoguerra, tra la pressione ideologica e l'isolamento, tra
le crisi interne e la pervasività della rappresentanza
partitica e sindacale, il movimento (e con esso le diverse sigle
che apparvero in quegli anni) riuscì ad attraversare
questi decenni. Mentre alcune questioni ebbero una risposta,
altre rimasero periferiche non perché non importanti,
ma perché non riuscì a trovare un terreno attraverso
il quale affrontarle.
Tra queste certamente il punto di partenza del movimento nel
dopoguerra; quel congresso di Carrara del 1945 (città
che accolse, forse sintomaticamente, il IX congresso giusto
venti anni dopo, in un contesto interno, nazionale e internazionale
profondamente mutato nelle speranze e nelle aspettative del
dopoguerra) nel corso del quale, sopite dal clima euforico di
quei giorni, emergeranno le diverse esperienze e le differenti
impostazioni che i militanti avevano elaborato negli anni della
dittatura, al confino e durante la guerra. Esperienze e anime
rapportabili – semplificando – a quell'area individualista,
profondamente diffidente se non avversa, a ogni ipotesi o tentativo
di centralizzazione e di organizzazione che non fosse giustificabile
in base alla tradizione e alla storia del movimento, e a quell'area
tendenzialmente organizzativa, propensa a un aggiornamento teorico
dell'anarchismo, alla luce delle trasformazioni intervenute
nella società, nelle sue strutture economiche e nelle
relazioni istituzionali e internazionali. Lo stesso per quegli
orientamenti dichiaratamente classisti che l'anarchismo tentava
di recuperare ed esaltare, di contro all'altrettanto importante
orientamento a-classista e sostanzialmente aperto, del movimento
e del pensiero, considerato un suo imprescindibile valore aggiunto,
che allontanava gli anarchici da ogni pericolo di deviazione
partitica. Tutte vicende che stavano pagando il prezzo a una
storia precedente: la dittatura fascista e la Guerra di Spagna.
Con quella sconfitta e poi con la Seconda guerra mondiale, l'anarchismo
quasi perde per intero una generazione di militanti, con la
conseguenza che a Carrara nel 1945 si confronteranno coloro
che avevano vissuto quegli anni (ormai invecchiati e fortemente
provati), coloro che vissero in larga parte al confino fascista,
con coloro che avevano intercettato l'anarchismo percorrendo
altre strade e, tra queste, l'esperienza resistenziale.
L'arco di tempo che prendiamo in considerazione può così
essere suddiviso in quattro periodi. Il primo dal 1943 al 1948
nel corso del quale gli anarchici, dalle carceri e dal confino,
entrano nella Resistenza, vivono speranze ed esperienze anche
molto diverse fra loro, o riprendono la loro attività
con forti specificità locali (la Sicilia, la Calabria,
la Sardegna, la zona di Canosa di Puglia, il Lazio e poi il
Nord della guerra partigiana), giungendo a una struttura organizzativa
che diviene in quel momento il punto di riferimento anche di
chi non vi si riconosceva e presto si sarebbe staccato (la Federazione
libertaria italiana). Il secondo, dal 1949 al 1955: terminati
gli slanci iniziali, le iniziative e la presenza nella società
italiana scemano velocemente, schiacciate fra la crisi interna,
la pressione internazionale, ma anche quella operata dai sistemi
di rappresentanza parlamentare, partitica e sindacale. Il rinchiudersi
in sé stesso del movimento, tuttavia non può esser
visto solo a causa del contesto esterno; la proposta dei gaap
colpisce duramente, e anche se il sistema federativo rimane
in piedi, gruppi e federazioni incontrano sempre maggiori difficoltà
a penetrare nei mutamenti che stanno intervenendo. Il terzo
periodo abbraccia gli ultimi anni Cinquanta, caratterizzandosi,
in una situazione di forte riduzione quantitativa, per i tentativi
di rilancio derivati da un primo cambio generazionale: Scelba,
i fatti d'Ungheria, i nuovi scenari interni a ridosso del boom
economico permettono una qualche ripresa, stimolando la ricerca
di un coordinamento delle forze per una efficace presenza e
attività nel tessuto sociale.
Il quarto copre gli anni Sessanta, fino all'inizio della strategia
della tensione; una scelta non casuale, che vuole rappresentare
una cesura nella storia del movimento. In questi anni vengono
a soluzione alcune delle istanze che assai lentamente erano
maturate negli anni precedenti. I militanti più giovani,
dopo la separazione dalla FAI dei Gruppi di iniziativa anarchica,
si rendono formalmente autonomi, non solo raccogliendosi nella
Federazione anarchica giovanile italiana o nei Gruppi giovanili
anarchici federati, ma riescono a trasferire su un piano più
vasto, quello spirito di iniziativa che sembrava essere disperso,
permettendo, complice il clima e gli stimoli che provenivano
dal mondo giovanile italiano ed europeo, una significativa ripresa.
Sono gli anni in cui tornano alle cronache, facendo scoprire
agli italiani che gli anarchici non erano personaggi ottocenteschi,
scomparsi con la fine della dittatura. Sono anni in cui il movimento
conosce divisioni e scissioni, che ne lacerano nuovamente il
debole tessuto, con rinnovate polemiche sul concetto e sulla
pratica dell'organizzazione, ma al cui fondo permane il peso
delle scelte non effettuate negli anni Cinquanta. Scissioni
e divisioni che ritroveranno un punto di congiunzione allorquando
le strumentalizzazioni politiche, i depistaggi e la violenza
della strategia della tensione, riporteranno gli anarchici a
riflettere in tutte le loro componenti.
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Carrara, 16 maggio 1965 - Inaugurazione del monumento ad Alberto Meschi, opera dello scultore Ezio Nelli |
Ferrovieri, minatori, cavatori
Un quadro destinato a produrre una frammentazione, che non
può tuttavia essere considerato come una caratteristiche
propria degli anni repubblicani, ma piuttosto appartenere alle
vicende o alle riflessioni degli anarchici (del loro essere
dei militanti particolari) che, nel loro essere conflittuali
e dialettici, sviluppano con forza questa peculiarità
destinata a emergere nella radicale trasformazione che parte
con gli anni Cinquanta. Vicende che di volta in volta si riescono
a identificare nella contrapposizione fra organizzatori e antiorganizzatori,
individualisti e collettivisti, fautori di una maggiore rigidità
organizzativa in funzione del mutamento del contesto postbellico
e coloro che si volevano mantenere nel solco della tradizione,
fra classisti e a-classisti e, quindi, fra coloro che vedevano
non solo nel rapporto con il mondo operaio ma anche nell'attività
sindacale (seppure con alcune caratteristiche precise e distinte
dal sindacalismo riformista), un terreno sul quale si doveva
sviluppare in pieno l'azione, e coloro che – basandosi
di fatto su un aclassismo dell'idea anarchica – non vedevano
una esclusività di questo agire, anzi – sotto certi
aspetti – consideravano il terreno sindacale come pericoloso,
portatore di influenze negative per l'idea.
Il mondo del lavoro e l'organizzazione sindacale, prima unitaria
e poi divisa lungo l'asse dell'appartenenza partitica e delle
logiche della Guerra fredda. Ecco un altro di quei temi ricorrenti,
intrecciati con la storia del movimento. Se è vero che
negli anni del dopoguerra e nei primi decenni repubblicani non
si può parlare di anarco-sindacalismo, che termina negli
anni del fascismo (tra il 1925 e il 1936) così come hanno
evidenziato Maurizio Antonioli e Giampietro Berti, è
altrettanto vero che un filo conduttore, una minoranza, uno
spazio limitato per il sindacalismo di origine anarchica, si
rintraccia nel dopoguerra e nella Repubblica. Anche se non possiamo
più parlare di un'area dell'azione diretta come negli
anni liberali, è vero che in alcune categorie e aree
geografiche, quelle tracce persistono ed emergono. Come ha sottolineato
Giorgio Sacchetti, ferrovieri, minatori e cavatori mantengono
– per le particolarità del loro lavoro –
una difficile assimilabilità da parte delle sigle confederali8.
Aree e settori che riescono a esprimersi con difficoltà
all'interno della Cgil, ma esistono a livello territoriale e
federale. Un sindacalismo di tipo libertario che cerca poi di
rendersi autonomo attraverso timidi e difficili tentativi (perché
ostacolati dall'interno dello stesso movimento anarchico) di
ricostituire l'Unione sindacale italiana.
Per il movimento nel suo complesso, lungo questo tortuoso percorso,
rimanevano tratti di strada comuni, impostazioni similari ma,
soprattutto, rimaneva una strenua difesa di sé stessi
nel ribadire la propria identità e la propria memoria.
È questa una caratteristica imprescindibile nell'affrontare
sia la ricostruzione delle vicende che hanno segnato la storia
degli anarchici italiani nel dopoguerra, sia nell'analizzarne
le caratteristiche e i punti di riferimento. Il rapporto che
si crea e viene mantenuto con i propri simboli identitari, i
propri riferimenti culturali e teorici, con quegli spunti che
solo una memoria profondamente radicata può produrre
e permettere di ripresentarsi, è sorprendente. Nasce
così un patrimonio complesso, ma anche un vero e proprio
sistema di riferimento e di valori, all'interno dei quali con
difficoltà potevano trovare ospitalità esperienze
diverse, che conducevano a prospettive di mutamento di impostazione
teorica in grado di modificare le radici. Fu un punto di debolezza?
Probabilmente si nella parabola percorsa dal movimento nella
seconda metà del Novecento; certamente no per la compattezza
di tracce e simboli, documenti impalpabili fatti di passione
e di partecipazione, beni materiali e immateriali che vanno
a comporre un quadro ricco e variegato.
Che questi riferimenti alla memoria, all'identità e alla
storia siano uno dei punti di partenza anche per la ricostruzione
fattuale e del pensiero (al pari degli scontri e delle scissioni),
viene confermato da molti aspetti. La stampa innanzitutto; tutta
la pubblicistica periodica utilizza continuamente i riferimenti
alla propria tradizione e storia. Lo stesso accade nelle conferenze
e nei dibattiti, sul ricorrente tema del «chi sono e che
cosa vogliono gli anarchici» e, ancora, nelle celebrazioni
e nelle ricorrenze (su tutti quelle di Pietro Gori, Errico Malatesta,
Luigi Fabbri, Gaetano Bresci, la Comune di Parigi, la Guerra
di Spagna) che rappresentano veri e propri momenti di reciproco
riconoscimento e conferma, derivato – come giustamente
affermato – dalle più o meno pesanti forme di repressione
che gli anarchici avevano subito, ma considerato anche una delle
forme di propaganda più efficaci, per combattere lo stereotipo
di un anarchismo solo velleitario e inconcludente [...] affermazione
orgogliosa d'identità e appartenenza a una comunità
antagonista e internamente solidale, caratterizzata da propri
rituali ed eroi9.
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Carrara, 31 agosto - 3 settembre 1968, congresso internazionale anarchico. Intervento di Daniel Cohn-Bendit, gli è accanto Alfonso Failla |
Quanti militanti, federazioni, gruppi?
Dalla Resistenza al dopoguerra, da Carrara a Bologna e fino
ai congressi e agli incontri della FAI, dei GAAP e poi delle
altre sigle, gli anarchici non si astengono dall'impegno nella
pubblicazione dei loro periodici. Le scarse risorse finanziarie
non impediscono la nascita di giornali e riviste che pongono
il loro accento sulle questioni della ricostruzione, della trasformazione
della società, della violenza dello Stato, dalle crisi
internazionali che rischiano di portare il mondo a un conflitto
globale, dal fascismo spagnolo al neofascismo italiano, dalla
lotta per l'indipendenza, contro il colonialismo, il militarismo
e ogni forma di autorità laica ed ecclesiastica, il movimento
non si ferma; al contrario si sforza e chiede a tutti i suoi
militanti non solo di partecipare ma di impegnarsi nella raccolta
di fondi, nel diffondere le pubblicazioni, nel non disperdere
le energie, di concentrarsi sul rapporto con la popolazione,
puntando a smascherare le tattiche dei partiti e quelle delle
organizzazioni sindacali che, di fatto, attraverso deleghe e
programmi, svuotavano le spinte innovatrici e condizionavano
le scelte; e non si astengono dalla faticosa e complessa analisi
della teoria e del pensiero, con lo scopo di cercare un rilancio,
in una società profondamente cambiata, individuando come
la sinistra italiana e il PCI in particolare (con tutti i riferimenti
all'URSS, allo stalinismo e al togliattismo), non potesse essere
il riferimento o il modello. In questo senso il tracciato della
stampa anarchica e libertaria, al di là delle profonde
differenze che si possono osservare, sembra da subito assumere
il ruolo di centro di contro-informazione che non distoglie
la sua attenzione dall'evoluzione della situazione italiana
nelle sue diverse accezioni e componenti. Un movimento che era
rinato, fra contraddizioni ed equilibri precari, e che si impegnava
ora nel far conoscere, nel dare la sua lettura e interpretazione
dei grandi avvenimenti e delle grandi scelte che in quegli anni
gli italiani stavano compiendo o si apprestavano a fare, e che
punta sulla chiarificazione interna, ma anche sulla comunicazione
esterna, sul raggiungere tutti coloro che vedevano nella Resistenza
e nella fine della dittatura fascista, la concreta possibilità
di trasformare la società e gli italiani in un qualcosa
che superasse i decenni di estraneità, di marginalizzazione,
di estromissione dalle decisioni e dalla crescita economica
individuale e collettiva. Erano certamente obbiettivi che il
movimento e i suoi giornali non potevano raggiungere facilmente,
ma sono gli elementi che contraddistinguono la sostanza e lo
spirito delle decine di iniziative che costellano quella storia.
Ma quanto era esteso il movimento in termini di militanti, federazioni
e gruppi. Il dato è in questo caso del tutto incerto
per una serie di motivi direttamente connaturati alle caratteristiche
teoriche, pratiche e organizzative dello stesso, ma anche dal
suo modo di essere e dal suo modo di mantenere legami, contatti
e collegamenti. Più volte si è tentato di definirne
la dimensione quantitativa e i risultati sono ancora lungi dall'essere
raggiunti. Se negli anni del Casellario politico centrale si
riuscì ad avere una dimensione perlomeno orientativa,
almeno rispetto a coloro che incapparono per diversi motivi
nella repressione della polizia o nei sospetti di aver compiuto
chissà quale misfatto, o di essere in procinto di compierlo,
nel dopoguerra la situazione muta. Vuoi per la tradizionale
attenzione e riservatezza che induceva a non lasciar tracce
né elenchi, vuoi per l'estrema flessibilità organizzativa,
il dato quantitativo rimane di complessa definizione. Qualcosa
di più preciso si può fare rispetto a gruppi e
federazioni. La fine della dittatura, pur tra accortezze e resistenze,
permette a molti circoli e militanti di riunirsi e di formare
delle singole realtà locali, protagoniste sul proprio
territorio o a livello regionale di iniziative e proposte, che
li facevano emergere dalla penombra nella quale erano da sempre
stati costretti.
Sicuramente il movimento italiano del dopoguerra riprende vigore
e numeri in quelle aree che lo avevano visto nascere e diffondersi
negli anni dell'Italia liberale prefascista. Toscana, Lazio,
Liguria, Marche, Lombardia, Emilia Romagna, Puglia, Campania
e Sicilia sono le regioni dove rinasce con più forza
negli anni repubblicani, ponendo al centro la tradizione ma
anche le diverse esperienze compiute nei mesi dell'occupazione
nazifascista al Centro-Nord e della liberazione angloamericana
al sud; entra però subito in una crisi ventennale, che
lo vedrà scemare in termini quantitativi e spingerà
alcuni a chiedersi se esisteva ancora. Sono gli anni che vanno
dalla fine del 1949 ai movimenti del decennio Sessanta, all'interno
dei quali, da una posizione di minoranza, si tenta di aprire
nuove strade lungo le quali le polemiche e gli scontri personali
si legano fortemente al frazionarsi del movimento, al suo articolarsi
lungo percorsi differenti che non hanno più al centro
la FAI, ma un arcipelago all'interno del quale si sviluppa la
sua storia.
La frantumata esperienza resistenziale e del periodo della Liberazione,
il venir meno del paletto dell'antimilitarismo e del rifiuto
della guerra (cedimento iniziato con la Guerra di Spagna e definitosi
lungo i mesi della partecipazione alla lotta armata, più
tardi tornato ad essere uno dei punti imprescindibili dell'agire
e del pensare libertario), la questione della partecipazione
alle amministrazioni locali, come alla battaglia elettorale
referendaria e costituzionale; l'incontro/scontro con la difficile
costruzione della democrazia repubblicana in un clima di fallimento
dell'epurazione e di contestuale occupazione del potere da parte
dei partiti; la contaminazione con movimenti pacifisti anche
di area cattolica; il complesso e delicato incontro teorico
e pratico con la dissidenza a sinistra del PCI, i “salti
generazionali” che per gli anarchici segnano la propria
storia (il primo nel 1943-49, il secondo a ridosso del biennio
1968-69); la contraddizione e la frattura che si genera tra
la provenienza del militante anteguerra (artigiano o operaio
professionale) e l'operaio massa del modello economico fordista/industrialista;
le resistenze che si incontrano ad aggiornare la teoria la prassi
che – di fatto – provocano laceranti fratture; le
difficoltà che incontrano coloro (su tutti Pier Carlo
Masini) che tentano un'elaborazione intellettuale profonda dell'anarchismo
(che non casualmente si scontra con coloro che provenivano da
una periodo storicamente diverso, come Armando Borghi), tale
da renderlo in grado di partecipare alla nuova società,
sono alcuni degli elementi che entrano in gioco all'interno
e attorno alle sigle del movimento, di cui la FAI (certo la
più nota) è una ma non l'unica espressione.
Il lavoro che presentiamo è, per questi motivi, parziale
non riuscendo (e non volendo) racchiudere le tante diversità
del movimento. Vuole invece essere la sintesi di una storia
solo parzialmente ricostruita; una delle storie degli anarchici
che è tale per i diversi e molteplici approcci che la
stessa vicenda e il movimento racchiudono in loro stessi. Me
ne scuso, soprattutto per non essere riuscito a contenerla,
e aver dimenticato certo molte cose, per concentrarmi su altre
che – nella mia chiave di lettura –ho ritenuto più
interessanti, prodotto di scelte non facili ma necessarie, adatte
a percorrere una strada iniziata molto tempo fa.
Pasquale Iuso
Note
- Sulla decisiva questione generazionale nella storia dell'anarchismo
italiano e sul mancato ricambio dopo la sconfitta in Spagna
che «segna la tragedia della rivoluzione» e la
fine del movimento nato a Saint-Imier si esprime Giampietro
Berti sottolineando come il dopoguerra aveva posto gli anarchici
in una posizione di «isolamento». Si sarebbero
dovuti aspettare gli anni Sessanta «perché una
inaspettata saldatura tra le vecchie e le nuove generazioni»
lo avrebbe condotto ancora una volta (in una situazione completamente
diversa rispetto al passato) a essere visibile nella società.
G. Berti, Il pensiero anarchico dal settecento al novecento,
Manduria-Bari, Lacaita, 1998, pp. 41-48. Sul tema dell'anarchismo
negli anni della Repubblica rinvio sempre a Id., Libertà
senza rivoluzione. L'anarchismo fra la sconfitta del comunismo
e la vittoria del capitalismo, Manduria-Bari, Lacaita
Editore, 2012, al cui interno Berti, analizzando il percorso
dell'anarchismo tra l'Ottocento e il Novecento, sottolinea
come l'anarchismo abbia vissuto tre fasi di cui l'ultima,
iniziata nel secondo dopoguerra, si sia caratterizzata per
la perdita di quasi tutti gli «originari caratteri popolari»,
di fatto sostituiti dalla parziale rigenerazione libertaria
ed esistenziale iniziata alla fine degli anni Sessanta. Su
tale lettura cfr. anche Id. Alcune considerazioni critiche
sul movimento anarchico italiano nel secondo dopoguerra,
in Giovanna Caleffi Berneri e la cultura eretica di sinistra
nel secondo dopoguerra, a cura di F. Chessa, Reggio Emilia,
Biblioteca Panizzi, Archivio Famiglia Berneri-Aurelio Chessa,
2012, pp. 9-16.
- Per una definizione del concetto di “anarchia”
e “libertario” cfr. P.C. Masini, Le parole
del Novecento, Pisa, BFS, 2010, pp. 47-50 e 109-113.
- Cfr. ad esempio le vicende siciliane: G.L. Romano, Moti
rivoluzionari nel ragusano. Dicembre 1944-gennaio 1945,
Ragusa, Punto L, 1998; Rivolte e memoria storica. Atti
del convegno 1945-1995, le sommosse contro il richiamo alle
armi cinquant'anni dopo, Ragusa, Punto L, 1995; G. Cerrito,
La rinascita dell'anarchismo in Sicilia, Genova, rl,
1956.
- Nel dopoguerra oltre «Umanità Nova» e
il «Bollettino interno» della FAI, furono pubblicati
ed ebbero una distribuzione significativa per l'intero movimento,
tra gli altri, «Volontà», «Il Libertario»,
«Gioventù Anarchica», «L'Impulso»,
«L'Agitazione», «L'Adunata dei Refrattari».
Cfr. L. Bettini, Bibliografia dell'anarchismo. Periodici
e numeri unici anarchici in lingua italiana pubblicati in
Italia (1872-1971), Firenze, Edizioni cp, 1972.
- I. Rossi, La ripresa del movimento anarchico italiano
e la propaganda orale dal 1943 al 1950, Pistoia, RL, 1981;
P. Feri, Il movimento anarchico in Italia 1944-1950,
Roma, Quaderni della FIAP, 29, 1978; A. Dadà, L'anarchismo
in Italia: fra movimento e partito, Milano, Teti Editore,
1984. Sugli archivi non posso non rinviare all'ottimo lavoro
di L. Balsamini, Fragili Carte. Il Movimento Anarchico
nelle biblioteche, archivi e centri di documentazione,
Manziana (Roma), Vecchiarelli Editore, 2009. Un volume all'interno
del quale non solo viene sistematizzato il patrimonio cartaceo,
ma viene disegnata qualitativamente e quantitativamente quella
ricchezza documentale attraverso la quale si sviluppa la storia
del movimento.
- Una «straordinaria esperienza culturale», «punto
di raccordo europeo e di fecondo dialogo tra libertari e sinistra
eretica», nelle sue pagine «trova spazio l'Italia
minoritaria degli anni anni Cinquanta (G. Salvemini, L. Borghi,
A. Olivetti, A. Tasca, A. Capitini, I. Silone, E. Rossi, M.
Zoebeli, don L. Milani) oltre che tutta una serie di militanti
libertari e anarchici». G. Sacchetti, Eretici e Libertari.
Il Movimento anarchico in Italia (1945-1973), «Diacronie.
Studi di storia contemporanea», gennaio 2012. Su «Volontà»
cfr. Giovanna Caleffi Berneri e la cultura eretica...,
cit.
- G. Berti, Prefazione a Giovanna Caleffi Berneri. Un seme
sotto la neve. Carteggi e scritti dall'antifascismo in esilio
alla sinistra eretica del dopoguerra (1937-1962), a cura
di C. De Maria, Reggio Emilia, Biblioteca Panizzi, Archivio
Famiglia Berneri-A. Chessa, 2010, p. x.
- G. Sacchetti, Lavoro, democrazia, autogestione. Correnti
Libertarie nel sindacalismo italiano (1944-1969), Roma,
Aracne, 2012. Secondo Sacchetti si può individuare
una periodizzazione del sindacalismo libertario nel dopoguerra
che ha come punti di riferimento la fondazione della cgil
unitaria; le scissioni sindacali e la Guerra fredda; il 1956;
e infine da Piazza Statuto (1962) all'Autunno caldo. Vale
in questo senso rinviare anche a G. e G. Gervasio, Un operaio
semplice. Storia di un sindacalista rivoluzionario anarchico
(1886-1964), Milano, Zero in condotta, 2011.
- M. Ilari, Parole in Libertà. Il giornale anarchico
Umanità Nova (1944-1953), Milano, Zero in condotta,
2009, pp.11-12 e p.159.
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