Racconti
Due racconti da leggere sotto l'ombrellone.
O dove volete voi.
Cinzia Piantoni - La lista di Al
Diego Giachetti - Giovani e no |
La
lista di Al
di Cinzia Piantoni
«Avevi ragione, è proprio buono»,
esclama Amber sorseggiando l'enorme bicchiere di succo d'arancia
appena spremuto.
«Te l'avevo detto», risponde Evie rimettendosi al
lavoro, «la nostra sì che è vera frutta.
Niente a che vedere con la roba che ti rifilano nei supermercati!»
«Ti prego, non iniziare coi tuoi dibattiti salutisti»,
la interrompe Amber ridendo, «sono le otto meno un quarto,
a quest'ora non so nemmeno il mio nome. Posso sostenere un dialogo
solo se è composto al massimo da due frasi.»
Anche Evie scoppia a ridere, mentre controlla che i cesti di
frutta e verdura siano in ordine perfetto, fermandosi ogni tanto
per togliere qualche mela troppo matura.
«Otto meno un quarto hai detto?» chiede ad Amber.
«Sì. Anzi, per essere precisi sono le sette e quarantotto.
Perché?»
«È quasi ora», risponde Evie iniziando a
riempire un sacchetto di mele gialle, poi si ferma di colpo.
«Oggi è sabato, giusto?»
«Ma che ti è preso?» chiede Amber sgranando
gli occhi, «sei impazzita? Sì, comunque è
sabato. Mi vuoi spiegare che succede?»
«Sette e quarantanove. Ora lo vedrai», risponde
Evie iniziando a sorridere verso un punto imprecisato della
piazza.
È in quel momento che Amber nota un uomo avvicinarsi,
emergendo risoluto tra i passanti.
Ha un look decisamente strano, porta un soprabito elegante su
jeans strappati e scarpe da ginnastica.
Quando è a pochi metri da loro si accorge che è
più giovane di quel che le era sembrato: avrà
al massimo quarant'anni, anche se porta occhiali da vista come
quelli che aveva suo padre. In testa ha un cappello da basket
in stile hip hop.
Evie gli sorride. «Ciao Al, tutto bene?» chiede
tendendogli la borsa con le mele, «oggi gialle, vero?»
«Sì, grazie», risponde lui concentrato, prendendo
la sporta in tessuto. In quel momento Amber nota che indossa
dei guanti di pelle color vinaccia.
Mentre l'uomo toglie due banconote da un dollaro dalla tasca,
i lembi del soprabito si aprono, lasciando intravedere una camicia
elegante dalla piega impeccabile.
«A domani, Al», lo saluta Evie prendendo i soldi
dal piattino davanti a sé.
«A domani, buona giornata», risponde lui prima di
sparire di nuovo.
«Dovresti vedere la tua faccia in questo momento»,
le dice Evie. È evidente che la situazione la sta divertendo
un mondo.
«Chi diavolo era quel tizio? E dire che vivo a New York
da quindici anni, ne ho vista di gente strana! Ma quello li
batte tutti, parola mia.»
«Non lo so di preciso», risponde Evie trattenendo
a stento una risata.
«Come sarebbe a dire 'non lo so di preciso'?» sbotta
Amber, «hai visto com'è vestito? Sembra scappato
da un manicomio.»
«Ma no dai, ha un suo stile.»
«Be', di sicuro è originale! Sembra il figlio segreto
di Courtney Love e Cary Grant.»
«Comunque tutto quello che so è che ha un nome
assurdo, tipo Balthazar o roba simile. Ogni volta mi sbagliavo
nel salutarlo, per questo lo chiamo Al.»
«Ma quindi quel pazzo è un cliente abituale?»
«Abituale è dir poco. Ogni santo giorno, alle sette
e cinquanta, lui viene da me a comprare due chili di mele. E
questo da anni. Lunedì rosse, martedì verdi, mercoledì
gialle, poi si ricomincia il giro. La domenica fa il doppio
turno con le gialle, suppongo gli piacciano di più.»
Ora Amber ha la bocca spalancata: «Mi stai prendendo in
giro.»
«Ti giuro di no», risponde Evie, «non so cosa
se ne faccia di tutta quella frutta. Forse fa parte di una numerosa
famiglia di amanti di mele. Pensa che le poche volte in cui
non può venire a comprarle me le ordina per telefono,
e gliele faccio consegnare a casa da mio cugino Pete.»
«Roba da matti. E quei guanti poi!»
«Pensa che non li toglie mai, neanche d'estate.»
«Forse ha qualche malattia della pelle.»
«Non saprei. In ogni caso è un ottimo cliente,
e anche se non dice quasi nulla ti confesso che mi sta pure
simpatico.»
Amber chiacchiera ancora un po' con la sua amica, poi la saluta
lasciandola agli altri suoi clienti, che per fortuna le sembrano
molto più normali di quel tizio delle mele.
***
Balthazar chiude la porta dietro di sé,
tirando un sospiro di sollievo: anche per oggi è a posto.
Nella lista non ha nulla che non possa fare al sicuro nel suo
seminterrato.
Mette le chiavi nella ciotola vicino all'entrata e appoggia
sul tavolo la borsa della spesa, poi si toglie i guanti. Prende
una mela tra le mani perfette e inizia a sbucciarla in silenzio.
Mastica piano i quattro spicchi, intervallandoli con le altrettante
pillole quotidiane: primo spicchio, pastiglia blu per i polmoni,
secondo spicchio, quella rossa per il cuore, terzo spicchio,
la viola per l'età, e l'ultimo spicchio seguito dalla
pillola verde per la gravità. Un solo sorso d'acqua ed
è pronto per mettersi al lavoro.
Seduto alla scrivania, accende il notebook per controllare nuove
eventuali comunicazioni dalla sede centrale. Questo modello
gli piace particolarmente, argentato e sottile, ha un logo a
forma di mela sulla parte posteriore. Non che Balthazar abbia
la benché minima voce in capitolo a riguardo: il suo
contratto lo obbliga all'acquisto, una volta ogni tre anni,
del computer che risulta in testa alle classifiche di vendita.
Nessuno spazio per le opinioni personali.
La parte più fastidiosa consiste nell'impiantare all'interno
del terminale, attraverso una lunga serie di procedure, il chip
che lo abilita a comunicare con la sede. Per Balthazar è
persino più complicato che interagire con gli esseri
umani, e questo è tutto dire.
Mentre aspetta che si scarichi la posta apre e stringe i pugni
ritmicamente, cercando di scacciare la sensazione di fastidio.
Sono passati più di ottant'anni dal suo arrivo sulla
Terra, e ancora non si è abituato a quelle strane appendici:
le 'mani', come le chiamano loro. Dieci dita sono davvero troppe,
per i suoi gusti.
Per il resto non rimpiange nulla del proprio aspetto originale.
A dire la verità, dopo tutto quel tempo nemmeno si ricorda
la sua vecchia faccia. Per non parlare del nome, una serie di
numeri e lettere assegnatigli d'ufficio al momento della nascita,
che è stato ben felice di dimenticare appena partito
da Askopos.
Gli basta leggere l'oggetto dell'unica email arrivata per capire
di essere nei guai: “Sollecito urgente lista: voci multiple
di 6 e di 7”.
La lista, ovvero il motivo per cui Balthazar è sulla
Terra.
Askopos, il pianeta dal quale proviene (lontano circa ventimila
anni luce da New York), si trova tutt'ora in perfetto stato.
Ciò nonostante gli askopiani, fin dagli albori della
civiltà, hanno inviato i propri ricercatori in missioni
esplorative per tutto l'universo, in modo da potersi garantire
mondi di riserva per qualsiasi evenienza. Balthazar si era guadagnato
quell'onore dopo aver vinto un concorso pubblico col massimo
dei voti. Così, senza quasi rendersene conto, si era
ritrovato nel bel mezzo del porto spaziale di Skonis Menos con
altri quarantanove ricercatori, ognuno in partenza per un pianeta
diverso. Se si concentra ricorda ancora quanto si sentisse agitato
e orgoglioso, mentre stringeva tra le appendici (appena mutate
in mani) il prezioso chip contenente, tra le altre cose, la
lista.
La 'lista documentativo/esplorativa per la ricerca a scopo
di futuro insediamento askopiano. Razza: umana, pianeta: Terra',
questo il suo nome completo, non è altro che un lungo
elenco di cose da fare. Gli askopiani lo aggiornano continuamente
in base alla documentazione che recuperano dai propri satelliti:
programmi tv, film, intercettazioni telefoniche e file di ogni
tipo presi dalla rete.
Il compito di Balthazar è semplice: deve solo sperimentare
ciò che è indicato nell'elenco (almeno un punto
al giorno), e inviare un rapporto dettagliato.
Nelle intenzioni della sede centrale, la lista serve a capire
come starebbe un askopiano nei panni di un terrestre. È
per questo che le comunicazioni fra loro e Balthazar sono tutte
rigorosamente in lingua umana, e che lui si trova costretto
a utilizzare l'obsoleta tecnologia della Terra.
I punti dell'elenco esplorano in modo molto dettagliato quasi
ogni azione della vita di un umano medio. Per esempio il numero
29611, che Balthazar pensava di svolgere quel giorno, recita:
“guardare una partita di football alla tv e tifare per
una delle due squadre”.
Non ha nessun interesse per lo sport, tantomeno per il football,
ma è diventato un maestro nel prediligere i punti più
inoffensivi della lista. È molto attento a scegliere
solo quelli che non prevedono né contatti con gli umani
(caratteristica dei multipli di sette), né di mangiare
nulla (cosa che accade nei multipli di sei). La sua fortuna
è che dalla sede centrale sono sempre stati tolleranti
verso il suo comportamento. Dopotutto, anche se tende a saltare
alcuni numeri, per quelli eseguiti ha sempre inviato dei rapporti
impeccabili.
Balthazar si fa coraggio, e apre l'email appena arrivata. Sono
poche righe, nelle quali il capo-progetto lo invita a dedicarsi
ai punti che sta saltando da troppo tempo: i multipli di sei
e sette, appunto. Poi lo saluta cordialmente e gli augura una
felice vita, confidando di ricevere sue notizie quanto prima.
Chiude il programma di posta col cuore in gola. Non può
permettersi di ricevere una valutazione mediocre, o peggio ancora
di essere licenziato. Apre l'elenco col respiro corto, pronto
a scegliere due fra i punti meno pericolosi.
Prima cerca fra i multipli di sei, quelli che hanno a che fare
col cibo. Tutto ciò che non sia una mela gli provoca
una fastidiosa gastrite, ma dalla sede non vogliono sentire
ragioni, come ricercatore è obbligato a testare ogni
alimento. Pensa che potrebbe provare col 29604: “mangiare
una barretta energetica e andare a correre al parco”,
ma subito scarta l'idea. Una barretta sarebbe anche sopportabile,
ma sicuramente al parco incontrerebbe un mucchio di persone.
Per lo stesso motivo scarta al volo anche il 29574: “comprare
un cono alla crema da un camioncino dei gelati”. Alla
fine opta per il 29556: “mangiare una zuppa in scatola
leggendo il giornale”. Gli sembra abbastanza indolore,
può comprare il Times in qualsiasi distributore, e riesumare
dal fondo della dispensa una lattina di zuppa Campbell's.
Riguardo ai multipli di sette il problema è molto peggiore,
e per un semplice motivo: Balthazar è allergico agli
umani.
L'ha scoperto poco dopo il suo arrivo, svolgendo il punto numero
28. Doveva aiutare un'anziana ad attraversare la strada, ma
non appena la vecchietta lo aveva preso sottobraccio era stato
assalito da un attacco di tosse. Subito dopo la gola gli si
era gonfiata così tanto che aveva temuto di soffocare.
Appena i primi sintomi erano passati, erano iniziati gli starnuti
(all'epoca aveva appena scoperto che si chiamassero così),
seguiti da un forte mal di testa.
Quando allarmato aveva comunicato la cosa al capo-progetto,
quello gli aveva inviato una lunga serie di questionari da compilare,
intimandogli di sospendere fino a nuovo ordine lo svolgimento
dei multipli di sette. Erano stati tre splendidi anni per Balthazar,
aveva scoperto che senza interagire con nessuno sulla Terra
si stava molto meglio.
Alla fine dalla sede centrale era arrivato il responso: allergia
cronica agli umani. Purtroppo però insieme alla diagnosi
era arrivato anche il rimedio, le istruzioni per realizzare
un unguento appiccicoso da applicare nelle narici prima di qualunque
contatto coi terrestri, e l'ordine di vestire sempre un paio
di guanti protettivi. Con questo, la sede centrale si era detta
lieta di comunicargli che i punti multipli di sette erano da
considerarsi ripristinati.
Balthazar scorre nervosamente la lista, in cerca di qualcosa
di decente. Un po' di mal di pancia per una zuppa è una
cosa, dover interagire con un terrestre è ben altro.
Già lo agita anche solo comprare le mele da Evie, figuriamoci
qualcosa come il 29575: “partecipare a una manifestazione
di protesta”, o il 29596: “portare una terrestre
femmina al cinema”.
Forse potrebbe tentare col 29554: “prendere l'influenza”,
così avrebbe un'ottima scusa per starsene almeno una
settimana chiuso in casa. Dopotutto è appena iniziato
novembre, gli basterebbe il 29561: “prendere la metro
durante l'ora di punta”, magari vicino a qualcuno visibilmente
raffreddato, per guadagnarsi dieci giorni al calduccio del suo
seminterrato.
Mentre aspetta, seppellendo il viso nella pesante sciarpa gialla,
Evie inizia a convincersi di aver fatto una cavolata. Poteva,
solo per una volta, farsi gli affari propri come ogni newyorchese
che si rispetti? No di certo.
«E così eccoti qua, davanti alla porta di un perfetto
estraneo», dice a se stessa saltellando per combattere
il freddo. Quando è agitata è sua abitudine parlare
da sola. «Potevi almeno mandarci Pete!» esclama
prima di appoggiare il sacchetto a terra e suonare per la seconda
volta. L'ultima, si ripromette.
«Ehi, Al, ci sei? Ti ho portato le mele.»
A Balthazar ci vuole un po' per capire che quello che sembra
suonare direttamente nei suoi timpani non è un allarme
antiaereo, ma solo il campanello di casa. Quando esce dalle
coperte e si avvicina alla porta, la stanza attorno a lui sembra
ondeggiare. Se avesse saputo che l'influenza consisteva in questo
ci avrebbe pensato su due volte prima di prenderla.
Si affaccia allo spioncino: è Evie.
Negli ultimi due giorni è stato così male che
non è nemmeno andato da lei a comprare le mele, né
ha avuto la forza di ordinarle.
Infila i guanti e le apre la porta.
«Ehi, Al. Come stai? Che faccia!»
«Ciao Evie.»
«Scusa l'improvvisata, ma sei sparito da un po' ed ero
preoccupata, così ho pensato di venire a vedere se era
tutto okay.» Poi aggiunge tendendogli un sacchetto: «Le
tue mele.»
«Grazie. In effetti mi sono preso l'influenza, in questi
giorni non ho toccato cibo.»
«Oh cavolo, mi dispiace! Ma devi mangiare se vuoi rimetterti
in forze. Cerca almeno di bere qualcosa di caldo.»
Evie è un'umana molto premurosa. Non sa che l'organismo
di Balthazar resisterebbe fino a due mesi terrestri senza ingerire
nulla, e che volendo potrebbe evitare di bere anche per sempre.
«Aspetta un secondo», le dice frugando nel cappotto
appeso vicino all'entrata, togliendo i soldi dalla tasca, «ecco
qua.»
«Non ci pensare nemmeno», risponde lei alzando entrambe
le mani, «oggi offro io. Ci vediamo domani? Stesso posto,
stessa ora?»
«Sì, a domani. Grazie ancora Evie», sussurra
confuso. Ricevere un regalo per la prima volta lo fa sentire
frastornato.
Quando rimette via le banconote, ha ciò che i terrestri
chiamano 'un colpo'. Nota il barattolo con l'unguento
per l'allergia agli umani, quello che applica ogni giorno nelle
narici prima di uscire, e si rende conto di non averlo messo.
Per fortuna il raffreddore che gli ha chiuso il naso è
servito da protezione, ma deve decisamente stare più
attento.
Il giorno dopo Evie si presenta a casa di Al alle sette e cinquanta
esatte. Stavolta non fa in tempo a staccare il dito dal campanello
che la porta si apre.
«Buongiorno Evie.»
«Ehi. Come va oggi?»
Al le sembra migliorato, anche se ha gli occhi e il naso ancora
arrossati. Indossa una T-shirt dei Ramones sopra pantaloni eleganti
del pigiama. Ai piedi porta delle vecchie sneakers e su tutto
una vestaglia da uomo che sembra uscita da un film in bianco
e nero. E, ovviamente, i guanti. Si capisce che oggi la stava
aspettando: profuma di un buon dopobarba e ha le guance lisce.
Senza i soliti occhiali poi, sembra più giovane. E persino
carino.
«Va molto meglio, grazie. Credo che domani riuscirò
a uscire.»
«Ottimo!» commenta Evie porgendogli il sacchetto
con le mele. Ficca nella tasca del piumino i due dollari che
lui le porge, poi aggiunge: «Nella borsa troverai anche
dei muffin alle mele. Li ho fatti per colazione e ho pensato
di cucinarne qualcuno in più per te.»
Quando lo vede frugare nelle tasche della vestaglia, precisa
ridendo: «Guarda che sono gratis, eh!»
Al la ringrazia di nuovo, poi chiude la porta dopo averle dato
appuntamento per il giorno successivo, stavolta al negozio.
Che tizio strano. È sempre così gentile e ben
educato, eppure non l'ha nemmeno invitata a entrare. Evie scuote
la testa e s'infila in metropolitana. La giornata è appena
cominciata, e lei ha ancora un mucchio di altre cose a cui pensare.
Balthazar si sente agitato. Sarà la febbre residua, o
il fatto di aver ricevuto due regali in due giorni, o chissà
cos'altro. D'istinto prova a inspirare, e l'odore inconfondibile
dell'unguento nelle narici gli conferma che stavolta non può
essere l'allergia.
Si siede al tavolo, e toglie dalla borsa uno dei muffin. Lo
esamina con attenzione, ha un bel colore e una consistenza soffice.
Il profumo poi, è delizioso.
D'un tratto gli viene un'idea. Forse quel regalo può
essergli utile, e dopo una rapida verifica sulla lista si accorge
di non essersi sbagliato. Il punto 29616: “mangiare un
dolce fatto in casa” fa proprio al caso suo. Oltretutto
è a base di mele, quindi non avrà nessun problema
di stomaco.
Quando gli dà il primo morso, scopre che il muffin è
anche buonissimo, oltre a essere bello. Evie è stata
davvero brava, il giorno dopo sarà suo dovere farle i
complimenti.
È a metà del secondo muffin quando gli viene un'altra
intuizione, ancora più geniale della prima. Di sicuro
è un'idea avventata, non sa ancora se funzionerà,
ma decide di tentare.
La cosa più difficile sarà senza dubbio chiedere
a lei.
***
Dal suo arrivo sulla Terra, Balthazar ha cambiato
quindici fruttivendoli. Si tratta di una precauzione necessaria:
dopo qualche anno c'era il rischio che iniziassero a chiedersi
come mai dimostrava sempre la stessa età. Questo, insieme
all'allergia agli umani, è anche il motivo per cui non
ha mai instaurato nessun tipo di relazione. A New York non c'è
niente di più facile, basta solo cambiare quartiere per
garantirsi un anonimato nuovo di zecca.
Oggi è giovedì, niente mercato. Balthazar, un
po' in anticipo, osserva il negozio di Evie dall'altra parte
della strada. La sua piccola vetrina spicca rispetto alle altre:
frutta e verdura dai colori vivaci ma ordinate con precisione,
il tutto sormontato da un'insegna dipinta a mano a grandi lettere
di un bel rosso brillante. È stato proprio quel cartello,
che dimostra così tanta cura e passione, a fargli scegliere
Evie quasi cinque anni prima.
Quando Balthazar entra facendo tintinnare il campanello sopra
la porta, lei alza la testa dal libro in cui era immersa e gli
sorride: «Ciao Al, come stai?»
Anche se sono all'interno, Evie indossa una delle enormi sciarpe
colorate che porta sempre quando fa freddo. Quella di stamattina
è turchese.
«Buongiorno Evie. Sto molto meglio, grazie.»
«Ne sono felice!» dice lei porgendogli la borsa
di mele rosse già pronta sul banco.
Balthazar si affretta a estrarre i dollari dalla tasca, poi
si schiarisce la gola cercando il coraggio di proseguire.
«Ehi Al, tutto bene?»
«Sì, è che volevo ringraziarti per i muffin.»
«Oh, figurati», risponde Evie compiaciuta, «spero
fossero mangiabili!»
«Erano molto buoni, direi squisiti.»
«Grazie mille.»
«Senti, volevo chiederti...»
Lo scampanellio che preannuncia l'arrivo di un cliente interrompe
la sua frase. Così, mentre Evie serve la signora Bennet
chiacchierando amabilmente, lui cerca di non agitarsi, e ripete
nella testa almeno una decina di volte il discorso che si è
preparato. Quando Evie torna da lui, Balthazar ha la gola secca
e la mente svuotata.
«Scusami tanto. Allora, cosa mi stavi dicendo?»
«Ehm, io... Visto che sei stata così gentile con
me, volevo sdebitarmi invitandoti a uscire.»
Poi, vedendo la sua faccia stranita, si affretta ad aggiungere:
«sempre se ti va.»
«Non ce n'è bisogno, l'ho fatto con piacere»,
risponde lei alzando entrambe le mani. È evidente che
lo sta rifiutando, forse si è spaventata.
«Fa niente, non preoccuparti. E scusa se sono stato invadente.»
Evie rimane un attimo in silenzio, poi esclama: «Anzi,
sai cosa ti dico? Che accetto volentieri. Dove mi porti di bello?»
Balthazar esce dal negozio con la sensazione di essere appena
riemerso dal fondo dell'oceano. Inspira con attenzione, cercando
di riprendere la calma: lui e Evie usciranno quella sera stessa.
Le ha proposto Odessa, un ristorante vicino a Tompkins Square
Park che ovviamente lei conosce già, visto che vive da
quelle parti.
Così l'idea di Balthazar, che fino al giorno prima gli
era sembrata poco meno che assurda, ora sta diventando realtà.
Mangiando quei muffin si è reso conto di quanto Evie
sia gentile, forse l'umana più gentile e carina che abbia
mai conosciuto. Quindi perché non mettere a frutto questi
lati positivi, e sbrigare con lei i punti più problematici
della lista? Perché c'è solo una cosa per Balthazar
peggiore dei multipli di sette, e cioè i multipli di
sette che prevedono l'interazione con una terrestre femmina.
Arrivato a casa, grazie a Evie ne avrà già uno
da segnare come eseguito, il numero 28742: “chiedere a
un'umana di uscire a cena ricevendo risposta affermativa”.
«Se mi vedessero i miei clienti!» gli dice Evie
con un sorriso complice all'arrivo dei loro ordini.
Sono seduti al ristorante, e davanti a lei ci sono due enormi
sandwich con insalata di tonno e maionese, il tutto ricoperto
da formaggio fuso, e patatine fritte per contorno. In effetti
per Balthazar è stata una sorpresa vederla ordinare quel
genere di cibo, lei che di solito è così fissata
con tutto ciò che è salutare. Lui si è
limitato a un'omelette con insalata.
«Questo posto mi ricorda la mia infanzia», prosegue
Evie, «ogni domenica ci venivamo a pranzo coi miei genitori
e mia nonna. Era ucraina, e diceva che la cucina di Odessa le
ricordava casa. Per me era sempre una festa, vedevo mamma e
papà sereni per almeno qualche ora. E poi mi permettevano
di ordinare schifezze come questa!»
S'interrompe per mangiare una patatina, poi prosegue: «Ero
felice. Quella specie di felicità zen che provi senza
sforzo quando sei piccolo, e che poi passi tutti gli anni della
tua vita adulta a cercare di ritrovare.»
Balthazar sente una strana stretta al petto, immaginando la
versione bambina della ragazza che gli sta di fronte, seduta
magari sullo stesso divanetto ma più di vent'anni prima.
All'epoca lui viveva a Brooklyn, e se si fossero incontrati
avrebbe avuto la stessa età di oggi. Le pillole viola
che prende ogni giorno bloccano il suo processo d'invecchiamento,
mantenendolo da sempre un trentacinquenne. Può solo immaginare
cosa intenda Evie con quella frase sull'essere felici da piccoli.
«E tu, Al?»
«Io cosa?»
«Non so, dimmi di te. Che fai di bello?»
«Sono un ricercatore. Un antropologo sociale, per l'esattezza.»
In effetti non si tratta nemmeno di una bugia, perché
Balthazar studia proprio gli umani.
«Interessante», lo incalza Evie, «e la tua
famiglia?»
«Loro sono rimasti nel paesino da cui provengo. Mi sono
trasferito qui dopo gli studi.»
Lei annuisce. Quando lo ascolta spalanca così tanto gli
occhi color nocciola che Balthazar teme di caderci dentro.
«Ma per il resto?»
«In che senso 'per il resto'?»
«Sì, intendo le tue passioni. Cosa fai nel tempo
libero?»
«Ah quello. Il lavoro mi occupa la maggior parte della
giornata, per il resto mi piace leggere.»
Il viso di Evie s'illumina: «Anche a me! Poi allora ti
devo portare in un posto.»
L'East Village Books è una piccola libreria dell'usato
a pochi minuti di cammino da Odessa. Balthazar ci è passato
davanti molte volte, ma non era mai entrato prima. Preferisce
ordinare i libri on-line, cosa che gli garantisce un contatto
praticamente nullo con qualsiasi essere umano, a eccezione del
postino. A differenza sua, qui Evie è di casa: appena
entrano parte un coro di saluti, ai quali lei risponde entusiasta
presentandolo come 'il mio amico Al'.
All'interno il negozio è stipato di libri da cima a fondo.
A prima vista sono suddivisi per temi: Balthazar adocchia l'etichetta
“esoterismo”, proprio vicina a “psicologia”,
e poco sopra a “tempo libero”.
«Allora, che ne pensi?» chiede Evie.
«Questo posto è fantastico», commenta Balthazar
ammirato, iniziando a frugare vicino alla targhetta “classici”.
«Ritieniti onorato, ti ho portato nella mia libreria preferita»,
gli svela.
«Davvero?»
«Già. Quando sono un po' triste questo posto è
il mio antidoto. Mi metto qui a spulciare finché non
mi capita tra le mani qualcosa che mi tira su, e poi vado alla
mia panchina a gustarmelo.»
«La tua panchina?» chiede lui incuriosito.
«Una cosa alla volta», Evie lo blocca alzando una
mano con aria divertita, «prima dobbiamo trovare qualcosa
che valga la pena di portar via.»
«Non ho capito una cosa», chiede Balthazar poco
dopo, mentre fianco a fianco passano in rassegna lo scaffale
“varie”, «questi romanzi sono in ordine di
titolo o di autore?»
A quelle parole Evie scoppia a ridere di gusto: «Mi stai
dicendo che in una libreria del Village pensavi di trovare i
libri in ordine alfabetico? Sei troppo forte!» dice dandogli
una pacca scherzosa sulla spalla.
Quando Balthazar si accorge che quello è il loro primo
contatto fisico gli manca per un attimo il respiro.
«No, non dirmi che è proprio lui», sussurra
Evie incredula, chinata a consultare i libri del ripiano più
basso. Ne estrae uno in edizione economica, a prima vista del
tutto ordinario, poi si rialza stringendoselo al petto.
«Lo sai cos'è questo?» gli dice senza aspettare
la sua risposta, «questo è il mio romanzo preferito
di quando avevo undici anni.»
S'interrompe un secondo, allontanandolo da sé per scrutare
la copertina da più distante, come se non riuscisse a
crederci: «L'avevo letto in biblioteca, era perso nei
meandri della mia infanzia, e ora eccolo qui!»
Balthazar sorride, travolto dalla sua euforia. In questo momento
è ancora più carina, ha le guance colorite e muove
frenetica le mani dalle unghie dipinte di verde, brandendo quel
libro come fosse il Sacro Graal.
Non ha mai incontrato terrestri capaci di entusiasmarsi tanto
anche per queste piccole cose.
«E di cosa tratta?» le chiede.
«Parla di una ragazzina che vuole diventare illusionista,
per questo si chiama 'La grande magia'. E tu cos'hai trovato?»
«Oh, nulla. Un vecchio classico.»
«E Salinger me lo chiami 'nulla'? Per me è uno
dei più grandi! È colpa mia, come al solito sono
stata logorroica e ti ho investito di chiacchiere sul mio stupido
romanzo per bambini.»
«No no, tranquilla. Mi piace sentirti parlare.»
Quando Evie ammutolisce, Balthazar va nel panico. Forse è
stato inopportuno?
«Grazie», sussurra lei, «anche a me piace...
sì insomma, passare del tempo con te, anche se tu invece
non parli molto. Mi sto divertendo.»
«E poi», aggiunge alzando il libro, «hai portato
un po' di magia in questa serata.»
***
Evie sospira felice, stringendo fra le mani un'enorme
cioccolata calda.
Un mese prima non avrebbe mai immaginato di potersi ritrovare
in quella situazione: uscire con Al e passare una serata così
bella, finendo persino col portarlo alla sua panchina. Il posto
dove va quando è triste, quando inizia a sentirsi una
maschera invece che una persona reale.
E invece è andata proprio così.
Non ha mai conosciuto qualcuno come Al. È così
diverso dagli altri, e non si tratta solo di come si veste.
È timido e riservato, ma anche molto dolce e premuroso.
Ha insistito per pagare tutto lui, per aprirle sempre la porta,
per andarla a prendere a casa: sembra un gentiluomo d'altri
tempi.
Per sua fortuna Evie non è una classica newyorchese,
è tipico delle donne di Manhattan infuriarsi al primo
gesto galante. Se lei fosse stata un'altra, come minimo Al si
sarebbe ritrovato con una denuncia per discriminazione.
Evie gli sembra stranamente silenziosa, perciò Balthazar
decide di parlare per primo.
«Cos'ha di speciale questa panchina?» le chiede.
«Non lo so», risponde lei rianimandosi, «forse
è perché, anche se sono in strada, da qui riesco
comunque a vedere la finestra di camera mia. Così il
mondo mi fa meno paura. Quando sono triste mi siedo qui con
un bel libro, o anche solo con una cioccolata, e mi godo il
silenzio. Osservo gli estranei che camminano, immaginando le
loro vite. Oppure leggo e basta. I libri sono stati la prima
cosa che abbia mai amato. Devi sapere che la mia mente va sempre
troppo veloce: pensa sempre così tante cose, è
talmente piena di cianfrusaglie inutili, che certe volte mi
sembra di non avere modo di fermarla. In quei casi, leggere
è l'unica cosa che mi fa smettere di pensare. Mi perdo
in qualche libro e torno in me.»
Evie lo guarda felice e spaventata, con l'aria di chi ha appena
condiviso un segreto enorme, poi sussurra: «Puoi capirmi?»
Balthazar non ha mai sentito di capire nessuno come in quel
momento.
«Sì che posso, Evie. Il mondo a me è sempre
sembrato così strano, così difficile da comprendere!
A volte vorrei andarmene da qui e tornare da dove sono venuto.»
«Non provarci nemmeno», risponde lei afferrandogli
una mano e facendosi più vicina. Anche attraverso i guanti,
Balthazar sente il suo calore. «Chi mi farebbe scoprire
la magia, sennò?»
Ora riesce a distinguere ognuna delle piccole efelidi che Evie
ha sul naso. Potrebbe persino contarle, se volesse.
È lei a fare la mossa decisiva, sfiorandogli le labbra
con un bacio.
Da lì in poi tutto accade in pochi attimi, e Balthazar
non fa in tempo a pensare a niente, né all'allergia né
alla lista, trascritta su un quadernino dimenticato in tasca.
Attira Evie a sé con dolcezza e risponde al bacio. La
sua bocca sa di cioccolata. Si sente mancare il fiato, non sa
se per l'emozione o l'allergia, ma se deve morire sarà
felice di farlo così.
Evie gli cinge la vita, infilandogli le braccia fra il cappotto
e la camicia. Quando le sue dita gli sfiorano la schiena attraverso
la stoffa, all'improvviso Balthazar sa cosa fare.
Si toglie quei fastidiosi guanti e finalmente le accarezza il
viso.
***
Il ronzio pigro dei terminali, nella sala comunicazioni
del centro ricerche di Skonis Menos, viene interrotto da un
flebile segnale acustico.
L'operatore 432Y alza stupito lo sguardo verso il punto dal
quale proviene. Il connettore telepatico che sta lampeggiando
è proprio quello riservato alla Terra, dalla quale non
ricevono comunicazioni da più di tre mesi umani.
«Signore», dice nell'idioma cavernoso di Askopos
dopo aver visualizzato il messaggio, «deve venire qui
subito.»
Le poche parole che lampeggiano davanti a lui e al capo-progetto
non lasciano spazio ai dubbi. Il ricercatore terrestre ha appena
rassegnato le sue dimissioni.
Cinzia Piantoni
Giovani e no
di Diego Giachetti
All'improvviso i ragazzi e le ragazze avevano
smesso di frequentare l'oratorio del prete e l'asilo delle suore
la domenica pomeriggio. Una vera e propria separazione, malgrado
i due edifici fossero confinanti. Maschi con maschi, femmine
con femmine. Tutto a un tratto l'ordine di quel piccolo mondo
fu sconvolto. Non più all'oratorio o all'asilo la domenica
pomeriggio, ma a ballare assieme lo shake e i peccaminosi lenti,
quelli che la Pavone cantava ne Il ballo del mattone,
in una piccola stanza, vecchia e umida, collocato al centro
del paese.
Un giorno di un autunno inoltrato accadde il fattaccio. Una
domenica pomeriggio cupa, grigia, un po' triste. Poca gente
per le strade, molti rinchiusi nel bar a sentire i risultati
delle partite di calcio. Le comari al Vespro. In giro non c'erano
ragazzi e ragazze. Solo un piccolo gruppo di ragazzini stavano
in piazza a perdere tempo. D'un tratto dalla via laterale, quella
che conduceva alla parrocchia, dove viveva il prete con la sua
fedele perpetua, videro scendere proprio lui, il prete del paese.
Scendeva con passo svelto e deciso, il volto più che
adirato sembrava quello di chi si preparava a svolgere seriamente
un compito delicato. Che strano, a ripensarci, dopo il Vespro
lo avevano visto attorniato da un gruppo di donne, mamme stagionate,
nonne, zitelle inacidite, vedove che non si perdevano una funzione
religiosa. Parlavano animatamente col parroco, muovevano le
mani per rinforzare il ragionamento, facevano segni e indicavano
un punto indefinito.
Passò davanti rispondendo nervosamente al reverenziale
saluto dei ragazzini. Indossava la tunica lunga, non era ancora
venuta la moda dei preti coi pantaloni e la giacca. Attraversò
la piazza con tutta la sua tradizionale e secolare autorità.
Si diresse verso il vicolo dove da alcune domeniche i giovani
si trovavano per ballare e stare assieme ascoltando musica da
un giradischi. Lì era atteso da un gruppo di donne, quelle
che prima avevano confabulato animosamente con lui.
-Sono tutti là dentro, disse una donna rigorosamente
vestita di nero.
-Ballano e suonano coi dischi, è una vergogna, incitò
un'altra.
Il parroco non disse nulla, inforcò con tono più
spedito e adirato di prima il vicolo, seguito a debita distanza
dalle donne che continuavano a borbottare fra di loro in dialetto.
Si arrestò, dritto nella sua veste nera, davanti alla
porta del locale e bussò. Luisa, la più vicina
alla porta, si voltò a guardare verso gli altri per sapere
cosa fare. Suo cugino, che aveva qualche anno più di
lei, disse di aprire.
Era la quarta o la quinta domenica che si trovavano lì
a ballare. Un'idea splendida che era venuta ad una giovane coppia
spinti, forse, dal bisogno di stare un po' assieme almeno la
domenica. Un'idea che si era realizzata abbastanza rapidamente.
Facile era stato trovare un giradischi e altrettanto facile
trovare i 45 giri, i successi del momento: Rokes, Beatles, Gianni
Morandi, Caterina Caselli, Antoine, Little Tony e tanti altri.
Ognuno aveva contribuito con i suoi dischi a formare un fondo
di discoteca che permetteva di ascoltare musica, di ballare
in coppia o in gruppo, di chiacchierare, di filare le ragazze,
di fare un po' di casino. Erano tutti giovanissimi, pochi studenti,
molti già introdotti nel mondo del lavoro. Si erano subito
formate alcune coppie fisse, veri e propri fidanzamenti rigidi,
inamovibili, eterni. Gli altri e le altre provavano timidamente
a stare assieme, ragazzi e ragazze, indecisi, incapaci di relazionarsi.
I frequentatori erano circa una ventina, tutti rigorosamente
con i capelli corti i ragazzi e con le gonne che ancora coprivano
le ginocchia le ragazze. Lì non era ancora il tempo dei
capelloni e delle minigonne. Si capiva però che stava
per venire, che sarebbe venuto. Sulle pareti mal dipinte e umide
del locale facevano bella figura un poster del complesso i Rokes,
i cui componenti portavano capelli ostentatamente lunghi, più
lunghi di quelli dei Beatles, e un poster della giovane e bellissima
Patty Pravo, ritratta mentre si esibiva nel locale Piper di
Roma con una minigonna che, a quei tempi, era da vertigine.
Nessuna ragazza del paese avrebbe osato mettere una minigonna
del genere, anzi la minigonna, anche quella che scopriva appena
il ginocchio, era ancora proibita. Cominciavano a portarla quelle
che venivano dalla città. La domenica capitava che al
seguito delle loro famiglie, ragazze di Milano e di Torino arrivassero
al paese portandovi le novità canore, tecniche e di costume
del momento. Una di loro, una domenica pomeriggio, aveva attraversato
il piccolo centro del paese con la minigonna e con un mangiadischi
in mano dal quale usciva la musica e le parole di un noto e
inviso agli adulti cantante capellone di allora Antoine. “Tu
sei bello e ti tirano le pietre/ tu sei brutto e ti tirano le
pietre/ ovunque te ne vai sempre pietre in faccia prenderai”.
Questa la canzone di Antoine che aveva attraversato il paese
assieme alla minigonna, al mangiadischi e all'esotica cittadina
torinese. -Che tempi, diceva la gente. -Chissà come andremo
a finire. -Non c'è più rispetto. -Non c'è
più decoro.
«Ragazzo triste come me/ che sogni sempre come me»,
aveva cominciato a cantare dal disco Patty Pravo proprio mentre
stavano bussando. E lei aprì. Stupita esclamò
inciampando sulle parole: «Ohh! Buongiorno signor pievano».
Non rispose al saluto, entrò. Tutti si voltarono a guardare,
le coppie smisero di ballare, solo Patty Pravo continuava imperterrita:
«Quando si è giovani così/ dobbiamo stare
insieme/ parlare tra di noi/ scoprire insieme/ il mondo che
ci ospiterà».
«Vergogna!», esclamò ad alta voce, «e
portate rispetto al vostro Parrocco». Nessuno parlò.
«Spegnente il giradischi, maleducati». Velocemente
una mano sollevò la puntina dal disco. Una mano nervosa
e poco sicura la quale, nel sollevarla, la strisciò sul
disco provocando un piccolo rumore stridente che graffiò,
oltre ai solchi del 45 giri, le schiene irrigidite dalla tensione
dei giovani.
Che fila lunga di bottoni aveva il vestito del prete, com'era
imponente nell'esercizio della sua funzione morale ed educativa,
com'era serio il suo viso. «Fuori! Uscite! Basta con questa
indecenza!». Nessuno parlò, nessuno osò
controbattere. Raccolsero in fretta giacche e cappotti, il giradischi
e i dischi e uscirono. Il prete, dritto sulle gambe, uscì
per ultimo dopo aver controllato che fossero tutti fuori. Sbatté
furiosamente la porta nel chiuderla, quasi a dire con un solo
gesto che mai più quel locale si sarebbe aperto.
Fuori il cielo era ancora più grigio di prima perché
stava calando la sera. Con la testa china i ragazzi e le ragazze
s'incamminarono verso casa. Ma non era ancora finita. Ai lati
del piccolo vicolo si erano formati due gruppi di donne. Furono
costretti a passare in mezzo a loro, a quegli sguardi di rimprovero
a quegli occhi curiosi e pettegoli. Dovettero sentire anche
i loro commenti.
-Guarda c'è anche la figlia di... -E quello e il figlio
di... Bisbigliavano con meraviglia e voluttuosa curiosità
tra loro. Poi una urlò forte e chiaro: «fuateii,
plandrun» (frustateli, pelandroni); e un'altra: «andè
a travajà» (andate a lavorare). E quando videro
che tra gli ultimi della fila che scendeva in silenzio c'erano
anche due studenti e una studentessa delle scuole medie superiori
non poterono fare a meno di constatare ad alta voce: -più
studiano, più diventano stupidi.
Che botta quel pomeriggio. Tutto si era interrotto all'improvviso,
niente più canzoni, giradischi, musica, lenti e shake,
niente più penombrine appena soffuse e balli timidissimi;
e a casa i genitori che aspettavano per il rimprovero, la romanzina,
la punizione: «non esci più», «che
figura ci fai fare». Tutto era finito o stava per cominciare
anche per loro. Infatti la situazione precipitò in fretta.
Dopo l'autunno venne l'inverno e il festival di Sanremo dove
Luigi Tenco si suicidò, dopo aver cantato Ciao amore
ciao. Pochi mesi dopo nell'ottobre giunse la notizia che
il Che era morto in Bolivia. Si poteva vivere senza Tenco?,
il Che?, senza poter ballare lo shake perché il prete
aveva fatto chiudere il localino? Non si poteva, bisognava.
Tanti anni dopo Maria F. ritrovò annotata su un suo vecchio
diario una lettera che raccontava di un fatto analogo accaduto
in un piccolo centro in provincia di Pavia: «abbiamo preso
in affitto un paio di camerette dove ci riuniamo e facciamo
alcune festicciole. Purtroppo nel nostro paese un gruppo di
vecchiette ha gridato allo scandalo. Sono giunte al punto di
rivolgersi ai carabinieri. Il comandante della sezione ci ha
detto di sospendere per un po' le nostre festicciole».
Carabinieri a parte, pensò, quella lettera avremmo potuto
scriverla anche noi. Richiuse il diario vecchio, ma l'ultimo
sguardo alla pagina colse ancora una riga piccola e sottile
posta sotto la citazione «Ciao Amici», 14 dicembre
1966. Come lei avesse potuto avere allora tra le mani quella
rivista per i giovani non le fu subito chiaro. Solo alcune ore
dopo, mentre si recava col marito e la figlia alla cena organizzata
dalla proloco in occasione del carnevale, fu folgorata da un
lampo improvviso di memoria, nitida e pulita. Quella rivista,
sicuramente introvabile nell'edicola del paese, gliel'aveva
data un giovane venuto da Torino a trascorrere le vacanze dai
nonni in paese. Se lo vide ancora davanti e non poté
fare a meno di ripetersi dentro: «che carino!».
Diego Giachetti
Dentro alla bocca stringevi parole
troppo gelate per sciogliersi al sole
Fabrizio De André
chiusura
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