pena capitale
L'ultimo pasto dei condannati a morte
di Luigi Botta / foto Henry Hargreaves
Un fotografo neozelandese, che ha scelto il cibo come suo focus, realizza 12 scatti ricostruendo quel che hanno chiesto di mangiare altrettanti detenuti prima di essere uccisi. Li presenta alla Biennale di Venezia 2013. Lo storico Luigi Botta introduce il suo lavoro e lo intervista.
In memoria di Vincenzina Vanzetti
nel ventennale della sua morte
Johnny Ray Conner, 32 anni, un nero convertito
all'Islam dietro le sbarre, chiede al guardiano del penitenziario
di Huntsville, Texas, il permesso di poter parlare più
a lungo rispetto ai consueti due minuti che vengono assegnati
ai condannati a morte per le loro ultime dichiarazioni. Deve
finire i suoi giorni di lì a un nonnulla, infilzato da
una flebo che coi suoi tre veleni lo manda al creatore in pochi
istanti.
Gli concedono tre minuti. Uno in più del solito. Ha dinnanzi
a sé, dietro la vetrata che divide la camera della morte
dalla cella di osservazione che ospita i testimoni, Marie, figlia
di Kathy Ann Ngyuen, la commessa di un supermercato di Houston
uccisa il 17 maggio 1998 nel corso di una banale rapina andata
a male. La donna aveva 49 anni. Johnny, a quell'epoca, era giovane.
Aveva 23 anni. I giudici del tribunale giudicante, di quella
rapina, hanno ritenuto di dover accusare lui. Così pure
dell'omicidio della donna.
Si era trattato di un colpo solitario, compiuto probabilmente
per un «drink», in parte forse già sorseggiato
lungo le corsie del supermercato e poi posato sul bancone della
cassa. Con la confezione aperta. Kathy Ann, che non è
una sprovveduta e bada alla sua vita, attende i clienti dietro
un vetro antiproiettile. Una piccola apertura serve a far transitare
i prodotti e ad effettuare il pagamento. È da quella
apertura che improvvisamente spunta un revolver calibro 32.
Kathy Ann neppure lo vede, perché nel medesimo momento
entra Julian Gutierrez, un avventore che intende pagare la benzina
che ha prelevato dalle pompe poste sul piazzale esterno. Ha
le banconote in mano. Varcata la soglia sente intimare, non
sa se a lui o alla cassiera, «Dammi tutti i tuoi soldi».
L'arma da fuoco gli viene puntata contro. Molla il denaro e
fugge. Parte un colpo che gli trapassa il petto e il braccio.
Altri due colpi subito dopo raggiungono Kathy Ann al capo. Il
malvivente, passato l'impeto omicida, scappa. Senza raccoglier
nulla. La polizia interviene e trova sul pavimento i soldi e
il succo di frutta in bottiglietta. Sulla confezione vengono
rilevate due impronte. Una appartiene a Conner. Nulla di strano.
Perché in quel supermercato, lui, Johnny, ci va comunemente.
L'altra ad altro, non identificato. L'impronta di Conner è
ritenuta sufficiente. Così il ventitreenne viene incastrato.
I testimoni non sono risolutivi. Hanno sentito gli spari e solo
visto un giovane fuggire. Di colore. Corsa veloce. Camicia bianca.
Chi col cappello e chi senza. Le certezze sono poche. Eppure
lui, Johnny Ray Conner, seppure continui a dichiararsi innocente
e in molti -non soltanto la difesa- sostengano la sua tesi,
è condannato. A morte.
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La figura del pittore rinascimentale italiano Arcimboldo elaborata per il New York Times sovrapponendo e affiancando bonbon, caramelle, biscotti, croissant, frutta candita e pasticceria colorata |
Il 22 agosto 2007, in pieno pomeriggio, Johnny è disteso
sul lettino. Il sole alto in cielo non fa filtrare i suoi raggi
nei locali seminterrati, privi di finestre. Davanti a lui il
boia. Tutt'intorno sopravvive la ritualità della pena
capitale. Conner ha il suo solito sguardo triste, quello di
natura, da bambino un po' invecchiato, con gli occhi che si
perdono nel vuoto. Al fianco di Marie c'è Katherine Le,
sorella di Johnny; poco distanti sono i mariti delle due donne,
che osservano in modo un po' più defilato quel che succede.
Conner chiede loro di indicare la figlia della vittima, in modo
da potervi fare conoscenza. Non l'ha mai vista prima. Le chiede
di guardarlo: «Io voglio che tu mi capisca -dice- non
voglio che tu abbia alcuna animosità contro di me».
E continua: «Io non sono arrabbiato con te. Anche se non
mi conosci, ti amo. Chiedo al tuo cuore di perdonarmi».
Marie annuisce con la testa. Fissa il muro e non guarda Conner,
anche se lui più volte cerca il suo sguardo.
«Quello che mi sta accadendo è ingiusto -continua
Johnny-, il sistema è rotto». Lo dice da non colpevole
destinato a finire i suoi giorni nei prossimi minuti. Tuttavia
chiede ai suoi parenti di perdonarlo e di accettare la sua esecuzione.
«Non volevo farvi del male -sostiene infine con la voce
rotta-. Continuate a vivere la vostra vita e non siate arrabbiati
per ciò che mi sta accadendo. Questo è il destino.
Questa è la vita. Questa è la cosa che devo fare.
Allah mi vuole a casa». Parla poco meno di tre minuti
e sembra aver concluso la sua dichiarazione. Il sodio pentotal,
il primo dei tre veleni, comincia a entrare in circolo. Poi
Johnny si riprende per un attimo, sottovoce: «Io ti amo
e ...» perde conoscenza. Le due donne, entrambe vittime
innocenti, unite nel dolore, piangono. Il cloruro pancuronium
gli paralizza i muscoli per evitare contorcimenti sgradevoli
alla vista. Il bromuro di potassio gli ferma il cuore. Otto
minuti dopo è già passato oltre. Viene dichiarato
morto alle 18,20. Finisce in orario. Rispetta i tempi della
legge, oltreché i modi. È un condannato a morte
che non ha fatto capricci, come molti altri che si sono dimenati,
o peggio, ed hanno reso impossibile l'opera del boia. Su Huntsville
c'è una cappa di calore che non ha eguali negli ultimi
cinquant'anni. Ci sono più di 105 gradi Fahrenheit. I
bambini si spruzzano addosso l'acqua delle pompe.
Il medico, nel suo rito di sempre che mostra tutta la noia del
mestiere, stila il referto; l'impresa di pompe funebri concorda
a parte il funerale coi parenti. La giustizia ha fatto il suo
corso. Sei giorni dopo, sempre lì, è il turno
di Daroyce Mosley, sette giorni dopo di John Amador ed otto
giorni dopo di Kenneth Foster, accusato, quest'ultimo, di aver
ospitato in auto un individuo prossimo a commettere un omicidio.
Sì, sì, solo ospitato. Viene mandato sulla sedia
elettrica, agli effetti pratici della giustizia texana, perché
«non poteva non sapere».
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Torta ritratto glassata di Mao Zedong |
Grandissima capacità di scelta culinaria
Quella di Johnny Ray Conner, non colpevole e dichiaratosi innocente
(c'è anche una richiesta di revisione del processo da
parte di un giudice federale, richiesta che non fa il suo corso),
è la quattrocentesima esecuzione dalla reintroduzione
della pena capitale in Texas nel 1982. L'Unione Europea nell'occasione
invita il governatore Rick Perry a cessare la pratica delle
esecuzioni. Perry risponde attraverso un portavoce che l'Unione
Europea dovrebbe farsi gli affari propri.
Johnny è morto, a poche ore di distanza -la differenza
di fuso orario le avvicina ancor di più-, esattamente
ottant'anni dopo Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti. Una brutta
storia che continua.
Johnny Ray Conner ha ottenuto quel minuto in più di «confessione»
perché ha rinunciato all'ultimo pasto. Ha scelto di affidarsi
alle mani del boia a stomaco vuoto, con la coscienza a posto,
ed anche salva, grazie alle poche parole che ha avuto il coraggio
di confidare, in extremis, alla figlia di quella donna che lui,
secondo i giudici, avrebbe ucciso. Un pasto che è un
rituale che la tradizione impone. Che diventa ancor più
significativo se non c'è. Sì, perché a
rifiutarlo sono solitamente coloro che non accettano il verdetto
di colpevolezza, che sostengono la loro innocenza e che negano
al carcere quel ruolo di espiazione che gli è assegnato
dalla giustizia. Il rifiuto del cibo, il rifiuto dell'invito
a consumare l'ultimo pasto, diventa l'occasione per mandare
a quel paese un sistema che non è stato capace -nello
spirito di colui che si ritiene ingiustamente condannato a morte-
di dare o restituire giustizia. L'accettazione, invece, provocatoria
quanto si vuole o emblematica, in relazione alla tipologia del
cibo ed alle quantità richieste, rappresenta una consapevole
ritualità di ammissione di colpa che passa attraverso
il compromesso che lega in un unico grande amplesso il detenuto-condannato
con il carcere, i carcerieri ed il sistema che ha generato la
condanna, il boia con tutti insieme. Con la pena estrema che
diventa l'espiazione totale e definitiva della colpa. Pasto
compreso.
Dove non esiste, o non esiste più, la pena di morte,
come in Italia, la questione si offre come occasione di dibattito
a distanza, ma negli Usa, dove ben ventisette Stati la praticano
più o meno comunemente (e gli Usa non sono che uno dei
76 Stati al mondo che considerano la pena capitale come una
soluzione di giustizia; contro 120 nei quali è stata
abolita) ed i movimenti pro e contro sono diffusi su tutto il
territorio con un frenetico attivismo, la questione riveste
tutta la sua importanza. Oggi il web è lo specchio del
conflitto che anima il dibattito. Ma non solo. Ogni cosa che
riguarda i condannati a morte viene studiata, analizzata, fatto
oggetto di ricerche universitarie, rapporti e segnalazioni di
fondazioni e di «society» di studi, confrontata,
trasformata in dibattito e codificata con statistiche e pubblicazioni.
Anche l'ultimo pasto. Il Dipartimento di Giustizia Centrale
del Texas, ad esempio, predispone un'«enciclopedia»
della morte, con indagini, percentuali e dati di varia «umanità»
relativi a 243 giustiziati (secondo i dati aggiornati sino al
2001). Che, a quanto pare, hanno preteso di avvicinarsi agli
ultimi istanti di vita dando sfoggio di una grandissima capacità
-che probabilmente è anche segno di autoironica compassione
o di rivalsa da far conoscere all'esterno- di scelta culinaria.
Il 23 per cento ha consumato gli hamburger o i cheeseburger,
il 14,8 per cento la carne sotto forma di bistecca, il 15,6
per cento il gelato nei suoi diversi gusti, il 13,1 per cento
l'insalata e l'8,2 per cento il latte. Mentre il 5,35 per cento
si è accontentato del caffè, il 2,8 per cento
ha deciso di porre fine ai suoi giorni divorandosi la pizza.
Alcuni avrebbero voluto privilegiare un bicchiere di vino, una
gomma da masticare o un pacchetto di sigarette -anche se non
commestibile-, ma la direzione del carcere non li ha assecondati
perché prodotti non previsti dai regolamenti.
Il pasto mancato, di Johnny Ray Conner (sono comunque percentualmente
numerosi coloro che scelgono di non ingerire cibo), o quello
esagerato, di Lawrence Russel Brewer, che ha chiesto di tutto
e ancora un po' (in conseguenza al quale il Texas ha iniziato
ad imporre l'annullamento per tutti dell'ultimo pasto costringendo
il condannato a cibarsi del menu di giornata previsto per tutto
il braccio della morte), appartengono ad una casistica che va
oltre la quotidianità e rientra nell'occorrenza particolare,
per cui la loro eccezionalità è oggetto di approfondita
attenzione e di puntuale divulgazione. Ma l'ultimo pasto non
è solo circostanza di indagine psicologica, sociologica
od antropologica, ma diventa anche oggetto di esplorazione da
parte di chi nel cibo e col cibo -e nel rapporto che il cibo
ha col mondo, ad ogni latitudine ed in ogni condizione- ragiona
con funzione ampia, scegliendo di interpretarne il senso anche
in modo non convenzionale.
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Opera della serie Deep Fried Gadget |
Chi è Henry Hargreaves
Henry Hargreaves è un giovane fotografo che ama sperimentare
tecniche e soggetti facendo della provocazione uno strumento
di dibattito e di coinvolgimento collettivo. Si mette e rimette
in gioco ogni volta che affronta una nuova situazione. Lui ha
guardato ampiamente all'ultimo pasto dei condannati a morte,
e lo ha fatto adoperando tecnica e stile, passione e contaminazione,
esponendosi in prima persona e sviluppando, attraverso un mezzo
di comunicazione come la fotografia che rapidamente si diffonde
nel mondo della tecnologia, la sintesi di un tema che fa impressione,
che fa ribrezzo, che non anima certo -sollecitandone la fantasia-
il mercato dell'arte e l'animosità dei collezionisti
che si rincorrono sull'avanguardia del momento. Henry ha iniziato
a ricostruire alcune ultime cene e a fotografarle, utilizzando
gli stessi mezzi e gli stessi principi della pubblicità,
alla stregua di prodotti di consumo o di beni da propagandare
attraverso gli spot televisivi o le pagine patinate dei «magazine»
in edicola. Lo ha fatto in modo asettico, distaccato, quasi
estraneo al soggetto dell'immagine -che invece è sofferta
e costruita- proponendo sé stesso come interlocutore
neutrale di una storia che trae la propria origine in un atto
che una sentenza di giudizio ritiene criminale e che si conclude
poco dopo il consumo del pasto stesso. Trasforma in elemento
di storia l'immagine del cibo, quello «ultimo»,
destinandola a sostenere un ruolo che, superata la «pietas»
del racconto estremo, assurge quasi a rappresentare un momento
di scelta culinaria. Riscrive, criticamente e provocatoriamente,
la storia del cibo della cella della morte.
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Opera
della serie Deep Fried Gadget |
Progetti che fanno discutere
La
storia di Henry Hargreaves, nonostante affronti temi scottanti
e si collochi in un quadro di sfida e di profanazione ad ogni
formula consolidata ch'egli affronta, è una storia di
successo. Nasce e cresce a Christchurch, una città con
poca tradizione (ha più o meno un secolo e mezzo di vita)
che è la più grande dell'isola del Sud della Nuova
Zelanda. È il ragazzo perfetto per fare l'indossatore:
lavora come modello per le più prestigiose case di moda
di tutto il mondo e condivide con fotografi del calibro di Stephen
Meisel, Mario Testino e Richard Avedon un successo che sembra
destinato a durare nel tempo. Da soggetto passivo, con grande
puntualità e passione, sceglie di diventare attivo: molla
l'immagine di bel ragazzo da copertina, impugna la macchina
fotografica e raggiunge New York. Inizia a lavorare anch'egli
per la moda, con clienti di grande importanza e progetti divertenti,
creativi, trasformisti e memorabili che lo pongono immediatamente
in buona luce. Le sue scelte sono un successo.
Quasi tutti i suoi progetti fanno discutere. Il suo studio diventa
un cantiere di lavoro nel quale l'elaborazione dei soggetti
e del materiale rappresenta l'elemento propulsore delle storie
da raccontare e lo scatto fotografico altro non è che
la codifica di un momento di grande e provocatorio dibattito
epocale d'indirizzo antropologico. Precorre i tempi, individua
gli obiettivi ed indica alla gente le storie cui prestare attenzione.
Fa, in contemporanea, ciò che il mercato ama e odia.
Non è il merito dell'ambivalenza ma quello della cinica
provocazione.
La serie degli «Shattered» richiama la sventura
dei vetri e degli specchi rotti; quella delle «Hard Copy»
la schietta rassegnazione dell'immagine umana traslata in astrattismo
e geometria cromatica; quella delle «Mask» l'annullamento
dei ritratti e la loro sostituzione con ninnoli e bigiotteria.
Scimmiotta l'artista Damien Hirst sostituendo i suoi «punti»
colorati con miriadi di ben note pastigliette «m&m's»
di cioccolato ricoperte di glassa vivacissima, affiancate le
une alle altre; con la serie «Who Done It?» inserisce
le più autorevoli boccette di profumo in contesti di
foto segnaletiche; con «Toasted Icons» propone in
grandissimo formato i ritratti di personaggi noti (Jim Morrison,
i Beatles, Che Guevara, Marilyn Monroe, la regina Elisabetta
d'Inghilterra) realizzati accostando le fette biscottate bruciacchiate.
Con le «Subway Series» ricostruisce gli schemi delle
metropolitane di tutto il mondo realizzandoli con gli spaghetti
colorati, con i gomitoli di lana, con le cannucce variopinte,
le perline e gli «m&m's» (sempre loro!), messi
in fila; ricostruisce i «QR code» accostando migliaia
di cellulari di ogni tipo, tagliuzzati, sagomati, smontati e
trasformati in qualcos'altro. Poi comincia a dedicarsi al cibo.
Fa ritratti con il ketchup (o checiap!), colora le frittelle,
trasforma il burro in elemento grafico, realizza la tabella
dell'oculista con ritagli vegetali, ricostruisce i dipinti di
Mark Rothko con il riso colorato, trasforma in alimenti i gadget
elettronici, gli ipod e i computer portatili, scrive con la
pastasciutta, inventa il suo alfabeto con il «bacon»,
fa i ritratti ai presidenti americani con la gelatina colorata,
elabora per il New York Times la figura del pittore rinascimentale
italiano Arcimboldo sovrapponendo ed affiancando bonbon, caramelle,
biscotti, croissant, frutta candita e pasticceria colorata.
Poi dà fuoco alle calorie dei dolci, trasforma le torte
in segnaletica e cartellonistica, dipinge con le uova dal contenuto
colorato che si schiantano su piani rigorosamente scuri, riproduce
le pubblicità liberty con il caffè macinato, scrive
con i «Fruit Loops» policromi, ricostruisce la mappa
del mondo utilizzando i prodotti alimentari autoctoni nazionali,
congela i pomodori, riproduce e glassa i ritratti dei dittatori
più importanti in crema e pan di Spagna (e li distrugge
o li fa distruggere). Si avvale, in questa sua opera, della
collaborazione di Caitlin Levin, Amirah Kassem, Jessica Walsh,
Sarit Melmed, Lorenzo Fanton, Sarah Guido e Nicole Heffron.
Un elenco di opere, quello poc'anzi riferito, all'apparenza
banale ma fortemente riduttivo delle numerose operazioni che
Hargreaves sperimenta, incessantemente, in poco tempo, con una
grandissima ed invidiabile capacità inventiva. Fotografie
che propone, nel corso degli ultimi due anni, in mostre personali
-che stanno tra l'istallazione e l'happening- cui è invitato
soprattutto negli Usa ed in Germania.
Luigi Botta
Gli
ultimi pasti dei condannati a morte
La scelta di riproporre in chiave baroccheggiante il camerino
culinario di molte autorità mondiali di Broodway e non
soltanto (secondo le pretese di contratto che impongono la disponibilità,
prima e dopo il concerto o lo spettacolo, di ogni genere di
prodotti alimentari di consumo, dai dolci alla frutta, dalle
bevande ai liquori, dai tabacchi alla -anche se non alimentare-
siringa per il «buco», ecc.) apre nuovi spazi alla
ricerca di Henry Hargreaves. Che ha ormai dimenticato il suo
ruolo di modello alla moda per calarsi fino in fondo in una
parte che forse non è simile a quella che Keith Haring,
Jean-Michel Basquiat e Bansky assumono nel mondo del graffitismo
e della street art, ma che comunque è soggetta ad essere
contaminata e messa in discussione di continuo ad una velocità
che proprio non raggiunge quella della luce, ma quasi.
Hargreaves produce a più non posso.
Ed è appunto in questo contesto che nasce la serie dei
«No Seconds», gli ultimi pasti dei condannati a
morte. La sua ricerca è a 360 gradi. Indaga il cibo,
più che i soggetti, si interessa alla casistica particolare,
più che ai reati, non gli interessano i casi singoli
-anche se ne rimane coinvolto- ma si propone di fatto una denuncia
generale che nasce dal tema dell'«ultima cena» e
tocca l'argomento delle condanne a morte.
Monta i set, uno dietro l'altro, ricostruisce le tavole imbandite
restituendo il menu prima richiesto e poi servito, interpreta,
come meglio può e crede, piatti, posate, cibo, bicchieri
e guarniture. Come uno still life di un grande artista. Scatta
sulla zenitale, in modo distaccato e rigorosamente impersonale.
Accompagna ogni immagine con la descrizione dattiloscritta dell'individuo
condannato e del cibo da lui richiesto prima di morire. Un po'
di biografia spicciola, per l'osservatore disattento. La prima
serie è composta da nove personaggi.
Ronnie
Lee Gardner,
dello Utah, finisce i suoi giorni a 49 anni per
furto, rapimento e omicidio di due persone.
Viene ucciso da un plotone di esecuzione il 18 giugno 2010.
Consuma il suo ultimo pasto (aragosta, bistecca, torta di
mele e
gelato alla vaniglia) assistendo alla proiezione della trilogia
de «Il signore degli anelli». |
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Victor
Feguer,
è accusato di rapimento e omicidio. Viene ucciso
con un'iniezione letale il 15 marzo 1963. È l'ultimo
condannato a morte nello Iowa. Ha 28 anni. Il suo pasto
finale è formato da una singola oliva con il nocciolo.. |
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Allen
Lee «Tiny» Davis,
ha 54 anni quando l'8 luglio 1999 finisce sulla sedia elettrica
in Florida (è l'ultimo condannato ucciso con
questo metodo). È accusato dell'omicidio di tre persone.
La sua richiesta per l'ultimo pasto: code di aragosta, patate
fritte, gamberi fritti, vongole fritte e pane all'aglio.. |
|
Ted
Bundy,
ha accuse molto pesanti: violenza sessuale, necrofilia,
fuga dal carcere e omicidio di 30-35 giovani donne.
Viene ucciso in Florida sulla sedia elettrica il 24 gennaio
1989 all'età di 43 anni. Si rifiuta di consumare
l'ultimo pasto e mangia uova, bistecca, pane imburrato,
latte e succo di frutta, probabilmente il pasto destinato
a tutti i detenuti. |
|
Angel
Nieves Diaz, 55
anni,
è accusato di omicidio, sequestro e rapina a mano
armata. Finisce i suoi giorni in Florida, dopo 34 minuti
d'agonia, il 13 dicembre 2006, con un'iniezione letale.
Rifiuta l'ultimo pasto e rifiuta anche la cena servita dall'istituto
penitenziario. |
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John
Wayne Gacy,
chiamato «Killer Clown» (perché in carcere
dipinge quadri di clown), ha 52 anni quando viene ucciso
con un'iniezione letale il 10 maggio 1994. Nell'Illinois.
È accusato di pesantissimi reati: violenza sessuale
e omicidio di 33 persone.
Chiede di consumare l'ultimo pasto: pollo fritto in gran
quantità, patatine fritte e fragole. Prima di essere
accusato di omicidio Gacy aveva gestito tre ristoranti «Kentucky
Fried Chicken», dove si mangia esclusivamente pollo.
Le sue ultime parole: «Kiss my ass!» (Baciatemi
il culo!). |
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Stephen
Anderson,
finisce i suoi giorni a 49 anni, in California, prigione
di San Quentin. È accusato di furto, aggressione,
fuga dal carcere e omicidio di sette persone (tra le quali
anche un detenuto). Consuma come ultimo pasto due panini
al formaggio, un piatto di formaggio cottage, ravanello
e mais, torta alle pesche e gelato al cioccolato. |
|
Ricky
Ray Ractor,
42 anni, dell'Arkansas, è accusato di duplice omicidio.
Muore per iniezione letale il 24 gennaio 1992. Sceglie di
mangiare una bistecca con patatine fritte, una torta di
noci e succo di ciliegia. Non conclude il pasto: lascia
la torta dicendo di conservarla per il dopo (ciò
conferma i suoi problemi di salute mentale emersi prima,
durante e dopo il processo). |
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Timothy
James McVeigh,
viene ucciso a 33 anni. È dell'Indiana.
È il responsabile del più sanguinoso atto
terroristico statunitense prima dell'11 settembre 2001:
l'attentato di Oklahoma City, nel quale perdono la vita
168 persone. Finisce i suoi giorni l'11 giugno 2001 per
iniezione letale. Il suo ultimo pasto consiste in una ciotola
di gelato alla menta con pezzettini di cioccolato. |
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Timothy
James McVeigh,
viene ucciso a 33 anni. È dell'Indiana.
È il responsabile del più sanguinoso atto
terroristico statunitense prima
dell'11 settembre 2001: l'attentato di Oklahoma City, nel
quale perdono
la vita 168 persone. Finisce i suoi giorni l'11 giugno 2001
per iniezione
letale. Il suo ultimo pasto consiste in una ciotola di gelato
alla menta
con pezzettini di cioccolato. |
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Quando nei primi
mesi del 2013 Henry Hargreaves viene invitato a Venezia ad esporre
le sue opere presso l'isola di San Servolo nella stagione della
Biennale prossima a venire, gli si chiede di ampliare il numero
delle fotografie appartenenti alla serie «No Seconds».
Ne prevede ulteriori tre: Teresa Wilson Bean Lewis, Ronnie Paul
Threadgill, Nicola Ferdinando Sacco e Bartolomeo Vanzetti.
Teresa
Wilson Bean Lewis,
ha 41 anni quando viene uccisa con iniezione letale presso
il Greensville Correctional Center di Jarrat in Virginia
il 23 settembre 2010. È la prima donna ad essere
giustiziata dal 1912 in Virginia, anche la prima con iniezione
letale. Si dichiara innocente ma è considerata la
mandante dell'omicidio del marito e del figlio. Sul suo
caso si innescano numerose polemiche. Consuma l'ultimo pasto:
pollo fritto, piselli al burro, torta di mele e «Dr
Pepper». |
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Ronnie
Paul Threadgill,
viene giustiziato a 40 anni, il 16 aprile 2013, nel carcere
di Huntsville, Texas, accusato di furto d'auto e di omicidio.
Subisce un'iniezione letale. Prima di morire dice: «Vado
in un posto migliore» e mostra la sua dentiera d'oro
ad una donna presente all'esecuzione. Gli viene rifiutato
l'ultimo pasto e si ciba del menu comune ai detenuti: pollo
al forno, purè di patate con sugo tradizionale, verdure,
piselli dolci, pane, tè, acqua, punch. |
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Di
Nicola
Ferdinando Sacco e Bartolomeo Vanzetti,
i due anarchici italiani uccisi nel carcere di Charlestown,
Boston, Massachusetts, con la sedia elettrica, si conosce
ampiamente la vicenda.
Il loro ultimo pasto è molto modesto: zuppa, arrosto,
toast e tè (non si conosce se si tratti di un menu
richiesto oppure del medesimo destinato a tutti i detenuti). |
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Sette
domande a Henry Hargreaves
Ad Henry Hargreaves -che oltre ad essere geniale è
anche persona gentile e generosa- poniamo alcune domande relative
alla serie «No Seconds», presentata lo scorso anno
presso il «Museo della follia» sull'isola di San
Servolo a Venezia (in una rassegna dal titolo «No seconds,
Comfort food e fotografia» curata da Chiara Casarin su
progetto di Mauro Zardetto).
Quali sono le motivazioni che ti hanno spinto ad indagare
gli ultimi pasti dei condannati a morte?
Trovo che il cibo sia un potente connettore tra le genti. Non
si può sapere niente dei condannati o essere in grado
di relazionarsi in alcun modo con loro, ma quando si sente parlare
di qualcosa che ne è rivelatore, come le richieste degli
ultimi pasti, loro assumono in qualche modo una dimensione umana
nella mente di chi è interessato.
Con quale criterio hai scelto i soggetti da interpretare,
ricostruendo la loro mensa dell'addio alla vita?
Ho scelto casi ben noti; strane richieste di pasti, qualcuno
che era disabile, una donna, Sacco e Vanzetti perché
erano innocenti, e un uomo la cui ultima richiesta di pasto
gli è stata negata perché il Texas aveva modificato
la legge e lui ha consumato lo stesso cibo degli altri detenuti
presenti quella sera nel braccio della morte.
Dove hai rinvenuto le notizie relative agli ultimi pasti
dei condannati?
Si tratta di informazioni pubbliche; vi è anche una pagina
di Wikipedia che riguarda l'argomento.
Tu pensi che le scelte compiute dai condannati a morte -sempre
relative all'ultimo pasto- rispondano esclusivamente al dettato
personale oppure risentano, in qualche modo, di fattori esterni
che ne hanno condizionato il passato?
Penso che ci siano entrambi gli elementi, che in molti casi
riflettano il background sociale dei condannati, e talvolta
l'aspetto biografico e personale, come per John Wayne Gacy.
In altri casi si tratta di pura golosità, come per Timothy
McVeigh, in quanto la scelta non è conseguenza di nulla
e si tratta forse di un recupero dell'immaginario infantile.
In entrambi i casi c'è tanto spazio per l'interpretazione,
e ciò è l'essenza che io sento, che rende interessante
l'argomento.
Raccontaci la scelta fotografica che tu hai fatto: essenzialità
e scatto zenitale nell'immagine; sintesi e austerità
nella descrizione dei soggetti e delle pene.
Volevo che i piatti fossero mostrati così come li potevano
osservare i condannati un momento prima di impugnare le posate
per mangiare. Siccome non esiste una foto reale di un ultimo
pasto, io ero in grado di immaginarli serviti su piatti di carta
o di porcellana, pensare all'orgoglio del cuoco nel suo lavoro,
ecc.
Quali risultati -artistici e socio-politici- ha ottenuto
la tua ricerca?
Mi piace raccontare con il mio lavoro una storia; penso che
l'arte debba sostenere uno specchio di fronte allo spettatore
e debba essere lo spettatore a decidere come interpretarlo.
La scelta degli ultimi pasti dei condannati a morte ti impegna
anche personalmente pro o contro la pena di morte stessa?
Personalmente sono contro la pena di morte, ma non sono un sostenitore
della causa. Sento che la maggior parte delle persone negli
Stati Uniti ignora l'argomento, così come non ha alcuna
personale connessione con il prigioniero, sono solo statistiche.
Non sto condannando il crimine, ma sono convinto che la sponsorizzazione
delle esecuzioni da parte dello Stato rappresenti una consuetudine
barbara. Voglio soltanto essere lo spettatore desideroso di
comprendere il fenomeno, come una persona reale, e le conseguenze
di questa pratica.
(intervista realizzata con la collaborazione di Charline
Besnier).
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Il fotografo neozelandese Henry Hargreaves |
L'immagine definitiva
Per chiudere, alcune annotazioni dal sapore autobiografico
che si impongono in relazione alla fotografia dell'ultima cena
di Sacco e Vanzetti, realizzata in stretta connessione tra il
fotografo neozelandese e chi scrive. È nella primavera
del 2012 che i mass media americani si interessano -seppur genericamente
in quanto nulla di ufficiale è ancora comparso sul mercato
e l'autore ha buona parte del suo percorso artistico ancora
da compiere- dell'iniziativa di Henry Hargreaves di proporre
al grande pubblico una serie di immagini fotografiche sul tema
dell'ultimo pasto dei condannati a morte. A luglio appare la
notizia che il giovane artista è prossimo a presentare
tale ciclo, che viene denominato «No Seconds», presso
la «Herter Art Gallery» dell'University of Massachusetts,
in Amherst. Non si conosce quali siano i condannati, quali i
pasti e quali i criteri di individuazione. Chi scrive pensa
bene di interpellare il fotografo per sapere se, tra gli altri,
compaiano anche Sacco e Vanzetti, due personaggi che proprio
nel Massachusetts hanno vissuto il loro destino di morte. La
mostra presso l'«Amherst College» potrebbe essere
l'ennesima occasione per far meditare lo Stato americano su
questa storia mai dimenticata.
Il 26 luglio parte una mail in direzione di New York, che spiega
queste cose. La risposta di Henry non si fa attendere molto.
Dopo poco più di sei ore (senza tener conto del fuso
orario) fa sapere che il ciclo è momentaneamente chiuso.
Chi scrive non demorde. Pertanto la corrispondenza non finisce
lì. Nella successiva mail il fotografo viene informato
del cibo che Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti consumarono
nell'ultima cena (non si sa bene se su specifica richiesta oppure
predisposto per tutti i detenuti), «soup, beef, toast
and tea», che fu servito presso il carcere di Charlestown,
Boston, appena «Rose» Sacco e Luigina Vanzetti si
allontanarono dopo l'estrema visita ai loro familiari. L'informazione
è ripresa dal newspaper «Dallas Morning News»
del 23 agosto 1927, che la trasmette anche ad altri giornali
quotidiani internazionali. Hargreaves riceve in contemporanea
anche numerose informazioni circa la storia e le date della
vicenda dei due anarchici italiani. Ritiene la notizia «very
interesting and different from the others». La cosa, così
come riletta, gli interessa. Cercherà di realizzarla.
Ma il tempo stringe. La mostra in Amherst, la prima in assoluto
del fotografo, si tiene senza lo sperato resoconto su Sacco
e Vanzetti.
Bisogna dare tempo al tempo. Il 5 marzo 2013 è lo stesso
Hargreaves a farsi vivo. «Gli è stato chiesto -così
scrive- di ampliare il suo lavoro per presentarlo alla Biennale
di Venezia». È probabilmente l'occasione giusta.
La corrispondenza si infittisce e le informazioni, numerosissime,
relative agli ultimi istanti di vita di Nicola e Bartolomeo,
vanno avanti e indietro rapidamente tra l'Italia e New York.
Henry vuol sapere molte cose e si interroga sulla qualità
e sulle caratteristiche dell'ultima mensa dei due italiani.
Lavora sul progetto e si confronta. Il 2 maggio 2013 arriva
il primo scatto, per le eventuali revisioni. Il giorno stesso,
e quello successivo, le mail si moltiplicano ed il materiale,
di giorno ed anche di notte, va avanti e indietro con gli aggiustamenti.
Il 5 maggio compare nella posta elettronica l'immagine definitiva.
È quella che Henry Hargreaves presenta a Venezia (la
mostra si apre il 7 settembre all'isola di San Servolo), e che,
dopo Venezia, ha già portato in giro per il mondo insieme
alle altre undici della serie «No Seconds»
Luigi Botta
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