Prosegue
il dibattito su
movimenti e potere
Continua
il dibattito su “movimenti e potere”, scaturito
a seguito dei quattro articoli di Antonio Senta apparsi
sulla rivista tra l'ottobre 2013 e il febbraio 2014 (Lotta
di classe dei ricchi contro i poveri in “A”383
ottobre; Volontà
di rivolta in “A”384 novembre 2013;
Mediterraneo,
America Latina e Sudafrica in “A”385
dicembre 2013 - gennaio 2014; Occupiamo
il presente in “A”386 febbraio 2014).
Fino a questo momento sono intervenuti Andrea Papi (Autogestione
o lotta di classe?
in “A”388), Andrea Aureli (Ma
chi ha detto che c'è? in “A”388),
Francesca Palazzi Arduini (Lo
Stato non c'è (quasi) più in “A”389),
Massimo Ortalli (Black
block, G8, violenza, ecc. Danni irreparabili in
“A”390), Andrea Staid (Posizioni
antipatiche e poco efficaci in “A”390),
Federico Battistutta (Mille
piani in movimento in “A”390), Walter
Siri (L'autogestione
di oggi, le lotte di domani in “A”391),
un compagno della Federazione Anarchica Reggiana (Non
esistono scappatoie per pochi in “A”391)
e Eugen Galasso (Ma
non parliamo solo di classe operaia in “A”391).
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Dibattito
Movimenti e potere/10
Lotta di classe e blocco nero: enigmatici strumenti di confusione
Caro Walter,
ringraziandoti per essere intervenuto sullo scorso numero di
“A” (Walter Siri, L'autogestione
di oggi, le lotte di domani, alle pp. 318-319 in “A”391)
su una tematica che personalmente ritengo di primaria importanza,
voglio chiarirti che non ho mai sostenuto che il dibattito sulla
“lotta di classe” sia datato. Sostengo invece che
è la stessa, in quanto tale, ad esser datata. So perfettamente
che all'interno dell'area della “sinistra non istituzionale”
il dibattito continua ad esser ritenuto attuale. Pensiero legittimo,
esattamente come sostenere che le categorie e i percorsi intellettuali
che la propugnano sono invece per lo meno estemporanei.
Il fatto che una testa raffinata come Luigi Fabbri negli anni
venti del secolo scorso, mentre il fascismo stava montando,
sostenesse che si trattava di un attacco delle «classi
dirigenti della società moderna (usa questa dizione
nel suo capolavoro di analisi politica “La controrivoluzione
preventiva”) contro il proletariato», ritengo
che in un certo senso venga incontro a ciò che sto sostenendo.
Fabbri aveva di fronte la situazione economico-politica e di
composizione sociale di circa un secolo fa, completamente diversa
da quella attuale fino a non esser paragonabile. Inoltre, qualificando
con classi dirigenti della società moderna usa
il concetto di classe nell'accezione sociologica di identificazione
di categorie sociali, non in quella di condizione oggettiva
determinata dalla struttura produttiva, che suggerì a
Marx e Lenin l'ipotesi teorico/ideologica della “lotta
di classe”.
In scritti precedenti avevo proposto una distinzione convenzionale
tra “scontri di classe (o tra categorie)” e “lotta
di classe”. Per lo più rivendicativi e determinati
da differenze tra strati sociali dove c'è chi è
benestante in opposizione a masse che stanno male, gli scontri
ci saranno sempre fino a quando continueranno a formarsi differenziazioni
che determinano privilegi e sottomissioni. È giusto che
ci siano e vanno incentivati. Altra cosa è la “lotta
di classe”, strategia che propugna l'espropriazione del
potere, pensata a seguito di una ben precisa visione ideologica
di tipo economico-storicistico, secondo cui c'è un unico
vero scontro epocale tra due categorie socio-economiche, nei
termini allora ipotizzati oggi in via di estinzione, ritenute
d'importanza prevalente rispetto a tutte le altre.
Personalmente comprendo perfettamente il bisogno tutto psicologico
e affettivo di rimanere collegati a ceppi e visioni che si continua
a supporre eterni, non intaccabili dalle “naturali”
trasformazioni sociali. Ma se si vuol riuscire a identificare
mezzi e strumenti in grado di portare avanti forme di lotta
e azioni che tornino ad essere efficaci al di là dei
pregiudizi ideologici, questo legittimo bisogno non può
sovrapporsi a quello di capire cosa stia succedendo.
Ha senso continuare ad essere affezionati a categorie interpretative
obsolete che fra l'altro, proprio per come sono state pensate
e concepite, presumono visioni che possono facilmente confliggere
con i valori e i presupposti nostri (come la conquista del potere
e la supremazia di una classe su un'altra invece del superamento
della divisione sociale in classi)? È curioso che quando
si toccano questi tasti si reagisca facendo i salti mortali
per sostenere l'insostenibile. A suo tempo, per esempio, l'”autonomia
operaia” teorizzò che ogni condizione sociale subordinata
si stava “proletarizzando” (che non si sa bene cosa
voglia dire), forse insospettita da una vaga consapevolezza
che il famoso proletariato dei bei tempi andati non rispondeva
più alle caratteristiche per cui era stato definito e
pensato dagli ideatori, appunto, della “lotta di classe”.
Perché non si parla di “oligarchie dominanti”,
invece di classi dirigenti o borghesi, che con maggior approssimazione
risponderebbe a come stanno le cose in questa fase? La risposta
che do è che c'è il bisogno, psicologico e non
scientifico, di rimanere ancorati alla “sicurezza teorica”
del carro che dovrebbe condurre alla presa di un potere, o da
gestire dittatorialmente o da abbattere anarchicamente, ormai
inesistente nella forma teorico-ideologica con cui fu ipotizzato.
Ho sempre di più l'impressione che si faccia fatica ad
accettare che il panorama della composizione economico-politica-sociale
sia cambiato così radicalmente da essere irriconoscibile.
Bisogna cominciare ad accettare che è fuorviante continuare
a guardarlo con lo stesso sguardo e interpretarlo con le stesse
categorie dei “bei tempi andati”.
Penso che in questa fase il problema di fondo riguardi soprattutto
qualità e condizioni di vita che i poco e non abbienti
sono costretti a vivere, più che le condizioni dei rapporti
di lavoro (come indicano le visioni di classe). La lotta per
l'emancipazione allora invece che per una vittoria di classe
è per il diritto alla dignità di esistere, riguarda
cioè il tipo di vita, individuale e comunitaria, più
che i rapporti di potere all'interno delle strutture produttive.
Questo implica che dovremmo pensare e agire per cambiare la
qualità della vita associata, in senso libertario e autogestionario,
invece di lottare per prendere o distruggere il potere ai fini
di ribaltare le condizioni di classe.
In proposito, caro Walter, non è sufficiente propugnare
l'autogestione. Se la scelta autogestionaria non è supportata
da una chiara consapevolezza emancipatrice dei mezzi, degli
strumenti, degli scopi e delle intenzioni si rischia, magari
inconsapevolmente, di autogestire qualsiasi cosa, anche contraria
ai presupposti, per noi irrinunciabili, di mutualità
e libertà. Paradossalmente si può benissimo scegliere
collettivamente, in modo correttamente autogestionario, di fare
cose antiecologiche, o nazionaliste o addirittura pure razziste.
Di per sé è un metodo non sufficiente. Va supportato
con una progettualità e una consapevolezza condivise
di voler effettivamente realizzare processi di liberazione e
libertà autentiche.
Per quanto riguarda il discorso sull'uso della violenza, mi
piacerebbe che si riuscisse a rimaner fuori da ogni ambiguità.
Nella mia polemica a Senta facevo riferimento alle logiche insurrezionaliste
più che al violentismo, proprio perché anch'io
ritengo che in caso di necessità non ci debbano essere
remore ad usare forme di risposta violenta per difendersi dagli
attacchi del potere. Ma, sottolineo, solo per difendersi. L'insurrezionalismo
al contrario mi sembra si ponga come precisa logica di attacco
al potere e dichiaratamente si propone di agire per abbatterlo
o conquistarlo. Il che difficilmente può farlo passare
per un momento difensivo.
Inoltre non mi sono riferito in specifico al blocco nero, che
mi appare una variante delle diverse forme di guerriglia urbana
che di tanto in tanto tentano di rinnovarsi. Certamente non
penso che sia ...uno degli strumenti che i movimenti hanno
per difendersi... I black bloc finora si sono imposti come
aggruppamenti formatisi per attaccare e contrastare le forze
di polizia durante le manifestazioni di piazza. Non devono né
vogliono rendere conto a nessuno delle loro scelte, né
si preoccupano di avere consenso o approvazione, snobbando di
fatto chiunque li disapprovi o simpatizzi per loro. Si impongono
con la loro determinatissima presenza rendendo impossibile a
chiunque di fermarli. Non mi sembra proprio una logica difensiva,
né tanto meno un “semplice strumento” di
non ben definiti movimenti. Essi sono esclusivamente strumenti
di se stessi, caparbiamente ostili a chiunque si contrapponga
alle loro pratiche offensive.
Andrea Papi
Forlimpopoli (Fc)
Dibattito
Movimenti e potere/11
Per una diversità delle pratiche
Vorremmo tornare sul tema della rappresentazione della “violenza
anarchica” su “A” rivista, dopo gli scambi
sul n. 390, per offrire maggiori spunti di riflessione ai lettori.
È infatti sorprendente la pressoché totale assenza
sulla rivista di riferimenti alle azioni di settori dell'anarchismo,
soprattutto giovanile, che rivendicano forme di azione diretta:
se la dialettica azione diretta/repressione riempe, a volte
in maniera stucchevole e poco costruttiva, intere riviste (Terra
Selvaggia, La Miccia, Invece), su “A” si stenta
a trovarne traccia. L'ottica con cui affrontiamo la faccenda
è pratica: ovvero non ci interessa l'elaborazione teorica
ma capire come posizionarci quotidianamente rispetto ad atti
di compagni che utilizzano la forza.
Il punto di partenza è cercare di discutere della “violenza”
prodotta dai libertari per andare oltre l'immagine di un manifestante
che cerca di danneggiare una banca circondato da mass media.
Quella immagine non può esaurire i variegati intrecci
tra settori del movimento anarchico e utilizzo della forza nel
contemporaneo. Queste, in breve, sono alcune delle azioni condotte
negli ultimi decenni in Italia. Alcuni utilizzano la forza per
rompere le catene che chiudono le case quando si occupa; si
utilizza il corpo per impedire gli sgomberi; si fa ricorso a
cesoie e materiale incendiario per bruciare macchinari che perpetuano
danneggiamenti all'ambiente; il furto a grandi imprese è
considerato lecito da molti; altri hanno condotto sporadiche
azione esplosive per minacciare e lesionare le istituzioni,
a volte ferendo non i capi ma il personale salariato. Ricordiamo
che storicamente il movimento anarchico ha sempre avuto frange
non minoritarie dedite a varie forme di atti di forza, a volte
esplosivi e omicidi. Il canzoniere anarchico è una testimonianza
di un patrimonio storico di azioni dirette radicali. Negare
o sottacere questa dimensione presente, con modalità
diverse, in numerosi settori dell'anarchismo, ci sembra ipocrita.
Un movimento anarchico assolutamente pacifista ci suona contraddittorio
e inefficace: rivendicare un cambiamento radicale dell'ordine
costituito (con relativo abbattimento delle strutture istituzionali,
finanziarie, repressive ed economiche che lo sorreggono) è
difficilmente pensabile senza una dose di utilizzo della forza.
Sarebbe davvero ingenuo pensare che perché viviamo in
una società sedicente democratica, i potenti si facciano
da parte senza aver sperimentato l'intera gamma delle armi repressive
a loro disposizione. In questa fase la violenza di Stato si
esprime nell'uso massiccio e arbitrario degli attacchi giudiziari;
non dubitiamo che se le crepe nel consenso alle istituzioni
dominanti si accentueranno ulteriormente, rivedremo forme di
coercizione più evidentemente violente. La dialettica
potere-resistenza non ha il carattere della necessità
storica ma il passato dimostra la sua ricorrenza.
È chiaro che la forza messa in campo oggi non è
paragonabile agli atti portati avanti nei decenni e nei secoli
passati perché è mutato il contesto, ma sappiamo
che una trasformazione passa anche dalle iniziative di singoli
e gruppi che si mettono in gioco in forme di resistenza con
il rischio della reclusione. Pensiamo che l'azione diretta e
non solo la pubblicistica o i convegni, siano ingredienti imprescindibili
per immaginare la trasformazione. Sappiamo che sono rischiose
dato l'apparato investigativo e repressivo (tra l'altro perfezionato
ulteriormente negli ultimi anni) in dotazione dello Stato. Non
sappiamo con certezza quali azioni dirette abbiano successo
oggi e quali siano quelle sconsigliabili. Rispettiamo chi rischia
la propria libertà per inceppare la macchina. La coscienza
collettiva cresce non solo nell'esercizio intellettuale ma nutrendosi
di una varietà di stimoli tra cui l'utilizzo autonomo
della forza.
Crediamo che, come anarchici, sia cruciale distinguere con chiarezza
la violenza prodotta dalle istituzioni che ci dominano e le
reazioni degli oppressi. Le prime hanno caratteristiche di organizzazione
sistemica, limitano le nostre libertà, colpiscono singoli
con forme di reclusione, sono appoggiate dalla intera gamma
di potentati contemporanei, sono legali. Le violenze di risposta
– per semplificare quelle dal basso, anche quella del
manifestante che si accanisce contro i simboli del capitale
– sono illegali per definizione; spesso nascono da un
accumulo di rabbia per subire in continuazione forme di limitazione,
maltrattamento, danneggiamento dell'ambiente, negazione della
dignità personale; sono intenzionate a colpire istituzioni
potenti. Le violenze istituzionali colpiscono le persone, le
resistenze quasi sempre oggetti.
Ci teniamo anche a precisare che spesso ci sembra saggio sospendere
il giudizio su molte di queste forme di azione diretta. È
vero che se la polizia infiltra – come è successo
– agenti per infiammare la piazza questo dovrebbe porre
degli interrogativi a chi pensava che i danneggiamenti durante
le manifestazioni penalizzassero il sistema. È vero che
spesso gli atti di forza vengono utilizzati per criminalizzare
il movimento nel suo complesso, ma è anche vero che questo
viene fatto a prescindere: la soluzione non è cercare
la protesta innocua per cercare di avere rappresentazioni simpatetiche
su giornali e televisioni ma rassegnarsi al fatto che i media
si muovono necessariamente per criminalizzare il dissenso e
creare diversi canali di diffusione delle informazioni. Non
vediamo la necessità di colpevolizzare sulla rivista
(ci pensano già abbondantemente i mass-media) azioni
che esprimono rabbia anche se si possono non condividerle come
finalità e/o modalità.
Per noi la vera domanda non è se una certa azione risponda
appieno ai nostri canoni ma se è condotta dalle istituzioni
che ci opprimono o – almeno come intenzione – contro
di esse. Questo è il giudizio che ci interessa dare:
aborriamo paternalismi, psicologismi, moralismi e lo snobbismo
di chi si crede detentore della verità. Accettiamo la
diversità delle pratiche.
Molti casi di utilizzo della forza da parte di compagni si possono
considerare semplicemente, come sono, azioni di singoli o di
piccoli gruppi di cui si prendono le responsabilità,
spesso subendo le conseguenze giudiziarie. Il movimento anarchico
è notoriamente variegato anche nelle modalità
di azione. Qualunque atto deve essere letto come espressione
contestuale di chi la conduce. Ognuno in base alla età,
credenze, rabbia, voglia di vendetta attiva modalità
di sovversione di cui possiamo condividere le premesse ed esprimere
una solidarietà di fondo, senza necessariamente sentirle
completamente proprie. Crediamo che la critica non vada indirizzata
a chi sceglie di rivoltarsi in modo più o meno convincente,
organizzato, efficace ma agli oppressori. In questo senso lo
storico slogan anarchico – pace tra gli oppressi, guerra
agli oppressori – sintetizza al meglio quella che dovrebbe
essere una modalità indispensabile per cercare di rafforzare
il reciproco ascolto tra settori dell'anarchia che, infatti,
tra accuse di violenza da una lato e di staticità e irrilevanza
dall'altro, oggi spesso né si rispettano né collaborano.
Stefano Boni & Andrea Staid
Modena - Milano
Dibattito
Movimenti e potere/12
Contro la storia, ma non restandone fuori
Andrea Staid nel suo intervento Posizioni
antipatiche e poco efficaci (“A” 390, p.114)
ha gettato nello stagno un sasso che sembra aver irritato non
poco Massimo Ortalli il quale - come firmatario del comunicato
citato da Andrea - si è sentito punto nel vivo e parte
in causa. Come critico feroce - all'epoca - di tale comunicato,
reputo anch'io di dover intervenire per dire come la penso (e
la pensavo allora).
Se lo scritto di Andrea mi è parso molto equilibrato,
con un invito al dibattito e alla riflessione su temi “scottanti”,
all'inverso la risposta di Massimo (Black
block, G8, violenza, ecc./Danni Irreparabili in “A”
390, p.113) mi è parsa un collage di luoghi comuni
e di furbizie dialettiche.
Equivocare sul termine violenza (come fecero a suo tempo il
governo, i media italiani, gli Agnoletto e Casarini) mi sembra
veramente un astuto escamotage per evitare il confronto.
Come già scrissi allora, “mi spiegate dov'è
stata tutta questa violenza da dover prendere le distanze? Dove
sono i poliziotti morti e feriti? Non so se ve ne siete accorti,
ma l'unico sangue che si è visto è stato quello
dei dimostranti. O - per voi - sono violenza una vetrina rotta,
un cassonetto rovesciato, un'automobile data alle fiamme?”
(“Basta di piagnistei”,
“A” 278, febbraio 2002). L'assunto è
talmente elementare che non posso credere che Massimo non sia
riuscito (e non riesca tuttora) a cogliere la differenza tra
un'azione dimostrativa contro le cose e la violenza contro degli
esseri viventi.
Se persino un movimento popolare come quello NO TAV, da sempre
proclamatosi non-violento, è riuscito a comprendere la
manipolazione che il potere fa del concetto di violenza (o peggio
ancora di terrorismo) tanto da difendere, a spada tratta e senza
mai fare distinguo, tutti coloro che sono accusati (compreso
chi scrive) di atti violenti per aver difeso la Libera Repubblica
della Maddalena o per gli attacchi dimostrativi contro il cantiere,
non riesco proprio a capire come degli anarchici possano non
avere chiara visione di questi problemi.
Che senso ha parlare, nel caso Genova 2001, di “categoria
della violenza”? Il problema non è affatto di carattere
etico ma solo di scelta politica. Perché allora non avere
il coraggio di ammetterlo semplicemente, senza tirare in ballo
altri orpelli teorici, paludati di valori anarchici universali
tirati per i capelli a sostegno delle proprie tesi? Una parte
degli anarchici non condivide l'uso di certe pratiche di attacco,
perché le ritiene controproducenti al coinvolgimento
della gente comune. Va benissimo, siamo (o almeno dovremmo essere)
un movimento pluralista, ognuno di noi è assolutamente
libero di portare avanti le teorie e le prassi che più
gli sembrano produttive al raggiungimento del fine comune. Ci
sta, quindi, la non condivisione e la critica di quanto fanno
gli altri anarchici (compresi naturalmente “A” e
gli estensori del famoso comunicato). Ma, prima di tutto, occorre
rispettare la verità dei fatti senza pretendere, non
solo che la propria univoca posizione sia l'unica accettabile
in una corretta visione anarchica, ma che trovi addirittura
una giustificazione sul piano storico.
La citazione di Enzesberger mi sembra assolutamente fuori luogo.
Come fa Massimo, nel caso di chi rompe una vetrina, a parlare
di “piacere della violenza”? Trovo antistorico quest'uso
del passato, in cui si considera la violenza anarchica giustificabile
dalla legittima difesa e tutti gli anarchici perfettamente coscienti
di questo ogni volta che ricorrevano a mezzi violenti. Massimo
conosce troppo bene la storia del nostro movimento (le posizioni
inconciliabili e le polemiche feroci) per pensarlo. Da sempre
l'uso della violenza e la concezione organizzativa sono state
le due maggiori fonti di divisioni e lacerazioni. Non esistono
numi tutelari (nell'Olimpo dell'anarchismo) che avvallano le
nostre scelte presenti. In ogni epoca ogni anarchico si è
dovuto confrontare con questi problemi sforzandosi di trovare
la propria soluzione. Usando il metodo di Massimo, potrei all'inverso
affermare che, sul piano storico, le posizioni di dissociazione,
come quelle espresse dal comunicato in questione, si sono rivelate
le meno aderenti alla realtà dei tempi e le più
criticabili oggi. Penso agli anarchici laziali che censurarono
il gesto di Gaetano Bresci, alla FORA argentina che condannò
le azioni degli illegalisti per poi arrendersi senza alcuna
resistenza alla dittatura militare (al contrario della CNT spagnola
che si mantenne sempre in giusto equilibrio tra l'azione dei
piccoli gruppi illegali e l'azione di massa).
Quello che poi non ho capito, ritornando al G8 di Genova, è
il passaggio sui compagni attualmente incarcerati, condannati
a pene pesantissime per vendetta di Stato. Ovviamente non traspare
nessuna solidarietà con chi è stato “violento”.
Non sono cose che riguardano una rivista anarchica. Che alcune
persone debbano scontare 10 anni di galera solo per aver infranto
qualche vetrina, potrebbe al massimo indignare un sincero liberale
garantista ma mai e poi mai un anarchico “non violento”.
In fondo “stanno pagando per altri che già sapevano
che non avrebbero pagato nulla”. E chi sarebbero questi
altri? Quelli che obbedivano agli “ordini di questure
e ministeri”?
Ancora una volta sono riprodotti i cliché dei Black Bloc
al soldo dei questurini. Accusa lanciata all'epoca dai Casarini
e Agnoletto, senza mai provarla. È probabile che in piazza
ci fossero infiltrazioni ma, è risaputo, l'opera di provocazione,
sempre presente nella storia dei movimenti sociali, non è
mai riuscita a essere determinante nelle rivolte di piazza,
che esplodono per cause proprie indipendentemente dalle azioni
di possibili agenti infiltrati (valga per tutti l'esempio del
pope Gapon nella rivoluzione russa del 1905). Se fosse corretta
questa mia interpretazione del passo citato (altrimenti invito
Massimo a chiarire meglio quanto espresso) i compagni attualmente
in carcere sarebbero doppiamente dileggiati: non degni di solidarietà
reale perché autori di gesti “violenti” eticamente
non condivisibili e nemmeno degni di rispetto per le proprie
scelte in quanto utili idioti eterodiretti da “questure
e ministeri”. Peggio di così.
Anche il racconto del casseur madrileno col codazzo di
fotografi mi sembra più una nota di colore - in perfetto
stile giornalistico - che una valida argomentazione. Non è
certo colpa di chi compie un'azione se il minimo gesto illegale
trova eco mediatica più di un pacifico corteo di massa.
Seguendo il ragionamento di Massimo, se s'invertisse la tendenza
e la stampa ignorasse gli incidenti di piazza dando invece ampio
spazio alle manifestazioni “tranquille”, dovremmo
smettere di farle per non diventare tutti parte di “una
performance teatrale con la sceneggiatura di prammatica se non
un vero e proprio rito”. Gli anarchici dovrebbero essere
in grado di fare le loro scelte a prescindere da quelle dei
media. Rovesciando poi questo tipo di ragionamento, anche “isolare
i violenti” che s'infiltrano nei movimenti (legittimi
solo se pacifici e rispettosi della legalità) è
quanto chiedono ripetutamente governi chiesa partiti sindacati
istituzionali questure magistrati e - perché no? - anche
qualche “anarchico”. Non potrebbe sorgere il dubbio
che l'accodarsi acriticamente alle posizioni del potere sia
anche questo un rito? E sicuramente molto più deleterio
per l'anarchismo?
Le motivazioni messe in campo da Massimo non stanno in piedi.
Sarebbe più corretto che dicesse apertamente che il muro
che lo separa da quelli che lui definisce “violenti”
è solo politico. Non ci sono (e non reggono all'analisi)
valutazioni etiche di alcun tipo.
Una concezione dell'anarchismo che non vuole misurarsi con la
rivolta di piazza, che crede che prima di ribellarsi (chissà
quando) tutti debbano aver raggiunto un massimo livello di autocoscienza
è - a mio modo di vedere - condannata all'isolamento
dalla realtà, a non saper più cogliere il polso
della storia. Le barricate del maggio francese furono ben poca
cosa se paragonate alla Comune, eppure la loro eco si protrasse
in tutto il mondo tanto da generare cambiamenti epocali.
Compito degli anarchici è sì di essere contro
la storia, ma non restandone fuori.
Tobia Imperato
Dibattito
Movimenti e potere/13
Metodi adeguati allo scopo
Ciao!
Ho avuto modo di seguire con interesse sulle pagine della rivista
i vari interventi e punti di vista sulla questione dei metodi,
più o meno “violenti”, che da sempre i movimenti
rivendicativi o di liberazione si trovano a dover scegliere,
per difendersi o per rompere le catene dell'oppressione.
Mi sembra - e chi scrive si ritiene libertaria e vicina alle
riflessioni nonviolente - che il dibattito sconti ancora molti
approcci sbrigativi e preconfezionati, anche nel movimento anarchico.
Sgomberiamo il campo dagli equivoci linguistici su cui, peraltro,
specula certo giornalismo asservito: ha senso parlare di violenza,
quando viene colpita una persona o si mette in pericolo effettivamente
l'incolumità di qualcuno. Pratiche o azioni rivolte contro
cose, simboli, strutture, merci, ecc. rientrano perfettamente
nella metodologia non-violenta (lo stesso Gandhi propagandava
il sabotaggio); per cui, si può politicamente valutare
l'efficacia di certe azioni, ma bruciare una bandiera, rompere
la vetrata di una banca o guastare una ruspa non provoca alcun
spargimento di sangue o di lacrime. Altrimenti si può
arrivare al paradosso (ed è successo davvero, non molti
anni fa) di sentire condannare come atto violento il lancio
di alcune uova contro un mezzo militare durante una manifestazione
contro la guerra! Come se la disobbedienza civile potesse essere
sempre beneducata e rispettosa delle leggi. Peraltro, se l'etica
antiautoritaria rifiuta la logica del fine che giustifica i
mezzi (siano questi terroristici o parlamentari), non di meno
è necessario scegliere metodi adeguati allo scopo e coerenti
con le situazioni date.
Ad esempio, come ben sottolinea Arundhati Roy, non si può
proporre lo sciopero della fame a chi muore già di fame
e stenti. D'altronde la forza etica della non-violenza, implica
che la controparte condivida e riconosca la medesima scala di
valori etici; banalizzando, quale senso poteva avere una resistenza
non-violenta in un lager nazista o in un gulag staliniano, se
non quella di mera testimonianza morale? E poiché si
torna spesso a parlare di quanto vivemmo a Genova nel 2001,
alcune considerazioni sorgono spontanee.
In quelle tremende giornate di luglio, andò in scena
un copione terroristico, ossia pianificato e attuato con l'obbiettivo
- conseguito - di terrorizzare un importante e diffuso movimento
antiglobalizzazione che stava mettendo in discussione le politiche
e le economie dominanti. Se persino il commissario Montalbano
di Camilleri entrò in crisi per la macelleria messicana
compiuta dalle forze dell'ordine, nella realtà - va osservato
- che nessun uomo o donna in divisa ha poi avvertito la dignità
etica di riconsiderare il ruolo svolto a Bolzaneto, alla Diaz
o in piazza Alimonda, esercitando livelli inauditi di violenza
legale.
Tale responsabilità non può essere giustificata
da presunti comportamenti individuali o collettivi dei manifestanti.
Ed anche nel valutare le pratiche più radicali, come
quelle del cosiddetto Blocco nero, è necessaria una certa
onestà intellettuale, aldilà della condivisione
o della distanza da esse. Se è vero che pure il danneggiamento
di una filiale bancaria è un gesto dimostrativo che non
merita di essere nè particolarmente enfatizzato o stigmatizzato,
s'impone anche una contestualizzazione con astratta e semmai
una critica non-ideologica o prevenuta.
Appare perciò pretestuoso accusare di spettacolarizzazione
proprio coloro che, durante certe azioni, tentavano al contrario
di tenere lontani giornalisti, fotografi, videoperatori, ecc.
sia per tutelare l'anonimato che per avversione nei confronti
dei media.
Aggiungo inoltre che non tutto quello che succede è liquidabile
come irrazionale o funzionale a qualche complotto; basti pensare
e ricordare l'azione compiuta contro il carcere Marassi, dove
da allora sono morti almeno altri cinque detenuti: chiunque
sia animato da sentimenti umani o di libertà non può
non riconoscrvi la speranza di un mondo senza istituzioni totali,
dove regna la violenza illimitata.
Un saluto in libertà dalla valle che resiste.
NO TAV
Rosellina “Rosy” Escalar
Val di Susa
Dibattito
nazionalismo.1/
Snazionalizzare e internazionalizzare le lotte
L'autunno scorso scrissi una riflessione
sulla relazione tra classe e nazione pubblicata su “A”
385 (dicembre 2013/gennaio 2014), il cui titolo era una citazione
di un bel saggio di Freddy Perlam, L'eterna seduzione del
nazionalismo. In esso cercavo di ripensare una questione
complessa, ambigua, dalle molte declinazioni, su cui tanto si
è scritto e tanto si è detto nell'Otto e soprattutto
nel Novecento. Tutto questo a partire da un caso particolare,
quello catalano, che sta avendo un protagonismo indubbio in
quest'ultimo biennio. A che punto siamo arrivati? Come possiamo
leggere la situazione catalana? Che considerazioni generali
possiamo fare?
Queste erano alcune delle domande che stavano a monte dell'articolo.
L'obiettivo, non dichiarato, ma implicito, era quello di stimolare
un dibattito. È stato dunque un piacere leggere l'articolo
di Laura Gargiulo e
Igor Ninu Nazioni senza stato, pubblicato su “A”
390 (giugno 2014).
Trovo necessario e molto positivo lo sforzo fatto dai due autori
per portare chiarezza dal punto di vista terminologico. E mi
trovo d'accordo poi con buona parte delle considerazioni che
fanno nelle pagine seguenti. Non così però con
altre considerazioni e con alcune premesse. Vado per punti e
approfitto per precisare alcune cose che credo siano state fraintese.
1. Mi sembra errato cercare l'essenza di un termine,
come quello di nazione, con l'obiettivo di liberarlo “dalle
sovrastrutture che la storia le ha dato a seconda dei contesti”.
Come dimostrano gli studi sul linguaggio politico, sono proprio
i significati che i diversi processi storici e le diverse dinamiche
politiche hanno dato a un termine quelli che danno un significante
a tale termine. Cercarne l'essenza non è altro che la
“chimera dell'origine” di cui parlava Foucault.
E difatti del termine nazione, dei suoi significati e dei suoi
significanti esistono diverse interpretazioni, che possono essere
declinate in vari modi. A titolo di esempio ricordo le diverse
letture che ne fanno Ernest Gellner in Nations and Nationalism,
Eric Hobsbawm e Terence Ranger in The Invention of Tradition
e Benedict Anderson in Imagined Communities. Come riassume
in un recente saggio Alberto Martinelli, “il concetto
di nazione è polisemico, ambiguo, mutevole nel tempo
e nello spazio, conserva ampi margini di indeterminatezza e
di ambiguità” (Mal di nazione. Contro la deriva
populista, EGEA, 2013, p. 15).
2. Gargiulo e Ninu rivendicano “una lotta contro l'omologazione
culturale e per la riappropriazione della propria terra”
legandola a doppiofilo al processo di internazionalizzazione
della “borghesia finanziaria”. Se è indubbio
che questo processo è in corso e ha subito un'accelerazione
incredibile nell'ultimo trentennio e se è indubbio anche
che questo tipo di lotta è necessario e importante, rimane
il dubbio sul fatto che la lotta si debba declinare nel modo
proposto dai due autori. Perché dovremmo declinare la
lotta contro l'omologazione culturale e per la difesa e la riappropriazione
della terra in un modo nazionalista e/o indipendentista? Perché
difendere la propria terra deve portare alla lotta per la creazione
di un nuovo stato? Esistono molte esperienze di lotta di questo
tipo che non abbracciano nessun tipo di lotta di liberazione
nazionale, anche in territori che vengono considerati “nazioni
senza stato”. Inoltre, le dinamiche di sviluppo del capitalismo
finanziario dimostrano non solo che questo si sia “internazionalizzato”,
ma dimostrano anche un processo opposto: quanto la classe lavoratrice
abbia abbandonato una delle sue caratteristiche più importanti:
l'internazionalismo. Proprio per questo è sempre più
urgente recuperare di questi tempi l'idea e la pratica internazionalista.
Detto questo, lungi da me dire ciò quel che debbano fare
catalani, sardi, baschi o corsi: ogni individuo e ogni popolo
– altro termine complesso e dalle molte sfumature –
può decidere quello che vuole, ma deve essere cosciente
delle scelte che compie.
3. La lotta di liberazione nazionale è “un pezzo
di antiquariato politico” o “un patrimonio della
destra fascistoide”? Non ho detto questo, ma, dando centralità
alla contestualizzazione storica e politica, ho cercato di mettere
in luce le grandi ambiguità di categorie che non sono
a-storiche, bensì fortemente storicizzate. Ossia, dipende
il dove e il quando. Lo studio delle esperienze passate può
esserci d'aiuto. Vedasi il caso bretone, peculiare senza dubbio,
ma sintomatico per due ordini di ragioni: per il filo-nazismo
dimostrato negli anni Trenta e Quaranta da parte del nazionalismo
indipendentista bretone in funzione anti-francese secondo la
logica schmittiana de “il nemico del mio nemico è
mio amico”; e per le grandi ambiguità nel processo
di “normalizzazione” della lingua bretone, come
spiega Françoise Morvan in Le Monde comme si. Nationalisme
et dérive identitaire en Bretagne. Ma i casi potrebbero
essere molti. La riflessione che si trova in fondo a queste
mie considerazioni è semplice: attenzione poiché
i buoni propositi possono tramutarsi in incubi perché
appunto il nazionalismo fa appello alle emozioni e non alla
razionalità – come le lotte sociali – ed
è dunque poco controllabile. È una fiamma sempre
accesa che può far scoppiare un grande incendio.
4. Ma al di fuori della teoria rimane sempre una questione pratica,
come il caso catalano dimostra. Che si fa, dunque? Si appoggia
la propria borghesia nazionale o no? È un quid fondamentale
perché può avere conseguenze politiche enormi.
Ancora le esperienze passate possono esserci d'aiuto. Si pensi
al caso del movimento indipendentista cubano di fine Ottocento
dove settori libertari appoggiarono la lotta di liberazione
nazionale guidata dai settori borghesi: dopo il 1898 i libertari
furono repressi duramente. Che lezione trarre? Che il vecchio
refrain del “diamoci la mano per ottenere l'indipendenza,
poi faremo i conti” si conclude sempre nello stesso modo:
con l'emarginazione o la repressione di chi è senza
potere. Da qui il mio forte scetticismo e la mia contrarietà
all'appoggio dato da gran parte della sinistra catalana –
sia riformista sia rivoluzionaria – e anche da alcune
correnti libertarie al processo indipendentista guidato dalla
borghesia catalana. Un appoggio, quello di alcuni settori libertari
come il collettivo Negres Tempestes, molto critico, questo deve
essere detto, ma che finisce per dare credibilità a Artur
Mas e compagnia. Per me questa non è nient'altro che
una strada sbagliata o un pericoloso abbaglio. Ricordiamoci
sempre dove finirono quegli anarchici che, come Mario Gioda,
Maria Rygier, Eduardo Malusardi e Massimo Rocca, abbracciarono
la nazione e si fecero interventisti durante la Grande Guerra,
come ha spiegato molto bene Alessandro Luparini in Gli anarchici
di Mussolini. Dalla sinistra al fascismo tra rivoluzione e revisionismo.
Steven Forti
Barcellona (Spagna)
Dibattito
nazionalismo.2/
Attenzione al nazionalismo!
Ciao redazione,
scusate il mio è uno dei tanti punti di vista e come
tale consideratelo.
Ho più dubbi che certezze sull'anarchismo, ma dopo aver
letto l'articolo di
Laura Gargiulo e Igor Ninu su “A” 390 (giugno
2014): “Nazioni senza Stato”, non mi sono
più ripreso; è un terreno molto, troppo scivoloso
che considero più pericoloso che utopistico.
Mi è venuto in mente il filosofo spagnolo Fernando Savater
quando scrisse un breve saggio edito dalla casa editrice Elèuthera
nel 1996: “Contro le Patrie”, in cui egli spiegava
con un linguaggio semplice e comprensibile le sue ragioni contro
tutte le Nazioni, le Patrie e il Nazionalismo ma sempre a favore
del diritto all'”autodeterminazione non legato ad un soggetto
collettivo astratto come 'etnia', 'nazione', o 'popolo' [...]
ma come semplice espressione dei diritti individuali alla politica,
alla cultura e alla libertà e con maggior probabilità
di successo. E aggiungo, anche meno rischioso....”
In particolare questo passaggio dell'articolo su “A 390”
di Laura Gargiulo e Igor Ninu (ma ce ne sarebbero altri): “Se
guardiamo all'essenza di questo termine, liberandolo dalle sovrastrutture
[...] ci accorgiamo che nazione indica un insieme di individui
che condividono una lingua, una storia [...] Nazione, quindi,
è fondamentalmente un concetto culturale...” fa
a cazzotti con questo di Fernando Savater: Contro le patrie
(ben più interessante dal punto di vista libertario):
“Due dogmi mitici sono sottesi ad ogni nazionalismo: il
primo, che una cosa come “realtà nazionale”
esista prima della volontà di scoprirla e potenziarla
[...] Come ho già detto, è il nazionalismo che
inventa la nazione, non è la preesistenza di questa che
origina il nazionalismo. Né l'etnia, né i costumi,
né l'idioma, né la storia condivisa sono di per
sé nazionali né nazionogene: è il progetto
politico-ideologico del nazionalismo quello che seleziona i
caratteri rilevanti dall'insieme dei dati di fatto, li avvalora
a suo modo e li converte in identità e in unanimità
simbolica.” E più oltre “Rinnegare le patrie
e le nazioni significa restituire agli individui la capacità
d'inventare e di dimenticare, di essere differenti e di essere
nuovi, di essere liberi e di pensare da sé”.
Un caro saluto a voi.
Leo Melziade
Milano
Diritto internazionale e anarchismo/Per un diritto in opposizione
alla legge delle istituzioni
Gentilissima redazione di A,
vi propongo una riflessione che rivolgo a tutti i compagni e
amici anarchici e libertari lettori di questa storica rivista,
patrimonio di cultura e politica del mondo anarchico italiano
e non solo.
La riflessione che vorrei fare è il rapporto tra anarchismo
e diritto internazionale umanitario. Mi spiego meglio: negli
ultimi anni, analizzando anche la situazione internazionale
a livello di giurisdizioni, ho osservato che la ripresa di tematiche
legate al diritto internazionale umanitario e alle convenzioni
internazionali per il rispetto della libertà e della
dignità di tutti gli esseri umani sembra essere la vera
opposizione concretamente politica alla forza della pura legge
e dell'autorità imposta.
Per riassumere diritto internazionale in opposizione alla legge,
in quanto il diritto rappresenta l'espressione e il risultato
dell'accordo tra individui della specie umana, espressione che
è per sua essenza universalistica e contemporaneamente
individuale, mentre la legge non è altro che l'espressione
di una determinata casta politica e sociale, particolaristica
e appartenente ad un contesto specifico.
Questo è il punto centrale, un diritto che sia libertario
può essere uno strumento sia giuridico che di lotta politica
al quale il movimento anarchico può rifarsi nella sua
lotta all'autorità costituita? A chi dice che il diritto
è quello applicato dai giudici, noi possiamo rispondere,
in base alla teoria dell'individualismo metodologico, che noi
siamo tutti “giudici”, e quindi tutti noi, quando
agiamo, costituiamo fonte del diritto, sicché la scienza
giuridica si sovrappone alla teoria dell'azione razionale, e
far diritto significa prevedere la condotta degli esseri umani,
comunque si manifesti. E poiché sono i mezzi che giustificano
il fine e non il fine che giustifica i mezzi, se i nostri mezzi
sono il diritto, inteso nella sua ottica universale e umanitaria,
il fine non può che essere la liberazione della specie
umana dall'oppressione dei suoi simili. Essendo tutti noi fonte
di produzione di diritto e agendo tutti in un contesto di riconoscimento
dell'altrui diritto, si potrebbe concretizzare la proposta politica
dei “né servi né padroni” di anarchica
memoria.
Tale approccio mi riconduce a pensare positivamente allo “stato
di diritto” che non va inteso, a ben pensarci, come alla
istituzione di uno Stato di diritto che rappresenta anzitutto
un'utopia poiché è piuttosto utopistica l'aspirazione
che gli uomini di potere siano e si sentano vincolati dal diritto,
tanto più che essi possono modificarlo a piacere attraverso
gli strumenti della legislazione e della stessa revisione costituzionale.
Ma la riflessione sullo “stato di diritto” va considerata
proprio in ottica di quella transizione dalla società
autoritaria alla società libertaria poiché tale
stato di diritto potrebbe essere la condizione ottimale visiva
e concreta da cui partire per nuovi approcci libertari e antiautoritari,
rifacendosi proprio a quelle convenzioni internazionali universalmente
riconosciute e non applicate. Detto ciò lancio il dibattito:
l'anarchismo potrebbe trovare una sua probabile strada nell'applicazione
in modo del tutto originale del diritto internazionale umanitario?
Domenico Letizia
Maddaloni (Caserta)
Tortura e pena di morte/Una distinzione necessaria
Cara redazione,
permettimi di replicare alla gentile ed interessante risposta
del Collettivo “Altra Informazione” alle mie righe
di cautela rispetto alla loro affermazione di una possibile
approvazione della tortura da parte di Kant, rispettivamente
nei numeri “A”
389 (maggio 2014) e “A”
391 (estate 2014).
Condivido il “pathos” – diciamo così
– che pervade le prese di posizione del Collettivo. Tuttavia,
il sentimento e la passione (lo dico soprattutto a me stesso,
in genere tutt'altro ahimé che freddo e distaccato) non
devono mai oscurare la ragione. Che è fatta di analiticità
e di capacità di tracciare distinzioni. Abbiamo bisogno
dei distinguo; altrimenti potemmo ad un certo momento finire
per credere che tutte le vacche sono grigie, ma invero lo saranno
soltanto allorché si fa buio, quando non c'è più
luce. E a noi, come a tutti coloro che si indignano per l'ingiustizia
presente e sperano e s'impegnano per un futuro più degno,
la luce è necessaria. I contorni dei fatti e della realtà,
e direi anche dei principii, hanno bisogno d'essere netti, o
più netti che si riesce a renderli e percepirli. Vanno
allora illuminati. Con l'intelligenza e la pacatezza della riflessione.
Allora il chiaro risulterà distinto dallo scuro.
Ora, la tortura, purtroppo e crudelmente, è una condotta
specifica, con sue proprie (terribili) caratteristiche, fondamentalmente
quella della soglia imprevedibile del dolore inflitto e della
rottura mirata della volontà del corpo umano che così
si ritorce contro il suo stesso soggetto. Non è un caso
che il verbo latino usato per torturare sia “torquere”.
È il corpo umano usato contro il corpo umano e la sua
intrinseca esigenza di dignità. Come diceva Jean Améry,
il corpo umano “scassinato”. La pena di morte, per
quanto anch'essa terribile, ed inaccettabile moralmente, è
un'altra cosa, o può essere un'altra cosa. La cicuta
data a Socrate evidentemente non è un mezzo di tortura.
È crudele, drammatica, non si può accettare, ma
-ripeto- non è tortura; e lo capisce chiunque. È
evidente.
La tortura tradizionalmente ha due forme: quella del supplizio,
che sì si accompagna alla pena di morte. Un supplizio
mi pare oggi essere (ancora evidentemente) la lapidazione dell'adultera
che si pratica in qualche disperato e fanatico angolo di questo
nostro folle mondo. Tortura è anche ciò ch'è
successo nel carcere di Bolzaneto, abuso gratuito della forza
repressiva. Ora mi pare che Kant non si pronunci mai né
a favore dell'uno né dell'altro. Poi c'è la tortura,
diciamo così vera e propria, quella che si è usata
storicamente ed ancora si pratica per estorcere una confessione,
un'informazione, il “water boarding” della CIA e
di Guantanamo. Quella sotto la quale è morto Leone Ginsburg
per mano degli sgherri della Gestapo. Anche su ciò, sulla
tortura “interrogativa”, la “quaestio”
(come la chiamano i Romani), Kant non si pronuncia mai. Eppure
la seconda formulazione dell'imperativo categorico, che prescrive
di non disporre mai di un altro essere umano solo come mezzo
ma sempre anche come fine, sembrerebbe escludere un qualsiasi
sostegno del filosofo di Königsberg a una tale pratica
feroce. Ora, la tortura usata per estrarre delle informazioni
al torturato o a chi assiste alla tortura (il padre del torturato
per esempio, ma potrebbe essere una persona qualunque che non
resiste allo spettacolo osceno della sofferenza altrui) non
è affatto equivalente alla pena di morte. Sostenerlo
significa -- attenzione -- fare il gioco proprio di coloro che
sono a favore dell'uso della tortura (in Italia Angelo Panebianco)
e che vorrebbero addirittura reintrodurla nel recinto del diritto,
dal quale è stata espulsa a partire dalla critica illuministica
(di cui Kant, come è noto, è uno dei grandi protagonisti).
Un argomento a favore della tortura è infatti il seguente:
visto che la pena di morte è legale (almeno in certi
ordinamenti giuridici), perché, considerato anche che
tortura e pena di morte si equivalgono, ed anzi --si sostiene--
la pena di morte è una condotta più crudele, perché
allora non potrebbe essere legale anche la tortura (come lo
è la pena di morte)? Su queste cose ho scritto di recente
un libro con Marina Lalatta (”Legalizzare la tortura?”,
Il Mulino 2013), e non è il caso di ripetermi. Rimando
per approfondimenti ed ulteriori argomenti al libro.
Concludendo, nella disamina dei fatti dell'ingiustizia, abbiamo
bisogno di capire bene ciò che accade, di affilare i
concetti, che sono i nostri strumenti di comprensione; la retorica
e la sovrainterpretazione, e il fare di tutta l'erba un fascio
non ci aiutano granché. Danneggiano invece la nostra
facoltà di giudizio.
Saluti.
Massimo La Torre
Catanzaro
Pordenone/Gli anarchici, il 25 aprile, il prefetto e “Bella
Ciao”
Leggo in “A” 390 (giugno 2014, pag. 122) la
lettera di Angelo Manzoni a proposito del divieto di cantare
“Bella Ciao” durante le celebrazioni del 25 aprile
a Pordenone. Non ho letto l'articolo completo del “Fatto
Quotidiano”, ma lo stralcio riportato non dà la
possibilità di capire l'esatto svolgersi dei fatti. Come
anarchico ed antifascista mi sento di dare alcune delucidazioni
in merito, così da togliere ogni dubbio ad Angelo sul
fatto che gli anarchici siano contro la resistenza: come precisato
dalla redazione, gli anarchici ne sono stati parte integrante.
Noi anarchici ed antifascisti pordenonesi non siamo contro il
25 aprile, non lo contestiamo; contestiamo invece l'atteggiamento
revisionista che pone sullo stesso piano chi ha sacrificato
la propria vita per difendere la libertà e chi ha combattuto
per togliercela e vuole cambiare il senso della storia.
Di seguito una sommaria ricostruzione dei fatti accaduti a Pordenone
negli ultimi anni.
Una precisazione: credo che nessuno dei compagni anarchici pordenonesi,
né in forma organizzata né in forma personale,
abbia mai partecipato ad una commemorazione del 25 aprile prima
del 2001. Personalmente l'ho sempre trovata una cerimonia piuttosto
svuotata di quelli che sono stati i valori della resistenza
e che mi hanno accompagnato nella mia formazione umana prima
che politica – fra l'altro fino al 2001 i pochi cittadini
che vi partecipavano erano per lo più militari, ex-militari,
reduci, autorità politiche etc.
Nel 2001 siamo venuti a conoscenza che l'organizzazione giovanile
di Alleanza Nazionale, capeggiata da Alessandro Ciriani –
futuro presidente della Provincia – voleva parteciparvi
per dare pari dignità ai morti di tutte le parti!
Una provocazione di questo genere non poteva passare. È
inammissibile che qualcuno possa mettere sullo stesso piano
vittime e carnefici. Sappiamo cos'è stato il fascismo:
violenza, privazione dei diritti fondamentali, libertà
negate, etc.. Era inaccettabile che si potesse “onorare”
chi - per oltre un ventennio - si fosse reso responsabile di
sanguinosi crimini contro chiunque si opponesse alle violenze
squadriste. Un insulto. Non potevamo stare in silenzio.
E così il “nostro” primo 25 aprile ci siamo
organizzati per impedire tale affronto. I giovani post-fascisti
si sono presentati con uno striscione con su scritto “Per
una pacificazione nazionale” che hanno esposto alla fine
della commemorazione ufficiale; noi li abbiamo fronteggiati
con un esplicito no pasaran.
Negli anni successivi la questione si è ripetuta. La
partecipazione dei compagni antifascisti sia anarchici che non,
anche dalle altre province limitrofe, si è fatta più
consistente e l'azione di contrasto è stata talvolta
efficace. Ricordo in particolare quando siamo riusciti ad anticipare
le forze dell'ordine che volevano fermarci e ci siamo piazzati
davanti al monumento ai caduti dove i fascisti volevano deporre
una corona di fiori in memoria di tutti i morti. Si è
innescata un'epica e pacifica resistenza passiva per impedire
che portassero a compimento la loro azione: la polizia prelevava
di peso i compagni seduti ed abbracciati l'un l'altra e li portava
ai margini della piazza ma questi, appena liberi dalla presa,
si precipitavano a riprendere posizione.
L'anno successivo la polizia, memore di quanto successo l'anno
precedente, ha formato un muro invalicabile che ci ha impedito
di ripetere l'azione. Però la tenacia delle forze antifasciste
e le polemiche che inevitabilmente si trascinavano di anno in
anno (per altro non fomentate da noi) i giovani post-fascisti
hanno rinunciato alla lugubre sfilata.
Grande vittoria per noi, ma non definitiva. Il già citato
Ciriani nel frattempo aveva fatto carriera ed era diventato
prima vice e poi presidente della Provincia, ed è proprio
questo l'ente organizzatore delle commemorazioni ufficiali in
Piazzale Ellero dei Mille. Brutta beffa: buttato fuori dalla
piazza dalla porta principale ne rientra dalla finestra e per
di più si colloca nel palco ufficiale, da dove tiene
i suoi discorsi.
Ma non ha fatto i conti con la nostra ostinata perseveranza:
ogni anno abbiamo continuato a contestarlo, tant'è che
nelle ultime commemorazioni ha rinunciato a partecipare, delegando
il suo vice Grizzo, leghista, che si è ormai abbonato
alla puntuale bordata di fischi ed insulti per le incommensurabili
idiozie che dice!! Si vede che gli piace così!
Nel frattempo il nostro 25 aprile si è strutturato e
oggi non si limita più alla semplice contestazione. Nelle
settimane precedenti ogni anno organizziamo incontri e dibattiti
sui temi della Resistenza, che culminano nella giornata del
25 aprile con la deposizione di una corona presso un Luogo della
Memoria, all'interno della ex caserma Martelli a Pordenone,
dove furono fucilati alcuni giovani partigiani.
Ma veniamo ad oggi. La nostra presenza in piazza non è
mai stata – ovviamente – gradita dalle forze dell'ordine
e dai politici nostrani più o meno di tutti gli schieramenti.
Le nostre contestazioni danno sicuramente fastidio. Ma non è
solo una questione di turbamento dell'ordine pubblico: probabilmente
siamo di fronte ad un disegno che cerca di isolarci politicamente
e che spalleggia la destra più estrema. Siamo una presenza
scomoda che sovverte le tranquille abitudini di questa cittadina
che preferisce una tediosa cerimonia – fra l'altro con
punte che sconfinano nel ridicolo, visto che la banda cittadina
da anni suona impunemente una famosa canzone patriottica e monarchica
della prima guerra mondiale (La leggenda del Piave). Cosa ci
quagli con la Resistenza nessuno lo sa, ma questo dà
la misura dell'ignoranza storica e del raffazzonamento politico
di questi pericolosi quaquaraquá!
Un fatto eclatante: solo un paio di mesi prima, nel corso di
una visita in città della ministra Kyenge, è stato
concesso alle organizzazioni neofasciste Fiamma Tricolore, Casa
Pound e Forza Nuova di manifestare nei pressi del Municipio.
Vi lascio immaginare i toni della contestazione, i soliti di
cui abbiamo letto nei mesi scorsi di cui è stata oggetto
la Ministra. Solo insulti, volgarità e minacce. E qui
la domanda sorge spontanea: com'è che un prefetto consente
a codesti criminali di sfogare le loro ire contro un ministro
della Repubblica che esso stesso rappresenta, mentre non consente
di cantare “Bella Ciao” durante la festa di liberazione
adducendo motivi di “ordine pubblico”?
Quest'anno però il prefetto l'ha fatta veramente grossa
promulgando questo divieto, generando una tale ondata di indignazione
che ci ha motivati a cantarla comunque - come del resto abbiamo
fatto ogni anno. Anche il responsabile provinciale dell'Anpi
ha dichiarato che “Bella Ciao” sarebbe stata cantata
a ogni costo. Si è arrivati addirittura ad una interrogazione
al Ministro Alfano da parte di un senatore del PD.
Vista la mala parata il Prefetto ha dovuto fare marcia indietro
e questa volta – per la prima volta – “Bella
Ciao” è stata cantata dal palco ufficiale e suonata
dalla banda cittadina. Prima che la banda iniziasse a suonare
sono stati fatti allontanare i reparti in armi schierati; così,
oltre ad aver ottenuto per la prima volta l'esecuzione di “Bella
Ciao”, ci siamo simbolicamente liberati anche dell'esercito.
Il vice presidente della provincia Grizzo si è preso
la sua consueta bordata di fischi. Il sindaco Pedrotti (PD)
è stato contestato per non aver preso posizione in merito
quando doveva. Tra il pubblico è stato distribuito il
testo della canzone e molte voci – molte più degli
anni scorsi – hanno cantato, unendosi a noi.
Come da qualche anno a questa parte ci siamo infine recati presso
la ex-caserma Martelli (luogo dove furono fucilati Martelli
ed altri partigiani, dove accanto al muro che ancora reca i
segni delle pallottole sorge un monumento in ricordo dei giovani
partigiani massacrati dai fascisti) per la nostra manifestazione
in memoria della Resistenza che di anno in anno sta diventando
“La manifestazione”, condivisa con gli antifascisti
di oggi, cittadini di tutte le età, che in questo luogo
depongono un fiore, mangiano, ballano, cantano... e parlano
anche di storia e cercano di capire in che modo si può
essere ancora adesso “resistenti” perché,
e il tentativo maldestro ne è la riprova, non è
ancora finita!
Roberto Furlan
Pordenone
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Gianni
Milano |
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Samain
Ridono
i morti
in cimiteri planetari – ridono della loro sconfitta,
ridono degli aguzzini, ridono dei tronfi gonfi ridicoli
successi,
ridono della vana erezione e degli orpelli, ridono e...
S'arrestano soltanto di fronte all'Emozione
che è femmina dolente degna di compassione, che
è dolore,
vergogna del subire, come una foglia cadente tra gli automi...
Orrido ed insensato ripetersi di eventi, l'uno che uccide
l'altro,
l'altro che squarta l'uno, inni di fumo acre dalle pire
per strada
e il cielo opaco e nauseato e stanco che trascina i lamenti
da un vicolo
a una piazza, da una scuola a uno stadio com'occhio di
Ciclope...
Ridono i morti,
ora che sono morti, che nessuno ha potere su di loro e
squilla
il riso, liberatorio orgasmo, verità della Terra
che sotterra, che riprende
da capo il macinare e mostrùcoli vani aprono bocca
come legnose marionette a imporre la loro merda sulla
testa altrui,
ordinando concerti di mitraglie, sviolinate di sapidi
piaceri
su un Pianeta che ruota senza sosta con vermìcoli
tanti ad agitarsi.
Ridono i morti,
ballano la polka, non sono saggi, non sono sciamannati
–
sono il ritorno verso l'originale, verso l'abbraccio plurimolecolare,
oltre le storie le leggi e le morali in una quiete senza
più aggettivi,
con sopra un prato di novella neve, con sopra un volo
sparso
di cornacchia mentre il pendolo tace
e le parole si sciolgono in un rigo come la neve come
la vita tutta
com'anche la vergogna, la sofferenza e il canto...
Gianni
Milano |
CNT-FAI/Emma Goldman e la Spagna libertaria
Alcuni punti del secondo documento della Goldman (Parigi, Congresso
AIT, Dicembre 1937), pubblicato sullo scorso numero (Ma
la CNT-FAI è in una casa incendiata, pagg. 158-162)
offrono vari spunti di riflessione.
Emma la Rossa presenta le aspre critiche di gruppi e sezioni
non spagnole verso la CNT-FAI, ma senza fare alcun nome, e ricorda
una certa insofferenza degli spagnoli, che giustifica solo parzialmente,
verso queste dure prese di posizione. Inoltre denuncia il pericolo
del dogmatismo, da entrambi le parti in polemica, mentre è
convinta che sarebbe essenziale analizzare ogni problema all'interno
dell'intera tragedia che si sta consumando in Spagna.
La Goldman respinge ogni similitudine fra la CNT-FAI e i bolscevichi
di fronte al potere e su questo punto cambia radicalmente i
propri giudizi del maggio 1936. Oltre alle ovvie differenze
ideologiche, sostiene che la rivoluzione in Russia non correva
pericoli analoghi (per la debolezza delle potenze occidentali
europee logorate dalla Prima Guerra Mondiale) a quelli della
rivoluzione spagnola (l'esercito golpista godeva del massiccio
sostegno nazifascista). Dopo il maggio 1937, e malgrado la repressione
del movimento libertario a Barcellona, la Goldman afferma di
aver trovato una situazione di rafforzamento della CNT-FAI e
misura tale potenza con la maggiore diffusione della stampa
e lo svolgimento di manifestazioni pubbliche affollate. I comunisti,
a quanto sembrerebbe a lei, continuano in una posizione secondaria
se non marginale. Su questo punto la militante americana, secondo
me, sottovaluta il crescente ruolo dei comunisti, che hanno
alle spalle l'unica potenza che aiuta la Repubblica. Ad esempio,
pochi mesi prima il PCE ha determinato un nuovo governo spagnolo
da cui sono esclusi gli esponenti della CNT-FAI e i socialisti
non filocomunisti. Inoltre le carceri di Barcellona risultano
popolate da centinaia di militanti libertari accusati, dopo
il maggio 1937, di delitti comuni. La CNT-FAI non è in
grado di liberarli con l'azione diretta e deve limitarsi a pressioni
politiche sui partiti detentori del potere statale. È
un sintomo di evidente debolezza.
Nel testo del dicembre 1937, a mio parere, Emma esprime quindi
una solidale forma di propaganda del movimento spagnolo piuttosto
che un'analisi critica e obiettiva della situazione sempre meno
favorevole all'anarchismo iberico.
Claudio Venza
Trieste
La custodia del sapere/ L'importanza della cultura orale (e
altro ancora)
Carissimo Paolo,
questo numero estivo, che mi è arrivato solo venerdì
1° agosto e che quindi ho solo sfogliato, mi è apparso,
come quanto di meglio si potesse dire e fare in questo momento.
Ho letto solo il tuo pezzo: “in direzione ostinata e contraria”.
Che bello! Mi ha fatto ricordare di me stesso e di un pensiero
che non mi ha mai abbandonato e che reputo fondamentale nella
mia vita: “Una società è quello che è
non perché gli uomini che ne fanno parte siano buoni
o cattivi ma solo in relazione alla maggiore o minore perdita
di contatto con se stessi, con il proprio io, cui ogni uomo
è più o meno soggetto dal potere e/o dalle circostanze.”
E ciò, che io credo, tu dica nel primo periodo del
tuo scritto.
Ma vorrei aggiungere, non a completamento, ma per segnalare
qualcosa di cui non si parla, ed è, scusandomi di riferirmi
a me, la enorme importanza che ha uno scritto e quella ancora
maggiore che ha “l'orale” che non è, e si
capirà in seguito, quello che si vede, si legge o si
sente in televisione o in rete.
Nella casa che abito conservo, forse, tremila libri. Molti sono
romanzi ma moltissimi sono saggi sociali, politici e filosofici.
Io non mi considero affatto il “proprietario” di
questi libri, tutti. Ho questi libri in casa e me ne sento il
custode e basta. Questo vuol dire che se qualcuno mi chiede
uno o più libri, io li cedo molto volentieri specificando,
però, che da quel minuto sono loro i custodi e devono
impegnarsi con me che, se qualcuno li chiede, devono darli.
Essere custodi di un libro, ma anche di ogni scritto, tra i
quali “A”, occupa un posto di grande importanza
(almeno per me). Vuol dire che non ne sono proprietario e quindi
non sottraggo quello scritto alla possibilità che un
altro uomo possa perdere il “contatto con se stesso”
che ogni libro consente.
Ma esiste un'altra e più importante ed efficace custodia
del “sapere”. È un sistema dimenticato e,
che io sostengo, il potere (politico, culturale, accademico
non mi interessa) vuole assolutamente che sia messo da parte
e sia totalmente inapplicato ed è la custodia della
cultura orale, delle proprie culture orali che pur sembrando
diverse da popolo a popolo sono assolutamente identiche ed unificanti
nel metodo.
Ed “A” ha spesso parlato, difeso e rispettato quel
popolo la cui propria cultura orale e troppo poco conosciuta
se non combattuta: gli Zingari (non so se sia politicamente
corretto chiamarli così ma è così che li
chiamo da bambino ed è da bambino che abitano il mio
cuore).
Un popolo, io credo, è veramente tale se possiede una
cultura orale senza la quale è molto difficile vivere
la certezza del tempo come continuità, la certezza del
futuro come cosa propria. Scrivere si può o si deve quando
c'è incertezza, quando manca la fiducia e la speranza
negli altri attraverso i quali, in definitiva, è possibile
garantirci il futuro. Con lo scritto si comunica ciò
che si ha, con la parola si trasmette ciò che si è.
E si insegna agli altri ad essere essi stessi.
E come degli Zingari, la rivista si è occupata delle
donne. Io ho sempre vissuto con profondo disagio il ruolo che
la società, anche oggi, riserva loro. Ed ho sempre pensato
che la società ha impedito alle donne di avere la loro
storia orale (tranne che nelle società materlineari).
E chi non ha proprie storie orali, legge quelle degli altri,
chi, invece, ha proprie storie le racconta. Il racconto orale
rende proprie le storie anche agli ascoltatori che saranno i
raccontatori di domani. Forse è per questo che le donne
sembrano più degli uomini portate a leggere.
E voglio ancora ricordare un merito di “A” che è
anche il merito principale degli anarchici. Quello di non volersi
confondere con ciò che viene reso obbligatorio dal potere
cioè “la partecipazione al dibattito politico”.
Il dibattito serve solo a creare o rompere alleanze. Gli anarchici
o chi si riferisce a queste idee, non possono essere alleati
con chicchessia, nemmeno con altri anarchici. Per gli anarchici,
la faccio assolutamente sintetica, vale l'uguaglianza. E l'uguaglianza
postula soltanto la convivenza. Gli uomini liberi ed uguali
non possono, quindi, dar vita ad un sistema sociale, ma solo
a comunità.
Credere e volere l'uguaglianza non vuole assolutamente postulare
che gli uomini siano tutti uguali. Ma attenzione, pure i fascisti
o i razzisti o i liberisti (sono cose diverse?) dicono di pensarla
così. Ma c'è una differenza enorme. Costoro credono
che: “tu sei diverso” e questo è gravido
di pessime e brutali conseguenze. Gli anarchici: “io
sono diverso” e questo è alla base di ogni possibile
ed utile e desiderabile costruzione.
Infine, a mio parere, “A” ha saputo insegnare che
gli anarchici non sono utopisti, cioè non portano idee
irrealizzabili. Ha proposto inchieste, testimonianze ed altro
che hanno mostrato come, in linea teorica, non ci sono fatti
irrealizzabili. Ogni guerra sarebbe irrealizzabile se ci
si basasse sulla voglia di non morire cha ha la gente. Ogni
verginità protratta oltre un certo limite sembra inumana
ed impossibile a mantenersi. Eppure moltissimi uomini e donne
ne hanno fatto lo scopo della propria vita se non della propria
morte.
Ha insegnato che non può non constatarsi come ogni
cosa considerata innaturale e nefasta per l'uomo va a finire
che si realizza, mentre un progetto positivo (e quello anarchico
è un progetto positivo) non c'è verso che diventi
pratica.
Questa considerazione sembra dar ragione a coloro che ritengono
l'uomo fondamentalmente “cattivo” e quindi capace
ed adatto solo a realizzare quanto più male è
possibile. Se ciò fosse vero dovremmo dedurne che se
si vuole realizzare qualcosa di positivo, non c'è altra
soluzione che quella di imporla con la maggior determinatezza
possibile, il che vuol dire con la maggior “brutalità”
possibile.
Ma utilizzare il male, il cattivo, per realizzare un bene è
proprio quello che gli anarchici non ammettono. Questo, a mio
parere, non è in contraddizione con le morti ed anche
con le stragi provocate dagli anarchici nella loro storia. Queste
uccisioni non sono mai state dirette alla creazione del progetto
anarchico, ma ad una volontà di giustizia o, se si vuole,
di vendetta. Nessun progetto si voleva realizzare con l'uccisione
di Carnot o di Umberto I; era solo vendetta e giustizia, ma
non intesa come adesione ad un “sistema” che definisse
il giusto e l'ingiusto, ma solo come adesione ad una propria
e solo propria decisione di cosa fosse giusto o ingiusto. Sopportabile
o non più sopportabile.
Ti abbraccio,
Angelo Tirrito
Palermo
Antiziganismo/ Sempre più razzisti e prepotenti
Gentile redazione,
sono un abbonato alla vostra rivista, ho scritto questi versi
pensando al sempre più dilagante razzismo nei confronti
dei rom in particolare e degli immigrati in generale. Forse
è un po' banale, un po' elementare, ma volevo esprimere
in qualche modo la mia indignazione pensando ai continui episodi
di aggressioni razziste nei confronti dei rom, e ai commenti
di approvazione della cosiddetta gente per bene.
Un caro saluto.
Massimo Teti
Roma
noi, coi vestiti puliti, le ascelle
deodorate; noi nella nostra casa
ben arredata, il mutuo, la spesa
all'ipercoop; nelle nostre belle
utilitarie prese a rate, fermi
nel traffico infernale delle vie
delle nostre sporche periferie;
chiusi, tra clacson assordanti, inermi
di fronte allo spettacolo orrendo
delle nostra squallida esistenza
piena di cose inutili, di mancanza
di ideali, di sogni, di un mondo
migliore, più giusto; sempre più arresi
ai richiami del libero mercato
del pensiero unico globalizzato,
che ci ha reso tutti piccolo-borghesi;
ciechi e sordi di fronte al bisogno
di chi chiede soltanto il diritto
a una vita migliore, ad un tetto
sulla testa e a coltivare il sogno
di un futuro migliore per i figli;
gli “altri”che vengono a turbare
la nostra vista, quel vagabondare,
quel rimestare tra i nostri rimasugli
nei cassonetti, in mezzo ai rifiuti
della nostra grande, bella civiltà,
dove non c'è più posto per la pietà,
per i bambini che sono cresciuti
tra lamiere, cartoni e la polvere
dei campi nomadi, nel fango d'inverno
e in estate in un caldo d'inferno;
dove chiedersi ogni giorno se restare
in quel posto dove l'odio cresce
della gente “per bene”, infastidita
da persone che con la loro vita
ricorda loro che forse chi non nasce
nei posti giusti, dove non c'è guerra
né miseria, né dittatura, né fame
fa differenza sulla nostra terra
tra chi pensa domani a che indossare
e chi si chiede se riuscirà a mangiare;
e magari se a qualcuno verrà in mente
una sera di armarsi di bastone
e di andare a dare una lezione
a quei pezzenti che non servono a niente,
che rubano o tendono la mano
e se qualcuno di quelli ci rimane
sarà come aver ammazzato un cane
rabbioso, non un essere umano,
come noi che siamo cittadini
onesti, per bene, ligi alle regole,
paghiamo le tasse, mandiamo nelle scuole;
i nostri cari, piccoli bambini;
i nostri bambini puliti, innocenti
che cresceranno e diventeranno
proprio come noi, anno dopo anno,
sempre più razzisti e intolleranti.
M. T.
I
nostri fondi neri
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Sottoscrizioni. Roberto Ceruti (Albisola Marina
- Sv) 10,00; Aurora e Paolo (Milano) ricordando Amelia
Pastorello e Alfonso Failla, 500,00; Antonio Abbotto
(Sassari) 5,00; Libreria San Benedetto (Genova) 4,70;
Lorenzo Partesana (Sondalo – So) 10,00; Davide
Andrusiani (Castelverde – Cr) 10,00; Raimondo
Aleddu Salaris (San Vero Milis – Or) 10,00; Rino
Quartieri (Zorlesco – Lo) 50,00; Tullio Procacciante
(Milano) 100,00; Davide Giovine (Valpellice –
To) 15,00; Nicola Plebani (Martinengo – Bg) 20,00;
Luciano Collina (Sala Bolognese – Bo) 10,00; Antonio
Ciaramella (Colle Val d'Elsa – Si) 10,00; Gianni
Forlano e Marisa Giazzi (Milano) per onorare Errico
Malatesta a 82 anni dalla sua morte, 100,00; Giorgio
Scalenghe (Omegna – Vb) 10,00; Massimo Teti (Roma)
50,00; Orazio Gobbi (Piacenza) 10,00; Antonio Senta
(Bologna) 20,00; Gianni Antidormi (Avezzano –
Aq) 10,00; Francesco Triggiari (Amandola – Ap)
5,00; Giusy Carnemolla (Marina di Ragusa – Rg)
25,00; Settimio Pretelli (Rimini) ricordando Antonio
Tarasconi, 20,00; Eva Bendinelli (Vetulonia –
Gr) 10,00; Fabrizio Tognetti (Larderello – Pi)
20,00; Andrea Papi (Forlimpopoli – Fc) 40,00;
Roberto Palladini (Nettuno – Rm) 20,00; Roberto
Bernabucci (Cartoceto – Pu) 20,00; Gavino Puggioni
(Como) 10,00; Angelo Tirrito (Palermo) “manifestazione
di una eleganza in direzione ostinata e contraria”,
100,00; Antonino Pennisi (Acireale – Ct) 20,00;
Marco Della Croce (Decimomannu – Ca) 20,00; Pino
Fabiano (Cotronei – Kr) ricordando Spartaco, 10,00;
Maurizio Mamini (Brisighella - Ra) 10,00 (ha pagato
l'abbonamento annuo specificando “come straniero”);
Giuseppe De Vincenti (Brescia) 10,00; Umberto Mandelli
(Milano) 20,00; Silvestro Livolsi (Troina - En) 40,00;
Giorgio Bigongiari (Lucca), 20,00. Totale €
1.374,70.
Abbonamenti sostenitori. (quando non altrimenti
specificato, trattasi di euro 100,00). Roberto
Altobelli (Canale Monterano – Rm); David Licheri
(Altopascio – Lu); Roberto Di Giovannantonio (Roseto
dgli Abruzzi – Te); Carlo Ghirardato (Roma); Cariddi
Di Domenico (Livorno); Renato Girometta (Vicobarone
– Pc); Carmelo Goglio (Olmo al Brembo –
Bg); Luigi Natali (Donnas – Ao) 150,00; Marco
Buraschi (Roma); Marco Galliari (Milano) 200,00 in ricordo
di Franco Pasello; Alfredo Gagliardi (Ferrara) 200,00;
Claudio Piccoli (Milano). Totale €
1.450,00.
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