il “suicidio” di Marcos
Tra la luce e l'ombra
del subcomandante Marcos / foto di Orsetta Bellani
Il 24 maggio scorso, nel corso di una riunione pubblica, il subcomandante Marcos ha annunciato la propria scomparsa, mettendo fine (forse) a un'operazione politico-mediatica finalizzata innanazitutto a tener viva l'attenzione sulla situazione del popolo chiapaneco e sulle sue lotte.
Ecco il testo integrale, tradotto per noi da Silvia Papi, dell'ultimo discorso di Marcos.
La Realidad, Pianeta Terra, maggio 2014.
Compagna, compagno, compagni: buonanotte, buonasera, buongiorno,
qualsiasi sia il vostro paese, il vostro tempo e il vostro modo.
Buona alba.
Vorrei chiedere alle compagne, ai compagni e ai compagne/i della
Sesta [cioè aderenti alla Sesta Dichiarazione della
Selva Lacandona, n.d.t.] che vengono da fuori, in particolare
ai compagni dei mezzi di informazione indipendenti, la loro
pazienza, tolleranza e comprensione per ciò che dirò,
perché queste saranno le mie ultime parole in pubblico
prima di cessare di esistere.
Mi rivolgo a voi e a coloro che attraverso di voi ci ascoltano
e ci guardano.
Forse all'inizio, o mentre ascolterete queste parole, crescerà
nel vostro cuore la sensazione che qualcosa è fuori luogo,
qualcosa non quadra, come se stesse mancando uno o più
pezzi necessari per dare senso al rompicapo che si sta mostrando.
Di per sé manca quello che manca. Poi, giorni, settimane,
mesi, anni, decadi dopo, forse allora si capirà quello
che adesso diciamo.
Le mie compagne e compagni dell'EZLN, a tutti i livelli dell'organizzazione,
non mi preoccupano, perché questo è il nostro
modo: camminare, lottare, sapendo sempre che manca quello che
manca.
Inoltre, che non si offenda nessuno, l'intelligenza dei compagni
e compagne zapatisti è molto più in alto della
media.
Per il resto, siamo soddisfatti e orgogliosi che sia di fronte
a compagne, compagni e compagne/i sia tanto dell'EZLN che della
Sesta, che si fa conoscere questa decisione collettiva.
É bene che sia attraverso i mezzi di informazione liberi,
alternativi e indipendenti, che questo arcipelago di dolore,
rabbie e lotta dignitosa che noi chiamiamo la Sesta, venga a
conoscenza di ciò che dirò, ovunque si trovino.
Se a qualcun altro interessa sapere cosa è successo oggi
dovrà accedere ai mezzi di informazione indipendenti
per venirne a conoscenza. Va bene. Quindi benvenute e benvenuti
nella realtà zapatista.
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Zapatisti
portano una corona di fiori durante l'omaggio a Galeano |
I - Una decisione difficile
Quando irrompemmo e interrompemmo nel 1994 con sangue e fuoco, non iniziava la guerra per noi zapatiste e zapatisti. La guerra dall'alto, con la morte e la distruzione, la spoliazione e l'umiliazione, lo sfruttamento e il silenzio imposto al vinto, la stavamo già subendo da secoli.
Ciò che per noi inizia nel 1994 è uno dei molti momenti della guerra di quelli in basso contro quelli in alto, contro il loro mondo. Quella guerra di resistenza che si combatte quotidianamente nelle strade di qualsiasi angolo dei cinque continenti, nei campi e nelle montagne. Era ed è la nostra come quella di molte e molti in basso, una guerra per l'umanità e contro il neoliberismo. Contro la morte noi chiediamo la vita. Contro il silenzio esigiamo la parola e il rispetto. Contro l'oblio, la memoria. Contro l'umiliazione e il disprezzo, la dignità. Contro l'oppressione, la ribellione. Contro la schiavitù, la libertà. Contro l'imposizione, la democrazia. Contro il crimine, la giustizia.
Cosa viene dopo?
Chi, con un po' di umanità nelle vene, potrebbe o può mettere in discussione queste richieste?
E così allora molti ci ascoltarono. La guerra che iniziammo ci diede il privilegio di arrivare ad orecchi e cuori attenti e generosi, in luoghi vicini e lontani. Mancava quel che mancava e manca quel che manca però allora raggiungemmo lo sguardo dell'altro, il suo ascolto e il suo cuore. E sentimmo la necessità di rispondere ad una domanda decisiva: cosa viene dopo?
Nelle tetre ipotesi della vigilia non rientrava la possibilità di porci alcuna domanda. Così che questa domanda ci portò ad altre: preparare quelli che verranno alla strada della morte? Formare ulteriori e migliori soldati? Investire sforzi nel migliorare la nostra malconcia macchina per la guerra? Simulare dialoghi e disponibilità alla pace, però continuare a prepararci per nuovi attacchi? Ammazzare o morire come unico destino? O dovevamo ricostruire il cammino della vita, quello che avevano rotto e continuano a rompere quelli in alto?
Il cammino non solo dei popoli indigeni, ma anche dei lavoratori, degli studenti, dei maestri, dei giovani e dei contadini, oltre a tutte le differenze, che in alto si celebrano mentre in basso vengono perseguite e punite.
Dovevamo inscrivere il nostro sangue lungo il percorso che altri dirigono verso il Potere o dovevamo girare cuore e sguardo verso quelli che siamo e a quelli che sono come noi, cioè i popoli originari, guardiani della terra e della memoria? Nessuno lo ascoltò allora, però nei primi balbettii che furono le nostre parole avvertimmo che il nostro dilemma non era tra negoziare o combattere, ma tra morire o vivere. Chi avesse avvertito allora che questo iniziale dilemma non era individuale, forse avrebbe capito meglio quello che è successo nella realtà zapatista negli ultimi 20 anni.
Però vi stavo dicendo che noi ci scontrammo con questa domanda e questo dilemma. E scegliemmo. Invece di dedicarci a formare guerriglieri, soldati e squadroni, preparammo promotori di educazione e di salute, e si costruirono le basi della nostra autonomia di cui oggi si meraviglia il mondo. Invece di costruire caserme, migliorare il nostro armamento, costruire muri e trincee, si costruirono scuole, ospedali e centri di salute, migliorammo le nostre condizioni di vita. Invece di lottare per occupare un posto nel Partenone delle morti individualizzate dal basso, scegliemmo di costruire la vita.
Tutto questo nel mezzo di una guerra che, anche se sorda, non era meno letale.
Perché, compagni, una cosa è gridare “non siete soli” e un'altra è affrontare solo con il corpo una colonna di blindati di truppe federali, come successe nella zona di Los Altos in Chiapas, e stare a vedere se hai fortuna e qualcuno se ne accorge, e se hai un po' più di fortuna e quello che se ne accorge si indigna, e ancora un po' più di fortuna e quello che si indigna fa qualcosa.
Nel frattempo, i carri armati furono fermati dalle donne zapatiste e, in mancanza di armamenti, il serpente di acciaio dovette tornarsene indietro a suon di offese e di pietre. E nella zona nord del Chiapas, soffrire per la nascita e lo sviluppo delle “guardie bianche”, sicari armati dei latifondisti, riciclati come paramilitari; nella zona di Tzotz Choj subire le aggressioni continue di organizzazioni contadine che di “indipendente” a volte non hanno nemmeno il nome; nella zona della Selva Tzeltal la combinazione di paramilitari e contras.
E una cosa è gridare “tutti siamo Marcos” o “non tutti siamo Marcos”, a seconda del caso, e un'altra è la persecuzione con tutta la macchina di guerra, l'invasione dei villaggi, le perlustrazioni delle montagne, l'uso di cani addestrati, le pale degli elicotteri che scompigliano i rami degli alberi, il “vivo o morto” che nacque nei primi giorni del gennaio del 1994 e raggiunse il suo livello più isterico nel 1995 e i restanti sei anni di colui che attualmente è impiegato di una multinazionale, e che questa zona Selva Fronteriza soffrì dal 1995, su cui si somma poi la stessa sequenza di aggressioni da parte di organizzazioni contadine, uso dei paramilitari, militarizzazione, attacchi.
Dopo vent'anni
Se c'è qualche mito in tutto questo non è il passamontagna, ma la menzogna che ripetono da quei giorni, ripresa persino da persone con studi elevati, secondo i quali la guerra contro gli zapatisti sarebbe durata solo dodici giorni.
Non farò un racconto dettagliato. Qualcuno con un poco di spirito critico e di serietà può ricostruire la storia, e sommare e sottrarre per far tornare i conti, e dire se furono più i reporter che i poliziotti e i soldati; se furono più gli inganni che le minacce e gli insulti, se il prezzo che si poneva era per vedere il passamontagna o per catturarlo “vivo o morto”. In queste condizioni, alcune volte solo con le nostre forze ed altre con il sostegno generoso e incondizionato di gente buona di tutto il mondo, si avanzò nella costruzione - certamente ancora inconclusa, è vero, però già definita - di ciò che siamo.
Allora non è una frase, fortunata o sfortunata secondo che la si guardi dall'alto o dal basso, quella che dice “siamo qui, i morti di sempre, morendo nuovamente, però adesso per vivere”. É la realtà.
E quasi 20 anni dopo... Il 21 di dicembre del 2012, quando la politica e l'esoterismo coincidevano, come altre volte, nel predicare catastrofi che sono sempre per quelli di sempre, quelli in basso, ripetemmo il colpo di mano del 1° gennaio del ‘94 e, senza sparare un solo colpo, senza armi, solo con il nostro silenzio, umiliammo di nuovo la superbia delle città culla e nido del razzismo e del disprezzo.
Se il primo gennaio 1994 migliaia di uomini e donne senza volto attaccarono e fecero arrendere le guarnigioni che proteggevano le città, il 21 di dicembre del 2012 furono decine di migliaia quelli che occuparono senza pronunciare parole gli edifici da dove si celebrava la nostra sparizione. Il solo fatto inappellabile che l'EZLN non solo non si era indebolito, meno ancora sparito, ma che era cresciuto quantitativamente e qualitativamente sarebbe bastato perché qualsiasi mente mediamente intelligente si rendesse conto che, in questi 20 anni, qualcosa era cambiato all'interno dell'EZLN e delle comunità.
Forse più di uno crede che sbagliammo a scegliere, che un esercito non può e non deve impegnarsi per la pace. Fu per molte ragioni certo, però la principale era ed è perché in questa forma finiremmo per scomparire.
Forse è vero. Forse ci siamo sbagliati nello scegliere di coltivare la vita invece di adorare la morte. Ma noi prendemmo la decisione non ascoltando quelli da fuori. Coloro che chiedono sempre la lotta fino alla morte, finché i morti li mettono gli altri. Scegliemmo, guardandoci e ascoltandoci, essendo lo spirito collettivo che siamo. Scegliemmo la rivolta, cioè la vita. Questo non vuol dire che non sapessimo che la guerra dall'alto avrebbe cercato e cerca di imporre di nuovo il dominio sopra di noi.
Sapevamo e sappiamo che una ed un'altra volta dovremo difendere ciò che siamo e come siamo. Sapevamo e sappiamo che continuerà a esserci la morte, perché ci sia la vita. Sapevamo e sappiamo che per vivere moriamo.
II - Un fallimento?
Dicono che non abbiano ottenuto niente per noi.
Non smette di sorprendere che si maneggi con tanta impudenza questa posizione. Pensano che i figli e le figlie dei comandanti e delle comandanti dovrebbero usufruire di viaggi all'estero, di studi in scuole private e poi di alti posti nelle imprese e nella politica. Che invece di lavorare la terra per ottenere il cibo attraverso l'impegno e il sudore, dovrebbero farsi belli nelle reti sociali e divertirsi nelle discoteche, esibendo lusso.
I subcomandanti dovrebbero procreare e lasciare in eredità ai loro discendenti i loro incarichi, i benefici, i palcoscenici, come fanno i politici di tutti i tipi. Che dovremmo, come fanno i dirigenti della CIOAC-H [Central Independiente de Obreros Agrícolas y Campesinos Histórica, n.d.t.] e di altre organizzazioni contadine, ricevere privilegi e soldi attraverso progetti, tenerci per noi la maggior parte di essi e lasciare alle basi solo le briciole, in cambio del compimento degli ordini criminali che vengono dall'alto.
Però è vero, non abbiamo ottenuto niente per noi. Difficile credere che, vent'anni dopo, quel “nada para nosotros” risulterà essere non solo uno slogan, una frase buona per cartelli e canzoni, ma una realtà, la realtà. Se essere coerenti è un fallimento, allora l'incoerenza è la strada per il successo, la via al Potere.
Però noi non vogliamo andare da quella parte. Non ci interessa. Con questi parametri preferiamo fallire che trionfare.
III - Il cambiamento
In questi 20 anni c'è stato un cambiamento molteplice e complesso nell'EZLN. Alcuni hanno notato solo il più evidente, quello generazionale. Ora stanno portando avanti la lotta e dirigendo la resistenza quelli che erano piccoli, o ancora non nati, all'inizio dell'insurrezione.
Però alcuni studiosi non si sono resi conto di altri cambiamenti. Quello di classe: da quello di classe “media istruita” a quello dell'indigeno contadino. Quello di etnia: dalla direzione meticcia alla direzione nettamente indigena.
E il più importante: il cambiamento di pensiero. Dall'avanguardismo rivoluzionario al comandare obbedendo; dalla presa del Potere in alto alla creazione del potere dal basso; dalla politica professionale alla politica quotidiana; dai dirigenti ai villaggi; dall'emarginazione di genere alla partecipazione diretta delle donne; dalla discriminazione dell'altro, alla celebrazione della differenza.
Non mi dilungherò ulteriormente su questo, perché è stato proprio il corso “La Libertà secondo gli/le zapatisti/e” l'opportunità di constatare se nel territorio organizzato conta più il personaggio della comunità.
Personalmente, non capisco perché della gente pensante che afferma che la storia la fanno i popoli, si spaventi così tanto di fronte all'esistenza di un governo del popolo dove non appaiono gli “specialisti” nel governo. Perché gli dà così tanto timore che siano i villaggi quelli che comandano, quelli che dirigono i loro propri passi? Perché muovono la testa con disapprovazione di fronte al comandare obbedendo? Il culto dell'individualismo incontra nel culto dell'avanguardismo il suo estremo più fanatico.
Ed è stato precisamente questo, che gli indigeni comandano e che adesso un indigeno sia il portavoce e il capo, quello che li terrorizza, li allontana, ed alla fine se ne vanno per continuare a cercare qualcuno che parli di avanguardie, capi e leader. Perché c'è razzismo anche nella sinistra, soprattutto in quella che si pretende rivoluzionaria.
L'EZLN non è di questi. Per questo non chiunque può essere zapatista.
IV - Un ologramma che cambia a modo suo. Quello che non sarà
Prima dell'alba del 1994 passai dieci anni in queste montagne.
Conobbi e mi relazionai personalmente con alcuni nella cui morte
morimmo in molti. Da allora conosco e mi relaziono con tanti
altri che oggi sono qui con noi. Molte albe mi trovai solo con
me stesso cercando di digerire le storie che mi raccontavano,
i mondi che si disegnavano coi silenzi, le mani e gli sguardi,
la loro insistenza nel segnalare qualcosa più in là.
Era un sogno quel mondo, così altro, così lontano,
così altrui?
A volte pensai che erano andati troppo avanti, che le parole
che ci guidarono e ci guidano venivano da tempi per i quali
non c'erano ancora calendari, persi come erano in luoghi imprecisati:
sempre il dignitoso sud onnipresente in tutti i punti cardinali.
Poi ho saputo che non mi parlavano di un mondo inesatto e, per
tanto, improbabile.
Questo mondo si muoveva già nei loro passi. Non l'avete
visto? Non lo vedete?
Non abbiamo ingannato nessuno in basso. Non nascondiamo che
siamo un esercito, con la sua struttura piramidale, il suo centro
di comando, le sue decisioni dall'alto verso il basso. Non neghiamo
quello che siamo per ingraziarci con i libertari e nemmeno per
moda. Chiunque può vedere adesso se il nostro è
un esercito che soppianta e impone. Per dire questo ho già
chiesto l'autorizzazione al compagno Subcomandante Moisés
per farlo: niente di ciò che abbiamo fatto, nel bene
e nel male, sarebbe stato possibile se un esercito armato, quello
zapatista di liberazione nazionale, non si fosse alzato contro
il cattivo governo esercitando il diritto alla violenza legittima.
La violenza di colui che sta in basso di fronte alla violenza
di colui che sta in alto.
Siamo guerrieri e come tali sappiamo quale è il nostro
ruolo ed il nostro momento.
All'alba del primo giorno del primo mese dell'anno 1994, un
esercito di giganti, cioè di indigeni ribelli, scese
sulle città per far tremare il mondo con il suo passo.
Appena pochi giorni dopo, con il sangue dei nostri caduti ancora
fresco nelle strade cittadine, ci rendemmo conto che quelli
di fuori non ci vedevano. Abituati a guardare gli indigeni dall'alto,
non alzavano lo sguardo per guardarci. Abituati a vederci umiliati,
il loro cuore non comprendeva la nostra dignitosa rivolta. Il
loro sguardo si era fermato all'unico meticcio che avevano visto
con il passamontagna, cioè non guardavano. I nostri capi
e le nostre cape dissero: “Vedono solamente la loro piccolezza,
facciamo che qualcuno diventi piccolo quanto loro, così
che possano vederlo e, attraverso di lui ci, vedano”.
Cominciò così una complessa manovra di distrazione,
un trucco di magia terribile e meravigliosa, una maliziosa mossa
da parte del cuore indigeno che siamo, la sapienza indigena
sfidava la modernità in uno dei suoi bastioni: i mezzi
di comunicazione. Cominciò allora la costruzione del
personaggio chiamato “Marcos”.
Vi chiedo che mi seguiate in questo ragionamento.
Supponiamo che sia possibile un altro modo per neutralizzare
un criminale. Per esempio, creandogli la sua arma omicida, fargli
credere che è vera, portarlo a costruire un suo piano
e poi far sì che, nel momento in cui si prepara a sparare,
l'“arma” torni ad essere quello che sempre fu: un'illusione.
È il sistema intero, soprattutto attraverso i mezzi di
comunicazione, che gioca a costruire “celebrità”
per poi distruggerle se non si piegano ai loro disegni. Il suo
potere risiedeva (ora non più, in questo sono stati spiazzati
dalle reti sociali) nel dire cosa e chi esisteva, nel momento
in cui sceglievano cosa nominare e su cosa tacere. Comunque
non fatemi troppo caso, come si è dimostrato in questi
20 anni, io non so niente di mezzi di comunicazione di massa.
Il fatto è che il Sup Marcos passò da essere
un portavoce ad essere un distrattore.
Se il cammino della guerra, cioè della morte, ci aveva
preso dieci anni; quello della vita necessitò più
tempo e maggiori sforzi, per non parlare di sangue versato.
Perché, anche se non lo credete, è più
facile morire che vivere. Avevamo bisogno di tempo per essere
e per incontrare chi sapesse vederci per quello che siamo. Avevamo
bisogno di tempo per incontrare chi non ci guardasse dall'alto,
né dal basso, ma di fronte, che ci guardasse con uno
sguardo da compagno.
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Zapatiste
del Caracol della Garrucha |
Costruire un personaggio
Vi dicevo che cominciò allora la costruzione del personaggio. Marcos un giorno aveva gli occhi azzurri, un altro li aveva verdi, o marroni, o color miele, o neri, dipendeva dall'intervistatore e dal fotografo. Allo stesso modo un giorno era riserva di una squadra di calcio professionista, un altro impiegato in un negozio, autista, filosofo, cineasta, e tutti i differenti eccetera che potete trovare sui mezzi di comunicazione commerciali di quei tempi nei diversi paesi. C'era un Marcos per ogni occasione, cioè per ogni intervista. E non fu facile, credetemi, allora non c'era Wikipedia e se venivano dalla Spagna dovevo informarmi se il “corte inglés” [catena di grandi magazzini spagnola, n.d.t.], per esempio fosse un vestito tipico dell'Inghilterra, un negozio di generi alimentari, o un centro commerciale.
Se mi permettete di definire il personaggio Marcos, allora direi senza dubbio che fu un pupazzo. Affinché mi intendiate, diciamo che Marcos era un Mezzo di comunicazione non libero (attenzione: non è lo stesso che essere un mezzo di comunicazione commerciale).
Nella costruzione e nella gestione del personaggio commettemmo alcuni errori.
“Es de humanos el herrar”, dijo el herrero. [Alla lettera: è degli umani il ferrare, disse il fabbro ferraio. Gioco tra le parole herrar/ ferrare e errar/ sbagliare, errare, n.d.t.]
Durante il primo anno finimmo tutto il repertorio dei “Marcos” possibili. Così che all'inizio del 1995 eravamo in difficoltà mentre il processo avviato nei villaggi stava iniziando i suoi primi passi. Non sapevamo come fare. Fu allora che Zedillo, con il PAN [Partito Azione Nazionale, n.d.t.] alla mano “scopre” Marcos con lo stesso metodo scientifico con cui trova le ossa, cioè per “delazione esoterica”. La storia del tampiqueño [uomo di Tampico, città natale di Rafael Sebastián Guillén Vicente, uomo identificato dalle autorità messicane come il subcomandante Marcos, n.d.t.] ci dette fiato, anche se la frode successiva della “Paca de Lozano” ci fece temere che la stampa commerciale mettesse in discussione pure la “scoperta” di Marcos e venisse a sapere che era una ulteriore frode. Fortunatamente non fu così. Come a questa, i mezzi di comunicazione continuarono a credere ad altre cose simili.
Più tardi il tampiqueño arrivò in queste terre e, insieme con il Subcomandante Insurgente Moisés, parlammo con lui, offrendogli di fare una conferenza stampa congiunta, così avrebbe potuto liberarsi dalla persecuzione perché sarebbe stato evidente che lui e Marcos non erano la stessa persona. Non volle. Venne a vivere qua. Alcune volte uscì e si può vedere la sua faccia nelle foto ricordo dei suoi genitori. Se volete potete intervistarlo. Adesso vive in una comunità, a... Ah, non vuole che si sappia dove vive di preciso. Non diremo nient'altro così che lui, se lo vorrà, possa un giorno raccontare la storia che lui visse dal 9 febbraio del 1995. Da parte nostra ci interessa solamente ringraziarlo per averci passato dei dati che ogni tanto usiamo per alimentare la “certezza” che il Sup Marcos non è chi è in realtà, cioè un pupazzo o un ologramma, ma un professore universitario, originario dell'attualmente doloroso territorio di Tamaulipas.
Nel frattempo continuavamo a cercare, cercando voi, coloro che adesso sono qui, e quelli che non sono qui però ci sono.
Lanciammo una iniziativa dietro l'altra per incontrare l'altro, l'altra, gli altri compagni. Differenti iniziative, cercando di incontrare l'osservazione e l'ascolto di cui avevamo bisogno e che meritavamo. Nel frattempo continuava il miglioramento dei villaggi, la trasformazione di cui si è parlato molto o poco, ma che si può constatare direttamente, senza intermediari.
Nella ricerca dell'altro abbiamo fallito una volta dietro l'altra. Chi incontravamo o voleva dirigere o voleva che lo dirigessimo. C'era chi si avvicinava e lo faceva nel tentativo di usarci, oppure per guardare indietro con la nostalgia sia antropologica che militante. Così per alcuni eravamo comunisti, per altri trotskisti, per altri anarchici, per altri maoisti, per altri millenaristi, e così avanti, vi lascio i vari “isti” perché usiate quello che vi pare.
Né greggi, né pastori
Fu così fino alla Sesta Dichiarazione della Selva Lacandona, la più audace e la più zapatista delle iniziative che abbiamo lanciato fino ad ora. Con la Sesta finalmente abbiamo incontrato chi ci guarda dritto in faccia, ci saluta e abbraccia, e così si saluta ed abbraccia. Con la Sesta abbiamo incontrato voi. Qualcuno che capiva che non stavamo cercando né pastori che ci guidassero, né greggi da condurre alla terra promessa. Né padroni né schiavi. Né capi, né masse senza testa. Però dovevamo ancora vedere se era possibile che riusciste a guardare e a sentire ciò che noi essendo siamo.
Intanto all'interno dei villaggi i passi avanti erano stati impressionanti. E si arrivò al corso “La Libertà secondo gli/le zapatisti/e” durante il quale, in tre volte, ci rendemmo conto che c'era già una generazione che poteva guardarci alla pari, che poteva ascoltarci e parlarci senza aspettare una guida, né pretendere sottomissione o, all'opposto, qualcuno che la si seguisse.
Marcos, il personaggio, non era più necessario. La nuova tappa nella lotta zapatista era già pronta. Successe allora quello che successe e molte e molti di voi, compagni e compagne della Sesta, lo conoscete direttamente. Potrete dire che quella del personaggio fu un'idea oziosa, però una revisione onesta di quei giorni dirà quante e quanti si girarono a guardarci, con piacere o dispiacere, per le ridicolaggini di quel pupazzo. È così che il cambio del comando non avviene per malattia o morte, né per sgombero interno o epurazione. Avviene logicamente in base ai cambiamenti interni che ha avuto e che ha l'EZLN.
Giornalismo e pettegolezzo
So che questo non quadra con i rigidi schemi che ci sono tra le differenti persone che stanno in alto, però in realtà non ci interessa. E se questo rovina la povera e pigra elaborazione dei pettegoli e zapatologi di Jovel, non c'è problema. Non sono né sono stato malato, non sono né sono stato morto. O invece sì, tante volte mi hanno ucciso, tante volte sono morto e di nuovo sono qui. Se alimentammo queste dicerie fu perché così ci conveniva. L'ultimo gran trucco dell'ologramma fu di simulare una malattia terminale, e tutte le morti che ha patito.
Di sicuro la frase “se la sua salute lo permette”, che il Subcomandante Moisés usò nel comunicato per annunciare la condivisione con il CNI, era un equivalente di “se il popolo lo chiede” o “se i sondaggi mi favoriscono” o “se Dio mi da il permesso” o altri luoghi comuni che sono stati quelle frasi ripetute continuamente dalla classe politica negli ultimi tempi.
Se mi permettete un consiglio: dovreste coltivare un po' di senso dell'umorismo, non solo per la salute mentale e fisica, ma anche perché senza senso dell'umorismo non si può comprendere lo zapatismo. E quello che non capisce, giudica; e quello che giudica, condanna.
In realtà questa è stata la parte più semplice del personaggio. Per alimentare dicerie bastò solamente dire ad alcune persone in particolare: “ti voglio dire un segreto però promettimi che non lo racconterai a nessuno”. Naturalmente lo raccontarono.
I principali collaboratori involontari della diceria della malattia e della morte sono stati gli “esperti in zapatologia” che nella presuntuosa Jovel e nella caotica Città del Messico pensano di essere vicini allo zapatismo e suoi profondi conoscitori; oltre che, chiaramente i poliziotti che si fanno pagare come giornalisti, i giornalisti che si fanno pagare come poliziotti, ed i/le giornalisti/e che si fanno pagare solo, e male, come giornalisti. Grazie a tutte e tutti loro. Grazie per la loro discrezione. Hanno fatto esattamente come supponevamo che avrebbero fatto. L'unico lato negativo di tutto questo è che adesso dubito che qualcuno confidi loro un segreto.
É una nostra convinzione ed una nostra pratica che per ribellarsi e lottare non sono necessari né leader né capi né messia né salvatori. Per lottare si ha solo bisogno di un po' di vergogna, un tanto di dignità e molta organizzazione. Tutto il resto, o serve al collettivo o non serve. É stato particolarmente comico quello che il culto all'individuo ha provocato nei politologi e analisti che guardano le cose dall'alto. Ieri dicevano che il futuro del popolo messicano dipendeva dall'alleanza di due personalità. L'altro ieri dissero che Peña Nieto [politico messicano, n.d.t.] si rendeva indipendente da Salinas de Gortari [politico messicano, n.d.t.], senza rendersi conto che, allora, se criticavano Peña Nieto, si mettevano dalla parte di Salinas de Gortari; e che se criticavano quest'ultimo, appoggiavano Peña Nieto. Adesso dicono che si deve optare per una fazione nella lotta per il controllo delle telecomunicazioni, così che o stai con Slim o stai con Azárraga-Salinas. E, più in alto ancora, o con Obama o con Putin.
Solo un ologramma
Coloro che sospirando guardano verso l'alto possono continuare
a cercare il loro leader; possono continuare a pensare che da
adesso si rispetteranno i risultati elettorali; che adesso sì,
Slim sosterrà l'opzione elettorale della sinistra; che
adesso sì, in “Game of Thrones” appariranno
i dragoni e le battaglie; che adesso sì, nella serie
televisiva “The Walking Dead”, Kirkman sarà
come il fumetto; che adesso sì, le attrezzature fatte
in Cina non si romperanno al primo uso; che adesso sì,
il calcio sarà uno sport e non un affare.
E sì, può darsi che in alcuni di questi casi possa
succedere, però non si deve dimenticare che, in ogni
caso, siete tutti semplici spettatori, cioè consumatori
passivi. Coloro che amarono e odiarono il Sup Marcos
adesso sanno che hanno odiato e amato un ologramma, quindi i
loro amori e odi sono stati inutili, sterili, vuoti.
Non ci sarà una casa-museo o targhe di metallo a ricordare
il posto dove sono nato e cresciuto. Né ci sarà
chi viva dell'essere stato il subcomandante Marcos. Né
si erediterà il suo nome né il suo incarico. Non
ci saranno viaggi “tutto compreso” per tenere conferenze
all'estero. Non ci saranno trasferimenti né cure mediche
in ospedali di lusso. Non ci saranno vedove né eredi.
Non ci saranno funerali, né onori, né statue,
né musei, né premi, né niente di ciò
che il sistema fa per promuovere il culto all'individuo e per
disprezzare il collettivo.
Il personaggio fu creato e adesso noi, i suoi creatori, gli
zapatisti e le zapatiste, lo distruggiamo. Se qualcuno capisce
la lezione che danno i nostri compagni e compagne avrà
compreso uno dei fondamenti dello zapatismo. Negli ultimi anni
è successo quello che è successo e allora vedemmo
che il pupazzo, il personaggio, l'ologramma, non era più
necessario. Più volte lo abbiamo pianificato, e più
volte abbiamo aspettato il momento adatto: il momento e il luogo
precisi per mostrare quello che siamo davvero a coloro che davvero
sono.
Poi arrivò Galeano [maestro nella Escuelita Zapatista,
ucciso il 2 maggio, n.d.t.] con la sua morte a indicarci
il luogo e il momento: “Qui, a La Realidad; adesso: nel
dolore e nella rabbia”.
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Comandancia
del EZLN durante l'omaggio a Galeano |
V - Il dolore e la rabbia. Sussurri e grida
Quando siamo arrivati qui al Caracol de La Realidad, senza
che nessuno ce lo dicesse abbiamo cominciato a parlare con sussurri.
A voce bassa parlava il nostro dolore, a voce molto bassa la
nostra rabbia. Come se cercassimo di evitare che rumori, suoni
che gli erano estranei, facessero scappare Galeano. Come se
le nostre voci e i nostri passi lo chiamassero.
“Aspetta compagno”, diceva il nostro silenzio.
“Non te ne andare”, sussurravano le parole.
Ma ci sono anche altri dolori e altre rabbie.
In questo stesso momento, in altri angoli del Messico e del
mondo, un uomo, una donna, un altro, un'altra, un bambino, una
bambina, un anziano, una anziana, una memoria, è colpita
a tradimento, circondata dal sistema che è diventato
crimine vorace, è bastonata, presa a colpi di machete,
di arma da fuoco, uccisa, trascinata tra gli insulti, abbandonata,
il suo corpo recuperato e vegliato, la sua vita sotterrata.
Solo alcuni nomi: Alexis Benhumea, assassinato nello Stato del
México. Francisco Javier Cortés, assassinato nello
Stato del México. Juan Vázquez Guzmán,
assassinato in Chiapas. Juan Carlos Gómez Silvano, assassinato
in Chiapas. Il compagno Kuy, assassinato al DF. Carlo Giuliani,
assassinato in Italia. Aléxis Grigoropoulos, assassinato
in Grecia. Wajih Wajdi al-Ramahi, assassinato in un Campo profughi
nella città di Ramalla a14 anni, ucciso da un colpo sparato
alla schiena da un posto di osservazione dell'esercito israeliano,
non ci furono manifestazioni, né proteste né niente
per la strada. Matías Valentín Catrileo Quezada,
mapuche assassinato in Cile. Teodulfo Torres Soriano, compagno
della Sesta, desaparecido nella Città del Messico.
Guadalupe Jerónimo e Urbano Macías, abitanti di
Cherán, assassinati a Michoacán. Francisco de
Asís Manuel, desaparecido a Santa María
Ostula. Javier Martínes Robles, desaparecido a
Santa María Ostula. Gerardo Vera Orcino, desaparecido
a Santa María Ostula. Enrique Domínguez Macías,
desaparecido a Santa María Ostula. Martín
Santos Luna, desaparecido a Santa María Ostula.
Pedro Leyva Domínguez, assassinato a Santa María
Ostula. Diego Ramírez Domínguez, assassinato a
Santa María Ostula. Trinidad de la Cruz Crisóstomo,
assassinato a Santa María Ostula. Crisóforo Sánchez
Reyes, assassinato a Santa María Ostula. Teódulo
Santos Girón, desaparecido a Santa María
Ostula. Longino Vicente Morales, desaparecido a Guerrero.
Víctor Ayala Tapia, desaparecido a Guerrero. Jacinto
López Díaz “El Jazi”, assassinato
a Puebla. Bernardo Vázquez Sánchez, assassinato
a Oaxaca. Jorge Alexis Herrera, assassinato a Guerrero. Gabriel
Echeverría, assassinato a Guerrero. Edmundo Reyes Amaya,
desaparecido a Oaxaca. Gabriel Alberto Cruz Sánchez,
desaparecido a Oaxaca. Juan Francisco Sicilia Ortega,
assassinato a Morelos. Ernesto Méndez Salinas, assassinato
a Morelos. Alejandro Chao Barona, assassinato a Morelos. Sara
Robledo, assassinata a Morelos. Juventina Villa Mojica, assassinata
a Guerrero. Reynaldo Santana Villa, assassinato a Guerrero.
Catarino Torres Pereda, assassinato a Oaxaca. Bety Cariño,
assassinato a Oaxaca. Jyri Jaakkola, assassinato a Oaxaca. Sandra
Luz Hernández, assassinata a Sinaloa. Marisela Escobedo
Ortíz, assassinata a Chihuahua. Celedonio Monroy Prudencio,
desaparecido a Jalisco. Nepomuceno Moreno Nuñez, assassinato
a Sonora.
I migranti e le migranti forzatamente spariti e probabilmente
assassinati in qualche angolo del territorio messicano.
I prigionieri che si vuol uccidere mentre sono in vita: Mumia
Abu Jamal, Leonard Peltier, i Mapuche, Mario González,
Juan Carlos Flores.
Il continuo sotterramento delle voci che furono vita, fatte
tacere sotto terra o con il chiudersi delle sbarre.
E la beffa maggiore è che, in ogni palata di terra gettata
dallo sbirro di turno, c'è il sistema che dice: “non
vali, non importi, nessuno ti piange, a nessuno fa rabbia la
tua morte, nessuno segue i tuoi passi, nessuno continua la tua
vita”. E con l'ultima palata sentenzia: “anche se
catturano e puniscono noi che ti uccidiamo, incontrerò
sempre un altro, un'altra, altri che di nuovo ti nasconderanno
e ripeteranno la macabra danza che ha posto fine alla tua vita”.
E dice: “La tua piccola, nana giustizia, prodotta perché
i mezzi di comunicazione commerciali simulino ed ottengano un
po' di calma per frenare il caos che gli è precipitato
addosso, non mi spaventa, non mi fa male, non mi punisce”.
Cosa gli diciamo a questo cadavere che, in qualsiasi angolo
del mondo povero, viene sotterrato nell'oblio? Che contano solo
la nostra rabbia e il nostro dolore? Che importa solo il nostro
coraggio? Se mentre sussurriamo la nostra storia, non ascoltiamo
le sue grida, il suo urlo?
Ha tanti nomi l'ingiustizia e sono tante le grida che provoca.
Ma il nostro dolore e la nostra rabbia non ci impediscono di
ascoltare. E i nostri sussurri non sono solo per piangere la
perdita dei nostri morti ingiustamente. Sono per poter ascoltare
altri dolori, fare nostre altre rabbie e continuare così
nel complicato, lungo e tortuoso cammino per fare di tutto questo
un grido che si trasformi in lotta liberatrice. E non dimenticare
che, mentre qualcuno sussurra, qualcuno grida. E solo l'udito
attento può ascoltare.
Mentre parliamo ed ascoltiamo, in questo momento qualcuno grida
di dolore, di rabbia. E così, come è necessario
imparare a dirigere lo sguardo, anche l'udito deve trovare la
direzione che lo renda fertile. Perché, mentre qualcuno
riposa, c'è chi continua ad andare in salita e, per sostenere
questo impegno, basta abbassare lo sguardo e alzare il cuore.
Potete? Potrete?
La piccola giustizia assomiglia alla vendetta. La piccola giustizia
è quella che spartisce impunità, e punendo uno
assolve altri. La giustizia che noi vogliamo, per la quale lottiamo,
non si esaurisce nell'incontrare gli assassini del compagno
Galeano e vedere che ricevano la loro punizione (che così
sarà, che nessuno si lasci ingannare). La ricerca paziente
e ostinata vuole la verità, non il sollievo della rassegnazione.
La giustizia grande ha a che vedere con il compagno Galeano
sotterrato.
Perché ci domandiamo non cosa facciamo con la sua morte,
ma cosa dobbiamo fare con la sua vita.
Scusatemi se entro nel fangoso terreno dei luoghi comuni, ma
questo compagno non meritava di morire, non così. Tutto
il suo impegno, il suo sacrificio quotidiano, puntuale, invisibile
per chi non era dei nostri, fu per la vita. E vi posso dire
che fu un essere straordinario e anche di più, e questo
è quello che meraviglia, che ci sono migliaia di compagni
e compagne come lui nelle comunità indigene zapatiste,
con la stessa volontà, l'identico impegno, la stessa
chiarezza e un unico destino: la libertà. Facendo macabri
conti: se qualcuno merita la morte è chi non esiste ne
è mai esistito, se non nella fugacità dei mezzi
di comunicazione commerciali.
Ci ha già detto il nostro compagno capo e portavoce dell'EZLN,
il Subcomandante Moisés, che nell'uccidere Galeano, o
chiunque altro degli zapatisti, quelli in alto volevano assassinare
l'EZLN. Non come esercito, ma come ribelle testardo che costruisce
e innalza la vita dove loro desiderano la landa desolata delle
industrie minerarie, petroliere, turistiche, la morte della
terra e di coloro che la abitano e lavorano.
Ho già detto che siamo venuti, come Comando Generale
dell' Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale, a dissotterrare
Galeano. Pensiamo che è necessario che uno di noi muoia
perché Galeano viva. E per fare in modo che questa impertinente
che è la morte resti soddisfatta, nel posto di Galeano
mettiamo un altro nome così che Galeano viva e la morte
si porti via non una vita, ma solo un nome, delle lettere vuote
di significato, senza storia propria, senza vita.
Così abbiamo deciso che Marcos oggi cesserà di
esistere. Lo condurranno per mano nell'ombra il guerriero e
la piccola luce perché non si perda nel cammino, Don
Durito se ne andrà con lui e lo stesso farà il
Vecchio Antonio [Don Durito e il Vecchio Antonio sono due
personaggio inventati da Marcos, n.d.t.].
Non sentiranno la mancanza le bambine ed i bambini che prima
si riunivano per ascoltare i suoi racconti, perché adesso
sono grandi, hanno giudizio e lottano già per la libertà,
la democrazia e la giustizia, che sono il compito di ogni zapatista.
Il gatto-cane, e non un cigno, intonerà adesso il canto
di congedo. E alla fine, quelli che capiscono, sapranno che
non se ne va chi non c'è mai stato, né muore chi
non ha vissuto.
E la morte sarà ingannata da un indigeno col nome di
battaglia di Galeano, e su quelle pietre posate sulla sua tomba
tornerà ad andare e ad insegnare, a chi lo vorrà,
le basi dello zapatismo, cioè non vendersi, non arrendersi,
non tentennare.
Ah, la morte! Come se non fosse evidente che a quelli lassù
in alto li libera da tutta la corresponsabilità, più
ancora delle orazioni funebri, degli omaggi tristi, le statue
sterili, il museo che tiene sotto controllo.
A noi? Bene, a noi la morte ci riguarda per ciò che ha
di vita e così siamo qui, ad ingannare la morte.
Compagni: detto tutto questo, essendo le ore 2.08 del 25 di
maggio 2014 sul fronte di combattimento sud orientale dell'EZLN,
dichiaro che cessa di esistere quello che avete conosciuto come
Subcomandante Insurgente Marcos, l'autodenominato “subcomandante
d'acciaio inossidabile”.
Questo è tutto.
Dalla mia voce non parlerà più la voce dell'Esercito
Zapatista di Liberazione Nazionale.
Bene. Salute e “hasta nunca”... o “hasta
siempre”, chi ha compreso saprà che questo
non importa più e che non ha mai importato.
Dalla Realidad zapatista.
Subcomandante Insurgente Marcos.
Messico, 24 maggio 2014.
P.S.1. Game is over? P.S.2. Scacco Matto? P.S.3. Colpito?
P.S. 4. Ci vediamo, ragazzi, e mandate tabacco. P.S. 5. Mmh...
così questo è l'inferno... Questo Piporro, Pedro,
José Alfredo! Come? Maschilista? Nah, non lo credo, ma
se io mai... P.S.6. Cioè, come chi dice che senza il
vestito da pupazzo, ora posso andare nudo? P.S. 7. Sentite,
è molto buio qua, ho bisogno di una lucina.
[...]
(si sente una voce fuori campo)
Buona alba compagne e compagni. Il mio nome è Galeano,
Subcomandante Insurgente Galeano.
Qualcun altro si chiama Galeano?
(si sentono voci e grida)
Ah, dopodiché mi hanno detto che se tornassi a nascere,
lo farei collettivamente.
Così sia..
Buon viaggio. Abbiate cura di voi, abbiate cura di noi.
Dalle montagne del Sud Est Messicano.
Subcomandante Insurgente Galeano.
Messico, maggio del 2014.
(traduzione dallo spagnolo di Silvia Papi)
“La
gente applaudiva,
intonava cori, alcuni piangevano”
di Orsetta Bellani
Nel cuore della Selva Lacandona era presente anche la “nostra” Orsetta Bellani. Ecco il suo resoconto della notte in cui ha avuto luogo il “suicidio” politico del subcomandante Marcos.
Una pioggia fine cadeva sul Caracol della Realidad, nella profondità della Selva Lacandona, la notte del 24 maggio scorso. La guardavo attraverso la luce di un faretto, in attesa del subcomandante Marcos.
Mi aspettavo che sarebbe salito sul palco, dove erano stati sistemati un tavolo e due sedie, per dare il suo discorso su José Luis Solís López, conosciuto anche come Galeano, la base d'appoggio dell'EZLN ucciso da membri della Central Independiente de Obreros Agrícolas y Campesinos-Histórica (CIOAC-H), del Partido de Acción Nacional (PAN) e del Partido Verde Ecologista de México (PVEM), un partito che di ecologista non ha nulla e che in Chiapas è rappresentato dal governatore Manuel Velasco Coello.
Eravamo circa 3mila persone, tra basi d'appoggio dell'EZLN e aderenti alla Sexta provenienti da tutto il Messico, arrivate in una carovana che sembrava non finire mai. L'atmosfera era raccolta, intima, il pubblico dell'evento era in qualche modo stato selezionato. All'inizio non sapevamo il motivo, poi lo abbiamo capito.
“Vogliamo giustizia, non vendetta. I paramilitari sono dei poveretti, manipolati e ingannati dai progetti che gli offre il mal governo”, ha detto il subcomandante insurgenteMoisés parlando dell'omicidio di Galeano, davanti al pubblico e ai media liberi e indipendenti, esplicitamente convocati dagli zapatisti per l'evento. I media commerciali, invece, sono stati lasciati fuori.
Pensavamo che la convocazione fosse solo un riconoscimento del nostro lavoro, non potevamo immaginare che fosse una mossa degli zapatisti per renderci, insieme alle basi d'appoggio e agli altri aderenti alla Sexta, unici testimoni di un evento storico. La fonte di ogni parola che è stata scritta dai grandi media di tutto il mondo, la versione originale di ogni immagine che ha fatto il giro dei network internazionali non proveniva da giornalisti incravattati, ma da quelli che lo stesso Marcos ha definito “media liberi, alternativi, autonomi o come li si vuole chiamare”.
Il subcomandante era già comparso, inaspettatamente, durante la cerimonia di omaggio a Galeano che si era svolta durante il pomeriggio, con il suo cavallo e la sua pipa, insieme agli uomini e alle donne della Comandancia General del Ejército Zapatista de Liberación Nacional (CCRI). Nessuno poteva pensare che la stessa notte, davanti agli occhi assonnati della sua gente, avrebbe comunicato la sua sparizione.
“Chi ha amato e odiato il SupMarcos ora sa di aver odiato e amato un ologramma. I suoi amori e odi sono stati, quindi, inutili, sterili e vuoti”.
Una certa sinistra rivoluzionaria e razzista
Il subcomandante ha parlato del razzismo di una “certa sinistra” che si considera rivoluzionaria, e che nei primi giorni dell'insurrezione indigena lo ha messo al centro dell'attenzione perché meticcio. È stato creato il culto all'individuo e dell'avanguardismo ladino che, secondo il leader dell'EZLN, non è più necessario in un movimento che crede nel potere dal basso e nel “comandare ubbidendo”, e la cui dirigenza non è più meticcia ma indigena.
“Non nascondiamo di essere un esercito, con la sua struttura piramidale, il suo centro di comando, le sue decisioni dall'alto in basso. Non neghiamo quello che siamo per darci le arie da libertari o per moda”, ha ammesso Marcos dal palco centrale del Caracol de La Realidad, in un'atmosfera onirica creata dai suoni e silenzi della Lacandona.“Siamo convinti che per ribellarsi e lottare non sono necessari leader, caudillos, messia o salvatori. Per lottare servono solo un po' di vergogna, un tanto di dignità e molta organizzazione”.
Esce così di scena uno dei più grandi leader sociali della fine del secolo scorso, con l'umiltà e l'ironia che ha caratterizzato le sue lettere, comunicati, racconti, apparizioni e sparizioni pubbliche. Dopo 20 anni, il personaggio ribelle e romantico creato dalla mitificazione mediatica ha deciso di sparire, con un annuncio ai media non commerciali e ai suoi compagni, increduli e commossi, a cui ha implicitamente lasciato responsabilità e compiti.
Il viso di Marcos è ricomparso, inaspettatamente, il 10 agosto scorso nel Caracol della Realidad durante una conferenza stampa con i media indipendenti. Lì il subcomandante Galeano – personaggio in cui Marcos ha annunciato di essersi convertito in omaggio allo zapatista assassinato – ha criticato i media commerciali e annunciato che da ora in avanti l'EZLN parlerà solo con i media indipendenti. C'è solo da sperare che il subcomandante Galeano non si converta nel nuovo mito mediatico zapatista.
“Non ci saranno quindi case-museo o targhe di metallo con su scritto qui è nato e cresciuto”, ha assicurato Marcos. “Non ci sarà chi vivrà di essere stato il subcomandante Marcos. Non verranno ereditati né il suo nome né il suo incarico. Non ci saranno viaggi “all inclusive” per dare conferenze all'estero. Non ci saranno cure in ospedali lussuosi. Non ci saranno vedove né eredi. Non ci saranno funerali, onori, statue, musei, premi, né qualsiasi altro cosa il sistema fa per promuovere il culto all'individuo e sminuire la collettività”.
La gente applaudiva, intonava cori, alcuni piangevano; forse più per scaricare l'intensità di quel momento che per tristezza.
Commentavamo il discorso del subcomandante, a voce bassa per non guastare la notte. Nessuno si lamentava, tutti capivano una decisione che era quasi necessaria. In fondo, l'esistenza di Marcos era la più grande incoerenza di un'organizzazione come l'EZLN. Che c'entrava la sua figura, che in qualche modo offuscava la resistenza quotidiana di migliaia di basi d'appoggio zapatiste, in un movimento che parla di orizzontalità e potere dal basso?
La centralità di ogni individuo
A ben vedere, nel passato c'erano stati segnali della “sparizione” di Marcos. Nel 2009, durante un'intervista con la giornalista messicana Laura Castellanos, il subcomandante ammise l'errore mediatico che era stato commesso dall'EZLN: “Avremmo dovuto fare uno sforzo perché si concentrassero meno sulla figura di Marcos, nei primi anni. In seguito abbiamo cercato di rimediarlo, ma già non si poteva”.
Tre anni prima anche Sergio Rodríguez Lascano, ex direttore della rivista dell'EZLN Rebeldía, predisse quello che poi sarebbe successo, affermando in un'intervista con il periodico Contralínea che, con l'avanzare della Otra Campaña, la figura di Marcos sarebbe sparita.
Ci sono stati anche segnali più sottili, come la nomina a “subcomandante” del tenente colonnello Moisés, che ha ora sostituito Marcos nel ruolo di portavoce dell'organizzazione, o la marcia silenziosa che il dicembre 2012 ha attraversato San Cristóbal de Las Casas, durante la quale gli zapatisti e le zapatiste sono saliti uno a uno sul palco con il pugno alzato, per mostrare la centralità di ogni individuo nella lotta.
“Pensiamo sia necessario che uno di noi muoia perché Galeano viva”, ha affermato il subcomandante dal palco della Realidad. “Abbiamo quindi deciso che Marcos smette di esistere oggi. E in fondo, capirete, non se ne va chi non c'è mai stato, né muore chi non ha mai vissuto”.
Orsetta Bellani
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