Vecchi e nuovi tutori dell'ordine filosofico
1.
I benpensanti di Alessandro Dal Lago (Il melangolo, Genova
2014) è un libro abbastanza inconsueto perché
basato su un fitto dialogo tra due persone e, ciò nonostante,
accurato e ricco nel riferire le fonti documentarie relative
a ciò di cui si parla. Come tale, merita, innanzitutto,
che persone coinvolte e natura del dialogo ricevano un minimo
di attenzione. Comincio dalle persone. Una è Dal Lago,
che firma il libro e che fu tra i firmatari di un saggio incluso
nell'antologia intitolata a Il pensiero debole (Feltrinelli,
Milano 1983) a cura di Pier Aldo Rovatti e di Gianni Vattimo.
Sociologo, poco propenso al conformismo accademico, dotato di
autonomia critica, ha pubblicato di recente almeno due volumi
sull'arte (Mercanti d'aura, Il Mulino, Bologna 2006 e
L'artista e il potere, Il Mulino, Bologna 2014, scritti
entrambi insieme a Serena Giordano) intelligenti – più
intelligenti di quanto si legga di solito sull'argomento –
ma non privi di pecche (come misi in rilievo in L'aura
fritta e i suoi cuochi, “A”,
36, 322, dicembre 2006-gennaio 2007). La seconda è un
filosofo – più giovane -, uno di quelli che ambisce
alla “abilitazione nazionale a professore associato”
e che, dunque (!), deve “pubblicare il più possibile
su qualche rivista in lingua inglese”. È questa
la ragione per la quale, rimanendo nell'anonimato, non firma
il libro insieme a Dal Lago (“non ti offendere, ma scrivere
un libro con te su questi argomenti mi danneggia”). A
conti fatti, va detto che fa bene a non firmare, ma per tutt'altre
ragioni dalle sue: il suo apporto al dialogo è pressoché
inesistente, interviene penosamente, non sa andare al di là
del compitino di bravo studente e, purtuttavia, si dà
arie di saccente mentre, a tratti, nei momenti in cui si rende
conto di essere con il sedere per terra, assume toni fin rancorosi.
Il loro, allora, è un dialogo zoppicante – tra
chi ha qualcosa da dire e chi, non avendo nulla di proprio da
dire, si arrabatta con presunzioni di scolastica memoria. Che
quello che ha qualcosa da dire non se ne debba sentire granché
soddisfatto – di un rapporto sterile - per me è
ovvio, per lui, presumibilmente, no.
2.
Il sottotitolo del libro recita Contro i tutori dell'ordine
filosofico ma, ben presto, nello sviluppo dell'argomentazione
è chiaro che questi tutori di cui dovremmo liberarci
sono i “neorealisti filosofici”, ovvero i nuovi
sostenitori della vecchia tesi contraddittoria del “realismo”
(gli stessi contro i quali ho scritto Festeggiamenti
per il ritorno di chi non è mai partito, in “A”,
43, 378, marzo 2013), ovvero quella sorta di comitato d'affari
costituito da filosofi come De Caro, Ferraris, Marconi e soci.
Fra questi è ovviamente incluso l'interlocutore di Dal
Lago che, avendo l'ardire (tutto da vedere se sbagliato del
tutto, ma non certo in virtù delle argomentazioni sue)
di sostenere che il “pensiero debole” avrebbe legittimato
“la svolta irrazionalista” nella scienza e nella
filosofia e, quindi, “la società dell'apparenza”
e fin “il neo-capitalismo”, viene presto messo in
riga dalle argomentazioni di Dal Lago. Sarebbe invece proprio
il realismo che porta ad una politica autoritaria: “Se
tu credi che il pensiero possa conoscere fino in fondo la realtà,
penetrarla, come si suol dire, stabilisci una gerarchia in cui
il pensiero è per definizione superiore alla realtà”
e se i filosofi fossero i “professionisti del pensiero”
ecco che a loro toccherebbe la massima competenza in ordine
alla realtà – sarebbero loro gli unici in grado
di cambiarla e rieccoci a Platone ed alla sua repubblica “governata
dai filosofi”. “Termini o espressioni” come
“realtà”, “in realtà”,
“reale”, “realmente” e simili –
questa è la tesi di Dal Lago - sono “indispensabili
per dare un senso al discorso, per rafforzare un significato
e così via, ma in sé significano ben poco”
3.
Potrei anche condividere con Dal Lago l'obiettivo polemico se
lui, a questo punto, non ponesse limiti ben precisi alla sua
eventuale espansione. Dall'accusa alla filosofia, infatti, non
ne discende affatto la necessità della sua ripulsa. Ama
la filosofia e nella filosofia ci sguazza – la ama fino
al punto da definirla come il “pensare” stesso (evidentemente
non ha pensato a quanto potrà durare questo suo impegno
semantico: nel suo stesso libro se ne dimentica spesso) e ci
sguazza fino al punto di distinguere fra filosofi “veri”
e meno “veri”. Dice di aver “l'impressione
che la filosofia non sia mai riuscita ad emanciparsi del tutto
dalla teologia; che “c'è una certa filosofia
(..) che vuole essere rigorosa, scientifica, libera dai condizionamenti
e atemporale” - che è un tipo di “teologia
secolarizzata”, mentre ne esistono altre, di filosofie
– “dubbiose, ironiche, scettiche e un po' positiviste”
-, che tendono ad allontanarsi il più possibile dalla
teologia”, senza peraltro – sia chiaro – negare
“affatto la teologia”, che, invece, “rispettano”
senza volerne peraltro “prendere il posto”. E va
da sé che alla seconda tipologia di filosofie appartenga
proprio la sua. Dice di non aver nulla “contro chi riflette
nel campo dell'essere” e il fatto che siano “duemilacinquecento
anni che la filosofia se ne occupa” non lo mette in sospetto
alcuno sulla legittimità o sensatezza dell'impresa e,
anzi, anche si fosse “trattato di un equivoco”,
essendo stato un “equivoco grandioso” sarebbe per
lui, comunque, “degno di essere perpetuato”. Non
solo. Senza dar segno di preoccupazione alcuna, dice anche che
“il pensiero, filosofico, ma non solo” – considerato
“come una dimensione che non è sempre autonoma”
– si situa “in qualche punto di una catena concettuale
o discorsiva dalle origini sconosciute o dimenticate”
(troppe disgiuntive preoccupanti) e che, come tale, si é
guadagnato “una dimensione istituzionale, accettata
in quanto canonica e quindi trasmessa dalle istituzioni preposte,
come l'università”.
4.
Date premesse scetticheggianti, è arduo – impossibile
– sfuggire a conseguenze ineluttabili. Per esempio, relativamente
alla storia che sarebbe “anche inevitabilmente fiction”.
Come se gli potesse far dire quel che si vuole senza doversi
sottomettere ad un criterio di coerenza narrativa. Per esempio,
relativamente ai “personaggi” di questa storia,
che, una volta che il loro pensiero sia stato piombato in reparti
impermeabili l'uno all'altro, finiscono con il risultar buoni
per tutte le stagioni. È il caso di Heidegger, riverito
a pié sospinto, ed è il caso di Schmitt –
altro nazista dichiarato -, perché, a dire di Dal Lago,
“l'avversione che si può nutrire per il personaggio”
– “pesantemente coinvolto nel Terzo Reich”
– “non implica (...) alcun disinteresse per le sue
idee, che talvolta sono assai brillanti”. Come se un'adesione
attiva, attivissima, al nazismo possa non discendere dalle medesime
matrici di pensiero da cui discende il resto. Come se dietro
la brillantezza non possa o – in certi casi - debba
nascondersi un'opacità purulenta.
5.
Merita una riflessione conclusiva l'atteggiamento dei dialoganti. Da dove proviene. Appartengono entrambi al tipo di persone che bazzicano i livelli “alti” della cultura. Persone che, se uno dice che “una teoria della giustizia distributiva può chiarire, se non ha pretese normative, i presupposti di un'azione politica che miri a un'uguaglianza sostanziale o una riduzione delle disuguaglianze”, l'altro è pronto a rispondere “Pensi a Rawls?”. Voglio dire che, se a me uno dicesse una frase del genere, cercherei, prima, di capire cosa significa e, una volta resomi conto che si tratta di una banalità qua e là peraltro non poco ambigua (come tante banalità: cosa sarà mai una “uguaglianza sostanziale” e che cosa la differenzia da una “riduzione delle disuguaglianze”?), chiederei con quali mezzi s'intenda raggiungere questo risultato, ma mai e poi mai mi verrebbe da citare qualcuno – qualcuno di “importante”, ovvero un “autore” – cui attribuire questa banalità. Il loro è dunque un dialogo zeppo di ammiccamenti mediatorii, di conferma o ricerca di un ruolo socialmente ratificato, dove la legge della concorrenza intellettuale predomina sul problema di cui si sta parlando. È un dialogo, insomma, tra “professionisti del pensiero” cui è lecito danzare da un punto di vista all'altro purché questo punto di vista abbia avuto l'onore di un riconoscimento disciplinare: “filosofo”, “filosofo amatoriale”, “sociologo”, perfino “anarchico” (“filosofo in senso an-archico”, dice Dal Lago inserendo il trattino nobilitante, “ovvero che si sforza di pensare liberamente i fondamenti” e implicito è che si tratti dei fondamenti delle discipline riconosciute).
6.
Questa fiducia nelle fortificazioni disciplinari, inconsapevolmente,
si riflette anche nella scelta di una barzelletta cui far dire
come “la logica, in certi casi, non sia che una dimensione
verbale”. La racconto più o meno così com'é.
Allora: un fisico e un matematico tornano da un congresso, cade
l'aereo e si salvano soltanto loro insieme ad uno steward. Raggiungono
a nuoto un'isola deserta e hanno anche la fortuna, sulla spiaggia,
di recuperare una cassetta proveniente dall'aereo: dentro ci
sono 30 scatolette di tonno. Litigano sul modo di aprirle e
decidono che è meglio dividersi, ognuno per la propria
strada con 10 scatolette ciascuno. Dopo un paio di settimane
una spedizione di soccorso raggiunge l'isola. Trovano subito
lo steward, lo trovano dimagrito ma in buona salute perché,
nel frattempo, si è mangiato le sue scatolette di tonno:
ha preso una pietra appuntita, ne ha usata un'altra come martello
e, giorno per giorno, se l'è aperte. Dopo un po' trovano
anche il fisico: è ridotto male, ma è ancora vivo.
È riuscito ad aprire solo metà delle scatolette
che aveva in dotazione, perché aveva studiato tutto un
suo sistema per aprirle: trovato un giunco resistente e flessibile
vicino alla spiaggia, ha posto una scatoletta su uno scoglio,
calcolato la traiettoria, ha tenuto conto del vento e lanciato
un sasso utilizzando il giunco come catapulta. Qualche chilometro
più in là trovano anche il matematico. Morto.
Nel pugno, però, tiene ancora stretto un biglietto. Sul
quale i soccorritori leggono: “Poniamo per assurdo che
le scatolette siano aperte”. Risate. O, almeno, risate
per chi “sa” determinate cose, su chi può
contare su una serie di impliciti che riguardano i “danni
collaterali” delle assunzioni disciplinari – alla
persona “normale”, in questo caso lo steward, si
oppongono il fisico e il matematico, che, manco a dirlo, applicherebbero
nella vita quotidiana i canoni delle rispettive discipline.
Peccato, mi dico, che, al manipolo dei “salvati”,
la barzelletta non aggiunga anche la figura del “filosofo”,
perché, in questo caso, sarebbe stato interessante constatare
tramite quale stolidità professionale si caratterizzi.
Felice Accame
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