A lui piaceva vivere alla grande
Un ritratto di Franco Fanigliulo
Fanigliulo piombò fra le pareti inzuccherate di Sanremo
fra i neonati e già saturi colori della televisione del
1979. A rivedere oggi, magari su youtube, quella sua storica
interpretazione, sembra proprio di poggiare l'occhio all'oblò
di un baraccone circense dei più scalcinati.
Subito una digressione sul Festival di Sanremo di fine anni
'70.
Di pan di zucchero erano fatte le pareti del Festival in crisi,
degli anni felici (per la canzone d'autore, eh, che tutt'attorno
era uno scoppiar di bombe, fischiar di proiettili e scorrere
fiumi di eroina) nei quali la tournée di Dalla-De Gregori
“Banana Republic” faceva più pubblico della
televisione.
Sembrava la casa della strega di Hansel e Gretel quella Sanremo
lì... lo si capiva subito che era una macina per artisti
e nessuno, davvero nessuno, si sarebbe più potuto suicidare
per quella puttanata senz'anima. Mi fa persino un po' di tenerezza
quel Festival vecchio e sdrucito, appena impiastricciato di
fard, ma male, come un bambino che prova a colorare stando nelle
righe, come certe vecchie donne perdute nei tanghi più
decadenti. Ormai non lo davano più nemmeno per intero
in TV, trasmettevano solo la serata finale.
Poi arrivò il manager Aragozzini, negli anni della mafia
craxiana, a rimpannucciare il catorcio languente sulla battigia
rivierasca, e Sanremo pian piano rifiorì.
E infine, negli ultimi anni, è giunta l'epoca dei Sanremo
politically correct, quelli così tanto dominati
dalle major che si permettono persino di far vincere qualche
stravagante gruppo, qualche cantautore col cuore un po' a sinistra
e il portafoglio decisamente a destra... tanto ormai è
chiaro a tutti che lo spettacolo, i comici, la farfalla tatuata
sul pube di Belen (una subrette popolare in questi anni: lo
dico a futura smemoratezza), hanno preso il sopravvento sulle
canzoni. “A canzoni non si fan rivoluzioni”, lo
ha detto Guccini e lo ha capito Fabio Fazio, e dunque si canti
pure ciò che si vuole, non è più necessario
nemmeno che sia spazzatura, tanto tutti se ne fregano.
Pensate che Sanremo potrebbe un anno o l'altro pensare persino
di fare un omaggio al Club Tenco, trattandolo un po' come il
cugino Nerd, tanto intelligente ma un po' secchione.
Oddio... dite che è già successo? Scusate, non
seguo la TV...
Scherzi a parte, si capirà mai che anche la canzone più
bella, il capolavoro più ribelle, prende consistenza
nel rapporto fra chi canta, il pubblico per il quale si canta,
il luogo in cui si canta, lo spirito con cui si canta, l'anima
dello spazio in cui si canta? Non c'è arte che non sia
un gesto sociale, politico, di resistenza.
Per questo Fanigliulo poi non se l'è più cacato
nessuno.
Sanremo della seconda metà degli anni ‘70 era così
malinconicamente in crisi che l'arrivo coloratissimo di Rino
Gaetano con la sua Gianna (1978) fu una rivoluzione allegra
e gentile: il coro di coatti che Rino aveva trascinato sul palco
per berciarvi il delirio finale della canzone (“ma vieni
qua/ dove vai/ma che fai/con chi ce l'hai”) resta una
delle perle della televisione italiana.
L'anno dopo ci arrivò anche lui, Franco Fanigliulo e
spostò ancora un centimetro più in alto la barra
della canzone, dell'intelligenza, della provocazione.
Apparve, bello e biancovestito, come un Gesù Cristo Beat,
cantando:
A me mi piace vivere alla grande, già
Girare fra le favole in mutande, ma...
Il principe dormiva la strega s'è arrabbiata
E dai tuoi occhi verdi quella lacrima è spuntata
Fu la rivelazione dell'anno, il vincitore morale – la
canzone in realtà arrivò terza. La sua interpretazione
faceva intravedere una profondità, senza svelarla, era
orecchiabilissima e sembrava un pezzo allegro. Senonchè:
Ho un nano nel cervello e un ictus cerebrale
Foglie di cocaina...
(Per la cronaca, la parola “cocaina” fu cancellata
dalla censura e diventò un ancora più conturbante
“bagni di candeggina”: stranezze della censura a
me i “bagni di candeggina” rievocano un po' Arancia
Meccanica e un po' Giovanni Brusca che scioglie le vittime nell'acido).
O anche
Il padre di mia moglie mi aveva sempre detto
Portala dove vuoi ma non portarla a letto
A letto dove dormo, dove se posso sogno
Dove non so capire se ho voglia o se ho bisogno...
Parole che facevano intuire un'angoscia sottile, una specie
di mal di vivere, un disagio gaglioffo. Era un veleno a scoppio
ritardato quella canzone. L'istrionica interpretazione tutta
recitata del cantante - nonché l'arrangiamento del maestro
Reverberi, che giocava con l'orchestrona e la tastierina - la
trasformarono in una bomba. Seguì un LP di grande bellezza
“Io e me”, dove, attorno al singolo di successo,
continuavano a gravitare, ad alternarsi e a ritornare due temi
contrapposti: l'artista intrappolato come un giocattolo a molla
della società che vede dall'interno il suo ruolo meccanico
(“L'artista”, “Buffone”) e la marginalità
di vite perdute nel fiume del tempo (“Marco e Giuditta”,
“La Giovanna”) che cercano un momento di verità,
di bellezza. Il tutto interpretato alla perfezione da una voce
che riusciva a farsi, da sola, teatro.
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Franco Fanigliulo |
Il percorso di Franco veniva da più lontano. Nato a La
Spezia nel '44, marittimo nei primi anni sulle orme del padre
(di origini brindisine), smise di navigare in seguito a una
malattia reumatica. Poi fece il musicista, sulle orme della
madre concertista, fu sempre un poeta-contadino con il suo podere
di cavalli e galline e scriveva anche fiabe, brevi monologhi
teatrali surreali. Espressivo, torrenziale, aggressivo e dolce,
sfuggente eppure naturalmente portato al primo piano, era un
personaggio che tutti notavano, ma che nessuno riusciva a inquadrare.
Lui stesso viveva la sua inafferrabilità come un inevitabile
riflesso di una certa ansia di libertà su cui scherzava
volentieri.
Qui vicino cantano le rane e c'è un'amica
che fa l'intellettuale ma dopo ci sta
mentre travestiti ti raccontano esperienze
di doberman rosa targati Firenze.
Io non sono bello non son Marlon Brando
ma se mi frequenti ti slaccio la lampo
mentre chi va piano va sano e lontano e non sa dove va.
Ohilì, ohilà, che bella la libertà
Ohilì, ohilè, che bella la liberté.
E che cosa cosa dite voi italiani
verrà il comunismo e tutti risposero: mah!
E che cosa cosa dite voi italiani
staremo un po' in pace e tutti risposero: mah!
E che cosa dice un poverino
che ha i soldi a Lugano e la barca ce l'ha a Portofino
dice che in Italia c'è chi c'ha il cognome e chi non
ce l'ha.
Ohilì, ohilà, che bella la libertà,
Ohilì, ohilé, che bella la liberté.
Suonando qui e là finisce per fare gli incontri giusti
che lo portano rapidamente a un primo disco – allora succedeva,
il mondo era comunque ancora affamato d'arte – “Mi
ero scordato di me” (1977), il disco della sua origine,
con spunti orchestrali e magniloquenti alternati a momenti minimalisti.
È un disco poetico, un lungo monologo col proprio “io”
interiore, tutto un parlar da solo per le strade, tutto un parlar
da matto (oggi ci siamo scordati che “i matti” più
visibili erano quelli che incontravi sul marciapiede e che parlavano
da soli, il telefono cellulare e gli auricolari hanno riempito
le strade di fantasmi monologanti). È un disco tutto
volto dentro, per rammentarsi di sé, raccogliere le forze
e uscire fuori a guardare il mondo.
Il successivo disco – “Io e me” (1979) –
a dispetto del titolo, è un disco piuttosto corale e
post-moderno, un bel patchwork.
Il brano di punta è quello presentato a Sanremo, quello
a cui maggiormente è legato la memoria di Fanigliulo,
“A me mi piace vivere alla grande” ed è un
brano esemplare.
Guglielmo ha un reggipetto
che se lo mette spesso nel cuore della notte
come se fosse adesso
adesso che Gesù ha un clan di menestrelli
che parte dai blue jeans e arriva a Zeffirelli
e tu mi vieni a dire che adesso vuoi morire per amore.
La frammentaria evoluzione del testo, dove si coglie il senso
generale, la generale parodia della canzone d'amore, ha un momento
molto alto di Pop Art, dove linguaggi alti e temi quasi sacri
si scontrano con citazioni prese dalle suggestioni televisive
e pubblicitarie. In particolare è evidente il richiamo
del testo a una celeberrima campagna pubblicitaria di non troppi
anni prima. Nel 1973 la marca di jeans “Jesus” aveva
affidato la cura delle proprie pubblicità al giovane
Oliviero Toscani, da allora diventato celeberrimo come autore
di campagne shock. I manifesti riportavano un ben tornito culo
femminile inguainato in un paio di jeans molto corti, su cui
era stampigliato lo slogan “Chi mi ama mi segua”.
Altro slogan di quella campagna era “Non avrai altro jeans
all'infuori di me”. Oltre alle ovvie proteste dell'“Osservatore
Romano”, di questi slogan si occupò da par suo
Pier Paolo Pasolini in un articolo sul Corriere (poi raccolto
negli “Scritti corsari”). Insomma, il richiamo era
immediato. Inoltre poco meno di un anno prima dell'esordio sanremese
di Fanigliulo, era andato in onda il discutibilissimo sceneggiato
“Gesù di Nazareth”, diretto con piglio oleografico
e stucchevole da Franco Zeffirelli, con un Gesù interpretato
da un dimenticato Robert Powell, che sembrava un ipnotista da
fiera, ma che, dello stesso Osservatore Romano, aveva incassato
il plauso incondizionato. La straordinaria distanza d'intenti
– quello trasgressivo della pubblicità e quello
dichiaratamente propagandistico del telefilm – dei due
casi citati, collassa, attraverso l'accostamento di Fanigliulo,
in un minestrone dove sacro e profano, alto e basso, commerciale
e spirituale si ritrovano mescolati senza possibilità
di discernimento. Il “Guglielmo” della canzone che
mette il reggipetto, adombrando l'omosessualità e il
travestitismo, “nel cuore della notte come se fosse adesso”:
questo preciso momento, l'ora eterna del momento in cui si sta
cantando. Gesù che è ridotto ad accontentarsi
di “menestrelli” che poco importa che vogliano trasgredirlo
o glorificarlo. Nulla è quello che sembra, eppure “tu
mi vieni a dire che adesso vuoi morire per amore” proprio
la canzone – ultimo rifugio della seriosità - dovrebbe
mantenere le sue promesse struggenti in questo valzerino decadente?
Il pezzo e di conseguenza il disco e il personaggio che li cantava
ebbero una certa fortuna. I successivi dischi pur pregevoli
- “Ratata pum pum” del 1980, il Q-disc “Benvenuti
nella musica” del 1983, qualche singolo e poi il disco
cui lavorava negli ultimi tempi e purtroppo uscito postumo,
“Goodbye mai” del 1990 - non riuscirono a tirar
fuori Fanigliulo da un ingiusto oblio. Apprezzatissimo dai suoi
colleghi, in particolar modo da Vasco Rossi e Zucchero Fornaciari,
fu ucciso da un ictus nel 1989 a 44 anni.
In questo paese piacciano i tragediatori o i comici. Gli ironici,
invece, i poliedrici, quelli che hanno la buona abitudine di
non prendersi troppo sul serio sono merce rara di cui diffidare.
Un qual certo e drammatico gusto per la retorica del “maestro”,
del distillatore di verità dall'alto, compiace “lo
stivale” e chi ci sta dentro. Se poeta un cantante dev'essere,
piace alla gente che sia uno che si prende sul serio, un “postino”
che consegna “messaggi” di fine corsa; non piace
chi riflette sui buchi della comunicazione con l'inevitabile
arma dell'ironia.
Alessio Lega
alessiolegaconcerti@gmail.com
(Questo ritratto di Fanigliulo è un frammento di
una mia analisi dei cantautori liguri degli anni '70, scritta
per un libro collettivo sulla canzone d'autore, curato da Enrico
de Angelis e di prossima uscita)
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