dibattito
Cristianesimo e anarchia
di Antonio Di Grado
Si intitola “Appunti per una conversazione su (e fra) cristianesimo e anarchia” il saggio scritto da un docente dell'università di Catania, apparso recentemente nel suo libro “Un cruciverba italo-franco-belga: Sciascia-Bernanos-Simenon”. Ne pubblichiamo la parte finale, densa di spunti di riflessione. E di possibile discussione.
[...] Se i “poveri” non sono più solo i paria
e i reietti, chi sono? La derivazione dal termine greco (ptochói)
dell'italiano “pitocchi” mi ha fatto sempre pensare
ai mendicanti: mendicanti dello Spirito, come chi si svuoti
di sé per farsi abitare e colmare dalla Grazia. Attenuazione,
dunque, della portata “sociale” del messaggio, ma
arricchimento della sua valenza, per l'appunto, “spirituale”.
Ma un dubbio mi assale: se quei poveri di pneuma, ossia
del soffio dello Spirito, fossero proprio i disgraziati, i dis-graziati,
chi la grazia non ce l'ha, i peccatori, gli irriducibili alla
Rivelazione? Erano costoro, dopo tutto, che Gesù venne
a incontrare per portarli con sé, non noi corretti e
zelanti farisei, non noi colti, progressisti, laicamente sensibili
alla portata culturale del Sacro.
Congetture, tutte possibili se si parla di quel Grande Irregolare,
pronto a smentire qualunque definizione in cui lo si voglia
imprigionare, a demolire qualunque altare in cui lo si voglia
confinare. E tuttavia preferisco la secchezza “pauperistica”
di Luca, così come amo più di tutti il nudo e
aspro vangelo di Marco, che di beatitudini peraltro non fa cenno.
Ma si tratta di scegliere? Certamente no. C'è solo da
stupirsi e rabbrividire, di fronte alla stupefacente varietà
(già ab initio) dei cristianesimi storici
e dei cristianesimi possibili.
Ed è in questi, tanto più se devianti e irriducibili
a qualunque ortodossia o istituzione temporale, che resta impresso
il marchio dell'altrettanto irriducibile Figlio dell'Uomo, un
marchio di estraneità e inappartenenza oppure di palese
antagonismo: nelle eresie tardo-antiche e medievali, nella purezza
dei catari e nel profetismo dei gioachimiti, nell'aperta ribellione
dei seguaci di fra' Dolcino o di Ian Hus o di Savonarola, nel
pauperismo dei valdesi e dei “fraticelli” francescani,
nel nichilismo dei mistici e tanto più delle mistiche,
che votano a Dio e al Cristo quell'abbandono saturo di erotismo
al quale l'uno e l'altro anelavano, e ancora nell'emancipazione
femminile che nasce (occorre ricordarlo) nei beghinaggi fiamminghi
e renani. E naturalmente nella Riforma protestante, che rifiutando
ogni delega al ceto sacerdotale e ogni sacralità alle
sue liturgie e istituzioni, proclama il sacerdozio universale,
ovvero il libero e non più mediato rapporto del credente,
di ogni credente, con Dio e con la Scrittura: oggetto, quest'ultima,
nelle frange più radicali della Riforma, di “libero
esame”, di libera interpretazione individuale. E se Max
Weber addebiterà, a torto o a ragione, al calvinismo
la nascita dello “spirito del capitalismo”, è
comunque vero che da quel ceppo, e se non dalla Ginevra di Calvino
certo dal succedersi sulla scena di anabattisti, levellers,
quaccheri, unitariani (a questi ultimi si avvicinarono Mazzini
e Garibaldi), verranno fuori il liberalismo radicale e tanto
più il social-comunismo ottocentesco.
L'originale contributo del protestante Jacques Ellul
Movimenti, dunque, più che chiese, come quelle che nell'arcipelago
protestante si sono irrigidite e sclerotizzate soprattutto laddove
sono maggioritarie; e tuttavia la stessa moltiplicazione di
tendenze e credi in quell'arcipelago fa fede di una feconda
pluralità, affine a quella dei cristianesimi primitivi
e alternativa al rigido assetto monarchico della chiesa cattolica.
E proprio un teologo protestante, Jacques Ellul, protagonista
nella Resistenza antinazista e autorevole membro della Chiesa
Riformata francese, è stato nel secolo trascorso il più
convinto sostenitore della convergenza di cristianesimo e anarchia.
Nel suo libro, intitolato appunto Anarchia e cristianesimo,
Ellul sostiene le ragioni di un «anarchismo pacifista,
anticapitalista, etico e antidemocratico (cioè ostile
alla falsa democrazia degli Stati borghesi)», altro rispetto
alla gran parte dei movimenti anarchici e non solo per il suo
pacifismo ma perché, tributario dell'antropologia pessimista
biblica ed evangelica, Ellul rifiuta la «duplice convinzione
che l'uomo è buono per natura e che è la società
a corromperlo», su cui si fonda l'idea tradizionale di
anarchia, per ciò stesso a parer suo impraticabile.
L'anarchia di Ellul si contrappone tanto alla statolatria e
alla tecnocrazia quanto alle “religioni”: Gesù
non voleva, non doveva fondare una religione; e «la verità
non è né un insieme di dogmi, [...] né
una dottrina, e neppure la Bibbia [...]. La verità è
una persona», è un Dio che muta, diviene, libera.
È l'amore. Vengono in mente, per questo suo contrapporsi
alle “religioni” consolidate e istituzionalizzate,
un altro teologo protestante, il più grande del secolo
scorso, Karl Barth, che drasticamente opponeva “fedi”
e “religioni”, e un grande scrittore laico ma di
matrice ugonotta, André Gide, che sognava di scrivere
un libro da intitolare Le Christianisme contre le Christ:
il cristianesimo contro il Cristo, la fede tradita dalle chiese,
da ogni chiesa.
Ma è ancora Ellul a rovistare nell'Antico e nel Nuovo
Testamento alla ricerca, tutt'altro che difficile, di proposizioni
(come dire?) proto-anarchiche. E le trova nel Libro dei Giudici,
in quello di Samuele, nei profeti che si levano contro i tiranni
ponendosi come «contropotere», e naturalmente nell'Ecclesiaste,
l'implacabile Qohelet che mette in discussione ogni forma
di potere come fonte di iniquità e ogni forma di aggregazione
umana come causa di oppressione. E nei Vangeli, ecco le tentazioni,
che annettono al dominio del diavolo la potenza e la gloria
dei regni (e diabolos, ricorda Ellul, significa «colui
che divide», come a dire che «lo Stato e la politica
sono il grande fattore di divisione fra gli uomini»);
o il “date a Cesare”, interpretato questa volta
in chiave nonviolenta, come esortazione «non tanto a combattere
questi re quanto a lasciarli da parte e a costituire ai margini
una società diversa, una società dove non ci sia
né potere, né autorità, né gerarchia»;
o ancora la resistenza passiva di Gesù al Sinedrio, che
non riconosce alcun potere alle autorità mondane.
E resistenza passiva, azione nonviolenta, disobbedienza civile
furono i crismi dell'anarchismo cristiano che si sviluppò
tra Otto e Novecento. E prese vigore a contatto degl'interminati
spazi della frontiera americana, tra i quaccheri della Pennsylvania,
renitenti a guerre e gerarchie, e il mitico lago Walden dove
nel 1845 si ritirò Henry David Thoreau, che nella “vita
nei boschi” trovò il respiro giusto per animare
la “disobbedienza civile” e, nel suo religioso rifiuto
d'ogni norma e costrizione (murder to the State, delitto
contro lo stato, fu defnita la sua dottrina), intrecciare il
trascendentalismo di Emerson con il socialismo utopistico di
Fourier, l'egualitarismo puritano e il deismo degli unitariani
con vistosi echi delle filosofie e delle religioni dell'Estremo
Oriente.
Predicava e praticava la disobbedienza alle leggi, esortava
a una “dimissione” generalizzata e si vantava di
non essersi «mai bruciato le dita con un possesso vero
e proprio»; e ribaltando il concetto stesso di proprietà,
aggiungeva: «per molti anni il proprietario non si accorge
che quando un poeta ha cantato in versi il suo podere, e vi
ha tessuto intorno una specie di meravigliosa siepe, in effetti
ne ha preso possesso, l'ha munto, scremato, e ne ha preso la
parte migliore, lasciando al contadino solo un po' di latte
scremato».
Anarchia evangelica
Da questi nutrimenti terrestri, da questo deismo panico trae
alimento l'utopia cristiana, sconfessata dalla chiesa ortodossa,
di Lev Nikolaevic Tolstoj, il grande scrittore russo che tuttavia,
scrivendo lungo il crinale tra Otto e Novecento, deve misurarsi
con un movimento anarchico ormai più che adulto, e con
l'ondata di attentati anarchici che sconvolse l'Europa in quei
decenni. E fino a un certo punto li giustifica, perché
giudica le stragi in guerra e le esecuzioni volute da quei regnanti
«incomparabilmente più crudeli degli assassinii
commessi dagli anarchici», e tuttavia li ritiene vani,
come tagliar la testa al mostro delle fiabe cui ne ricrescerà
subito un'altra: giacché i colpevoli delle oppressioni
e degli assassinii non sono quei re o kaiser o zar ma il sistema
sociale che li ha prodotti; in ultima analisi, cristianamente,
colpevole è l'egoismo degli uomini, votati al servaggio
in cambio del proprio tornaconto.
Ma da quel suo cristianesimo senza aldilà, dal suo Cristo
non divinizzato, la sua anarchia evangelica ricava convinzioni
altrettanto drastiche di quelle dei regicidi: «La promessa
di soggezione a qualsiasi governo, quest'atto che si considera
come la base della vita sociale, è la negazione assoluta
del cristianesimo, perché promettere anticipatamente
di essere sottomesso alle leggi elaborate dagli uomini, significa
tradire il cristianesimo il quale non riconosce, per tutte le
occasioni della vita, che la sola legge divina dell'amore».
E forte di questa legge di fraterna e operosa pietas,
di questa lucidità superumana, può smascherare
tanto la «superstizione del progresso» quanto il
destino inevitabilmente totalitario e dispotico, che si consumerà
tragicamente da lì a poco nella sua Russia, delle rivoluzioni
fatte in nome e per conto del popolo.
A Thoreau si rifarà esplicitamente anche il Mahatma Gandhi,
che non rientrerebbe tuttavia nel filone di anarchismo cristiano
che stiamo seguendo, se non fosse per l'ampia eco che proprio
nell'Occidente cristiano suscitarono il suo magistero e la sua
prassi di non violenza, resistenza passiva, antistatalismo e
“illuminata anarchia”, congiuntamente alla sua religiosità
accordata a quel respiro cosmico che i cristiani chiamano Spirito.
Tra gli altri, tra i tanti che intesero importarne la filosofia
e la lotta, mi piace perciò ricordare una figura solitamente
ignorata: quella di Giuseppe Lanza del Vasto, di lignaggio siciliano
e formazione parigina, letterato e filosofo, amico di Gide e
Valery, che dopo un viaggio iniziatico in India e l'incontro
decisivo col Mahatma, intese conciliare il proprio cristianesimo
(delle cui matrici evangeliche gli appariva piuttosto l'induista
Gandhi il più autentico interprete) proprio con il pantheon
e le scritture dell'induismo; e veicolare in Europa, lui che
Gandhi aveva ribattezzato Shantidas (“servitore di pace”),
il pensiero e l'azione gandhiani mediante la creazione di comuni
agricole nonviolente, le comunità dell'Arca, ancora vive
soprattutto in Francia.
Dell'importanza del gandhismo riuscì a convincere anche
Simone Weil, inizialmente scettica; e quelle comunità
di meditazione e lavoro dei campi, di uguaglianza e condivisione,
di creazione artistica e scolarizzazione antiautoritaria fiorirono
nell'inferno del secondo conflitto mondiale, facendo fin d'allora
da centro d'irradiazione di pacifismo nonviolento, manifestazioni
in favore dell'obiezione di coscienza e della riforma della
chiesa, contro gli armamenti, contro il nucleare, contro la
guerra d'Algeria. A un Occidente scristianizzato Lanza indicava
l'orientale “pellegrinaggio alle sorgenti” come
nuovo vangelo; e di Gandhi come figura Christi scriveva:
«Colui che vado a seguire assomiglia in tutto al mio Signore.
Non ha che un mantello e non porta denaro nella sua cintura.
Non si preoccupa di sapere cosa mangerà domani e di che
cosa si vestirà. Ha sofferto tribolazioni per fame e
sete di giustizia. Ha teso la guancia sinistra quando hanno
colpito la sua guancia destra. È venuto per servire,
come il mio Signore. Gli sono grato di non essersi servito del
nome del mio Signore, per regnare sugli uomini».
Altre figure, altre fedi andrebbero ricordate: e tra queste
l'anarchismo evangelico del “povero cristiano” Ignazio
Silone, che nel francescanesimo e nell'anarchia riconobbe le
forme di «ribellione al destino» e di «attesa
del Regno» più confacenti agli «spiriti vivi».
Ma questo elenco di nomi non può che finire con quello,
poc'anzi citato, di Simone Weil. Cristiana senza chiese, anarchica
per convinzione intellettuale ma ancor più per scelta
di vita, spesa in un penoso esilio tra studio, lavoro in fabbrica
e la partecipazione alla guerra di Spagna, Simone denunzia la
menzogna democratica, la vocazione totalitaria dei partiti,
il «rovesciamento della relazione tra fine e mezzo»
su cui si fonda la politica, e propugna libere aggregazioni
caratterizzate dalla stessa «fluidità», continuamente
scomponibile e ricomponibile, che caratterizza le dinamiche
del pensiero individuale e i flussi delle opinioni collettive.
Occorrerà pensare diverso
All'odio di classe che Marx poneva come vettore di trasformazione
sociale, ma che è destinato a instaurare gerarchie e
poteri altrettanto illiberali di quelli soppiantati, Simone
oppone uno “spirito di rivolta” che è nella
natura stessa dell'uomo e impose allo stesso Cristo quel grido
rivolto dalla croce al Dio che l'aveva abbandonato. Nemica di
quella «macchina dello Stato» che viceversa è
un feticcio per i partiti operai, e sostenitrice di un cristianesimo
nemico dell'ordine costituito e dei valori dominanti, Simone
vorrebbe liberare quel cristianesimo dall'opprimente ipoteca
di Gerusalemme e di Roma, del Tempio e del Palazzo, della feroce
angustia dell'Antico Testamento e dell'asservimento della religione
di stato. E perciò ne dilata i confini annettendovi il
Bhavagad Gita e l'Iliade, le segrete armonie dei
pitagorici e l'onirico nichilismo dei mistici: il suo è
un cristianesimo dell'amore e della rinunzia (Dio per primo
ha rinunziato, creando, all'illimitatezza del suo potere e alla
purezza del suo essere), dello svuotamento dell'Io e dell'amore
fra un Dio e un uomo altrettanto “svuotati”, impotenti,
traboccanti di desiderio insoddisfatto. E ancora, come annota
nei Quaderni: «Credere che niente di ciò
che noi possiamo afferrare è Dio. Fede negativa. Ma credere
anche che ciò che non possiamo afferrare è più
reale di ciò che possiamo afferrare. Che il nostro potere
di afferrare non è il criterio della realtà, ma
al contrario inganna».
Rinunciare ad “afferrare” equivale a mio avviso
a svuotare l'arroganza imperialistica dell'Io, a cercare altri
criteri e logiche che non siano di possesso, a far nostra la
“fluidità” e l'impermanenza del cosmo adattandovi
un pensiero mobile, inappagabile, autocritico, irriducibile
ai metodi e ai canoni imposti dal pensiero dominante. Scriveva
Andrea Caffi, straordinaria figura di ribelle cosmopolita, libertario
e pacifista: «Non basta mettersi alla ricerca di altre
'soluzioni': bisogna prima di tutto escogitare un altro modo
di impostare i problemi stessi».
E Albert Camus, che fu suo amico: «Nella rivolta, l'uomo
si trascende nell'altro e, da questo punto di vista, la solidarietà
umana è metafisica». E infatti Camus diffidava,
lui laico, dal confondere la rivolta con l'ateismo: «Più
che negare, l'uomo in rivolta sfida. [...] non sopprime Dio,
gli parla semplicemente da pari a pari. Ma non si tratta di
un dialogo cortese». Infatti, come aggiunge con parole
non molto diverse da quelle della Weil: «Egli trascina
quest'essere superiore nella stessa avventura umiliata dell'uomo,
il suo vano potere equivalendo alla nostra vana condizione».
Alla ricerca di modalità diverse
Ecco perché, sfidando una secolare diffidenza anticristiana
dei padri dell'anarchia ottocentesca (ma di omaggi a un Cristo
umiliato e offeso, povero tra i poveri, quella stessa letteratura
è prodiga), mi sono proposto di parlare di anarchia e
cristianesimo, e di chi credette nell'equivalenza o comunque
nel possibile connubio tra i due termini. Si continua a pensare
all'anarchia come alla fosca utopia d'una realtà futura
e come al caos distruttore; e invece è o dovrebbe essere
la semplice individuazione di modalità diverse e antiautoritarie
di organizzazione, di associazione, di scambio nonché
di concezione del mondo già ben presenti nella realtà
in cui viviamo, e prosperanti negli interstizi di questo mondo
asservito a potere, gerarchie, sopraffazione, speculazione.
Facile, per i tirannicidi, i libertari e gli anarchici d'un
tempo, attaccare il Potere, quando questo si identificava con
la persona del despota. Oggi non solo il Potere è polverizzato,
ma è astratto, virtuale, sovrapersonale: perciò
chi dice di combatterlo non sa e non può che suggerire
la sostituzione o la riparazione d'un suo infinitesimo e irrilevante
tassello, e perdersi in un gioco illusorio di specchi.
Perciò, se non è più a quelle sagome che
bisogna mirare, occorrerà frantumare quegli specchi,
per eliminarne il riflesso mendace sulla nostra distorta e passiva
percezione del reale. Occorrerà, in altre parole, pensare
diverso: abbandonare i vecchi ragionamenti appresi dai notiziari
e dalle tribune e la logica stessa, intimidatrice e abitudinaria,
che li articola; coltivare stranianti utopie, azzardati paradossi,
lingue sconosciute.
O fedi tradite dalle chiese, ma vive nel cuore degli umili;
fedi come quella fondata sull'insostenibile scandalo della Croce,
su un Dio che si umilia (incarnandosi Egli stesso o riconoscendo
in un uomo un suo emissario: poco importa, né potremo
mai saperlo almeno in questa vita, se altre ce ne sono) per
manifestarsi, all'uomo, non solo compassionevole ma altrettanto
dolorante, e per condividere con lui – qui e ora –
una speranza di riscatto, di drastico mutamento. L'anarchico
fa a meno delle istituzioni e si sottrae alle norme con la stessa
grazia innocente con cui Francesco si spogliò delle vesti.
È ovunque uno straniero, di ogni appartenenza e credenza
si libera con lo stesso gesto agile e sprezzante. Fa il vuoto
dentro e attorno come un mistico in estasi, anela al regno a
venire come i mendicanti dello spirito delle Beatitudini, sfiora
incontaminato il caos con la leggerezza di Ariel, balbetta parole
incomprese di bellezza come il principe Myskin, l'“idiota”
del grande (e cristiano) Dostoevskij: se idiota, per questo
mondo, vuol dire diverso e anzi discorde, difforme, inspiegabile,
irrecuperabile, straniero.
Antonio Di Grado
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