Rivista Anarchica Online


antropologia

Violenza
e capitalismo globale

di Lino Rossi


Come la formazione di un mercato del lavoro globale ha introdotto nuove forme di sfruttamento e di sudditanza fondate sulla cultura della violenza.


La riflessione critica sulla cultura della violenza, oggi più che mai attuale, non può astenersi dal considerare gli effetti che la comunicazione digitale sta esercitando sulla vita quotidiana dei cittadini del cosiddetto “villaggio globale”. Questo perché gran parte degli scambi simbolici che rendono “efficaci” le scelte individuali e collettive appare condizionata da un flusso d'immagini mediatiche in grado di penetrare in profondità, incidendo sulla sfera dei bisogni e dei desideri personali, sostituendo l'interesse per le cose con quello per le loro proiezioni massmediali.
Se la società moderna non è stata in grado di fornire una spiegazione in termini assoluti agli interrogativi che riguardano le relazioni fra gli individui e il mondo, ancora meno capace è la società postmoderna, nel definire il significato dei rapporti fra il soggetto e le rappresentazioni della realtà. Su questo aspetto è molto chiara la posizione espressa da Jean Boudrillard, nel momento in cui afferma in modo radicale l'indipendenza del mondo dalla volontà individuale e dai desideri che la sfera della comunicazione evocano in modo simulato. “Non aggiungeremo niente al nulla del mondo, perché ne facciamo parte. Ma non ne aggiungeremo anche al suo significato, poiché non ne ha”1.
Il feticismo mercantile, che ha modellato l'immaginario collettivo sulla scorta delle necessità di natura economica e politica proprie del capitalismo globale, ha profondamente influenzato gli aspetti sociali più significativi di questa era, ponendosi fra le cause dei macrofenomeni della realtà contemporanea, come i processi migratori. In tal senso Arjun Appadurai ha analizzato il rapporto fra immaginario collettivo e ciò che egli definisce mediorami in cui “si mescolano profondamente il mondo delle merci, quello delle notizie e della politica”2. È possibile ritrovare le tracce delle sue suggestioni anche nei fenomeni di rivolta che hanno segnato le tappe iniziali delle diverse primavere arabe, il cui “statu nascenti” ha visto, in primo luogo, l'enfasi di un risveglio emotivo, canalizzato verso esiti politici a rischio d'uso strumentale da parte dei poteri e dei contropoteri ideologici.
Le strategie del capitalismo globale hanno mutato le proprie caratteristiche d'intervento, facendo ricorso sempre meno frequentemente ai mediatori istituzionali, riconoscibili nella loro identità politica e quindi più facilmente individuabili come bersaglio della critica e dell'opposizione d'opinione.
Non sono tuttavia mutate le sue finalità di natura oppressiva, rese maggiormente efficaci dalla formazione di un consenso dai caratteri (neo)tribali legati a un eclissi della coscienza individuale; quest'ultima risulta indebolita, poiché ai vincoli sociali si sono sostituiti legami fragili e fluttuanti, che trovano la loro origine nei sentimenti e all'interno della cultura dei potenziali emotivi.
Ne troviamo eco all'interno delle riflessioni critiche di Alain Touraine3 o Zygmunt Bauman4.
Da un lato il capitalismo globale ha infranto le barriere di natura sociale che vedeva fino a qualche tempo fa i lavoratori inquadrati in un sistema moderno, costituito da regole e da negoziazioni, giustificate da un conflitto sempre meno garante degli interessi reali dei produttori, ma pur sempre presente nelle forme blande del sindacalismo istituzionale. Perfino i rischi derivati dall'azione dei gruppi autogestiti di lotta sindacale esterna alle organizzazioni tradizionali, sono stati definitivamente neutralizzati da interventi di politica del lavoro, tesi a frammentare la solidarietà dei lavoratori attraverso forme di contrattualizzazione di natura individuale e privatistica.
In questo senso la creazione di un mercato del lavoro globale, attuata mediante le diverse forme della delocalizzazione e della cosiddetta lean production, ha introdotto nuove modalità di sfruttamento e di sudditanza fondate sulla cultura della violenza. In questo caso una vera e propria aggressione alla sicurezza degli individui, ottenuta attraverso il ricatto del posto di lavoro5.
D'altro canto, invece – e questo rappresenta l'aspetto di maggiore pericolo – lo sviluppo di una cultura dei sentimenti e delle emozioni, ha alimentato un atteggiamento conformistico dai caratteri nuovi, in cui il soggetto – persa la propria identità di produttore e interlocutore sociale – si trova ad accettare passivamente il ruolo del semplice consumatore, o meglio dello “spettatore-consumatore”, stretto nella morsa fra pubblicità e desiderio. Lo spazio di “libertà” che gli viene riservato consiste nella scelta dei prodotti e il suo compito in seno alla società (ma che non ha nulla a che vedere con un ruolo sociale vero e proprio) si riduce alla ricerca dei mezzi economici necessari per soddisfare le esigenze d'acquisto, apparendo come una parcella del dispositivo economico-mercantile che si apre a tutto campo di fronte alla sua possibilità di godimento.

Violenza e stati d'eccezione nell'era digitale

L'imporsi di una cultura, intesa in senso antropologico, dai caratteri (neo)tribali, così come la descrive Michel Maffesoli, basata sui sentimenti, sulle emozioni e sul godimento, concede molti spunti di riflessione e apre la strada ad ipotesi dialettiche, in grado ancora di dividere fra “apocalittici e integrati”6.
Un punto sul quale occorre fare chiarezza, al di là di ogni posizione ideologica, riguarda la forma del consenso che appare conforme al dispositivo economico post-moderno che egli individua. Ciò che forse è meglio indicare come il problema della “forma-consenso”, dato che l'insieme delle suggestioni dell'immaginario collettivo convergono verso una finalità ben precisa: il superamento della coscienza individuale come mezzo critico di rifiuto e di rivolta nei confronti della condizione di consumatore incondizionato, che si caratterizza nel ritorno alla posizione di un soggetto a una dimensione, di marcusiana memoria.

Simboli di una sagra del consumismo

Il (neo)tribalismo conduce a una sorta di realtà separata, dove l'individuo (al di là di ogni determinazione, sociale, culturale, politica, ecc.) vive immerso all'interno di una condizione di “grande festa”, i cui fini consistono nella “liberazione” delle condotte di consumo, a puro vantaggio della riproduzione del dispositivo mercantile. I simboli di questa sagra dai connotati orgiastici sono trasmessi attraverso il flusso comunicativo digitale che sostiene questo dispositivo con apparente innocenza e con la giusta leggerezza, tipica di una normalità accettabile. O forse ineluttabile. È ciò – in effetti abbastanza “normale” – quando si aggirano le capacità di resistenza e di libera scelta, stravolte nella logica, ben accetta dal dispositivo stesso di un “ribellismo dei gusti”, nella prospettiva di realizzare una civiltà del consumatore gaudente planetario.
La “liberazione dei gusti” e il loro dominio erano stati ben individuati da Guy Debord, come il principio di una società oppressiva e autoritaria7.
Ma oggi c'è di più. I gusti non hanno nulla a che vedere con la realtà, ma vengono formati dai suoi simulacri che vivono nei mediorami, guidati dai dispositivi pubblicitari e della comunicazione mediatica (non solo la televisione, come osserva Baudrillard, ma dai mezzi più efficaci della rete: dai social network alle app.).
Il tramonto dell'individuo ha favorito l'emergere di tendenze che legittimano una deriva anti-libertaria, in pieno clima liberistico, legate a quella che abbiamo definito “forma-consenso”: in primo luogo l'ipotesi consolidata che lo sviluppo capitalistico sia un frutto ineluttabile di leggi “naturali”, come se il mercato fosse svincolato da ben precise scelte politiche; l'imprigionamento del soggetto (neo)tribale all'interno di un immaginario collettivo, all'interno del quale egli non gode di alcun diritto.
D'altra parte l'eclissi dei corpi politici reali ed identificabili da cui discendono le scelte di natura economica; i poteri imperiali, di cui riferiscono Michael Hardt e Antonio Negri8, rendono molto difficile (o forse impossibile) il sorgere di un contropotere in grado tradursi in azione pratica, se non sulla scia di una generica capacità d'invettiva, priva di una prospettiva di lotta efficiente ed efficace. Il soggetto diventa un indignato.
Non è ancora chiara la condizione di privazione sostanziale che vive l'individuo post-moderno se non si rende esplicito lo “stato di eccezione” che regola la sua funzione in seno al contesto globale. E di questo si tratta, nel momento in cui gli viene sottratta la possibilità di sviluppare un pensiero, di qualsiasi orientamento esso sia. Nel clima di festa tutti possono partecipare all'asta orgiastica dei beni di consumo, ma la regola culturale che si riflette nella “grande festa” definisce in modo chiaro quali sono i tempi e i modi in cui l'ordine “può” essere sovvertito; nei cerimoniali si riflettono le relazioni fra poteri e contropoteri, giungendo ad accettare anche una loro commistione.
Tutto questo rispetta un pensiero culturale. La “deregulation” su cui si erge la società (neo)tribale, al contrario, finisce col confondere nella dinamica delle emozioni ciò che è reale e ciò che è immaginario: tutto è immagine e realtà nel medesimo momento. In mancanza di un pensiero, l'individuo si ritrova in comunione con gli altri condividendo atteggiamenti e condotte emozionali, all'interno di un recinto di cui accetta – senza possibilità di ribattere – i confini.

L'impedimento di un pensiero autonomo, responsabile, libero

In questo senso possiamo interpretare la violenza insita nella cultura digitale. Una violenza silente e insidiosa, ma in grado di canalizzare fantasmi di opinioni, fantasmi di scelte, fantasmi di ribellione. Anche le emozioni più pericolose conoscono una via di legittimazione: la rabbia, la paura, l'inquietudine sono indirizzate verso i bersagli che i gestori dell'immaginario cercano di delineare, identificandoli volta per volta nei brandelli della vecchia società moderna, descritti come responsabili del dramma che attraversa la vita quotidiana delle singole persone o delle famiglie, considerate come segmenti deboli di un sistema sociale ormai consunto e privo di vitalità.
Divengono bersaglio in primo luogo la casta dei politici, e poi i partiti, gli “anziani” o la cultura stessa, che ben poco ha saputo fare nell'interpretare in modo attivo il crepuscolo della modernità.
Tutto questo genera un clima di violenza fredda, ma – per alcuni versi – gioiosa; sicuramente al riparo da molte forme di reazione critica e di rivolta, perché irriconosciuta e occultata.
In cosa consiste la violenza digitale? Per quale motivo si trova così strettamente legata agli sviluppi della cultura (neo)tribale? Perché infine possiamo considerare violenti i contorni sociali di numerosi aspetti comportamentali di quello che può essere letto come un ritorno neo-dionisiaco della vita culturale?
Occorre in primo luogo definire con maggiore chiarezza cosa s'intende per violenza. Dal nostro punto di vista non si tratta né di una certa forma di condotta aggressiva, né del ricorso ad una forza, più o meno visibile od occulta, in grado di attivare modelli aperti di conflitto sociale, senza perciò raggiungere, se non raramente, eccessivi livelli di tensione e forme di acting-out. La repressione è limitata a contesti di eccezione: pensiamo ad esempio alla realtà dei centri per l'identificazione e l'espulsione degli stranieri clandestini. Siamo piuttosto di fronte a un processo dai caratteri opposti: la violenza digitale tacita non eccita, agisce come un serbatoio di compensazione; un mezzo attraverso il quale si baratta il pensiero – alimento d'incertezza, inquietudine e timori dovuti al bisogno di compiere scelte – con la catarsi emozionale e psichedelica degli affetti.
La continua produzione delle immagini sovrasta la durata temporale, occupando i contatti interpersonali composti da infinitesimi segmenti di comunicazione. I dispositivi digitali interrompono il flusso delle relazioni con continui richiami a dislocarsi “altrove”, verso le immagini che giungono dai social network (da Facebook a WhatsApp) o nei confronti delle comunicazioni private che si affidano agli sms: ricerca di un contatto, riconducibile in buona sostanza, o a funzioni di controllo o a suggestioni emotive del tipo: ti penso.
La violenza digitale è l'impedimento di comunicare attraverso la mediazione di un pensiero autonomo, responsabile e libero. Il pensiero infatti separa gli individui, li rende differenti e più difficilmente controllabili; li destina a una responsabilità di scelta e di ricerca personale. L'essenza del tribalismo consiste proprio in questo: favorire ciò che accomuna e cioè la dimensione emozionale, promettendo uguaglianza e felicità.
La logica è mistificante, e raggiunge il paradosso: gli affetti sono una garanzia per i valori democratici, perseguono le pari opportunità. Il pensiero no. Sembra quasi spietato nel suo volersi imporre come mezzo di distinzione e di libertà.

L'azione comunicativa sempre più violenta

Si può ancora pensare nella cultura (neo)tribale? Forse sì e forse no. Sì, nel momento in cui si esprimono giudizi conformi ad un certo regime culturale; ma si tratta di un pensiero spuntato, privo di quella dose di spirito sovversivo che è necessario per offrire punti di vista realmente alternativi e critici. Nessuna antropologia è compatibile all'interno di un simile regime. Ma forse no: un pensiero imprigionato non è un autentico; si tratta di una illusione, come nel caso dell'effetto fisico della “fata morgana”. Realtà e immagine ancora colludono e ci si vede costretti a ricorrere a una descrizione di ciò che si sta osservando per comunicare l'evento. E descrivere non implica affatto né spiegare (usando una forma di pensiero), né tantomeno interpretare.
La sostituzione della riflessione con la descrizione è un processo del tutto post-moderno che prelude a modalità culturali valide solo se si valuta il piano della diffusione popolare, ma non coglie certo il senso della culturalità, il cui nodo vitale consiste nell'assunzione critica del senso, in quanto astrazione dal quotidiano, in prospettiva di un suo apprezzamento e di un possibile cambiamento.
Il cambiamento infatti si può realizzare solo nel momento in cui le soggettività sono chiamate a confrontarsi su piani autenticamente conflittuali, a volte antitetici, alla cui base si ritrova una socialità contrapposta per bisogni di natura materiale. L'essere e non il “voler essere” o il “desiderare di essere” caratterizza lo scarto fra i diversi individui che condividono una società complessa e variegata.
Il villaggio globale dei social network, rimane invece un villaggio, inteso in senso premoderno, nel quale operano dispositivi di esclusione (voluti non solo dai moderatori della rete) che tendono a generare una rete omogenea da cui deriva un consenso su base affettiva, la cui preoccupazione essenziale consiste nella circolazione delle suggestioni emotive. Chi non è disponibile a mettersi in gioco è destinato ad abbandonare il campo, prima ancora di esserne espulso.
Ciò rende ancora più violenta l'azione comunicativa; è l'habitus stesso che investe il campo comunicativo e relazionale che impone al soggetto l'abbandono del terreno di gioco, nel momento in cui egli non si sente più in grado di affrontare il rapporto empatico con la rete. La strategia dell'esclusione viene interiorizzata, fino a provocare l'uscita dal gruppo e la ricerca di una nuova comunità, effimera e flessibile, entro la quale far comparsa. I villaggi affettivi sono fluttuanti e così anche la personalità interpersonale dell'individuo postmoderno. Come rileva M. Maffesoli, non ci troviamo di fronte a un soggetto atomizzato: la sua solitudine non ha un carattere assoluto, al contrario di quanto ritiene Z. Bauman. Essa si manifesta coi caratteri dell'atto rapsodico, e in questo modo il suo isolamento deve essere considerato momentaneo, tanto quanto però la sua partecipazione alla nuova vita dentro la successiva comunità tribale in cui tenta d'inserirsi.
«Come emerge da diverse inchieste statistiche – scrive Maffesoli – sempre più persone vivono da single, ma il fatto di essere solitario non significa vivere isolato. A seconda delle occasioni che si presentano […] il single si aggrega al tale o al tal'altro gruppo, a tale o tal'altra attività. Così, attraverso molteplici vie si costituiscono delle “tribù” sportive, amicali, sessuali, religiose o altre; ognuna di esse ha delle durate variabili a seconda del grado d'investimento dei suoi protagonisti»9.
Il carattere della vita emotiva e la facilità con cui si possono interrompere i rapporti virtuali rende particolarmente fragile l'interazione poiché la coesione tribale non possiede una cornice sociale dotata di un prestigio tale da trascendere l'occasionalità del contatto. Questo cessa nel momento in cui viene a mancare la fiducia accordata ai componenti del gruppo, o una volta scemato l'interesse per essi. Basta infatti un click per cambiare pagina e iniziare un nuovo viaggio suggestivo. Anche i contenuti religiosi, che possono apparire fra i più strutturati e duraturi, hanno nella rete poca probabilità di rimanere stabili, in quanto ciò che realmente conserva il legame fra il soggetto e la comunità non è il valore sociale dell'ideologia spirituale, ma il prestigio soggettivo di chi gestisce il gruppo tribale, la sua forza carismatica.
Ciò determina una condizione di subordinazione ancor più forte nei confronti del leader tribale, da cui si può sfuggire solo attraverso una fuga dal gruppo e una rinuncia alla contrapposizione critica. D'altra parte l'habitus del gruppo è la condivisione emotiva e non il dibattito ideologico.

Lino Rossi

Note

  1. Boudrillard, Jean (1996), Il delitto perfetto. La televisione ha ucciso la realtà?, Milano, Raffaello Cortina, p. 15.
  2. Appadurai, Arjun (2001), Modernità in polvere, Roma, Meltemi, p. 54.
  3. Touraine, Alain (2004), La globalizzazione e la fine del sociale, Milano, Il Saggiatore; Touraine, Alain (2005), Critica della modernità. L'epoca moderna tra soggetto e ragione, Milano, Il Saggiatore.
  4. Dell'ampio contributo del sociologo polacco si veda in particolare: Bauman, Zygmunt (2000), La solitudine del cittadino globale, Milano, Feltrinelli.
  5. Cfr. sull'argomento: Beck, Ulrich (2011), Conditio humana. Il rischio nell'età globale, Roma, Laterza.
  6. Meffesoli, Michael (2004), Il tempo delle tribù. Il declino dell'individualismo nelle società postmoderne, Milano, Guerini.
  7. Cfr. Debord, Guy (1997), La società dello spettacolo, Milano, Baldini&Castoldi.
  8. Hardt, Michael, Negri, Antonio (2003), Impero, Milano, Rizzoli.
  9. Maffesoli, Michel (2004), Il tempo delle tribù, cit., p. 208.

Per saperne di più

Appadurai, Arjun (2001), Modernità in polvere, Roma, Meltemi.
Boudrillard, Jean (1996), Il delitto perfetto. La televisione ha ucciso la realtà?, Milano, Raffaello Cortina.
Bauman, Zygmunt (2000), La solitudine del cittadino globale, Milano, Feltrinelli.
Beck, Ulrich (2011), Conditio humana. Il rischio nell'età globale, Roma, Laterza.
Meffesoli, Michael (2004), Il tempo delle tribù. Il declino dell'individualismo nelle società postmoderne, Milano, Guerini.
Debord, Guy (1997), La società dello spettacolo, Milano, Baldini&Castoldi.
Hardt, Michael, Negri, Antonio (2003), Impero, Milano, Rizzoli.
Touraine, Alain (2004), La globalizzazione e la fine del sociale, Milano, Il Saggiatore.
Touraine, Alain (2005), Critica della modernità. L'epoca moderna tra soggetto e ragione, Milano, Il Saggiatore.