Portogallo quarant'anni dopo/
Dopo l'intervento della troika, cosa è rimasto della Rivoluzione dei garofani?
“È
indubbio che le trasformazioni cominciate il 25 aprile del 1974
sono state le più significative degli ultimi decenni
in seno alla società portoghese, paragonabili a quelle
del 5 ottobre del 1910 o del 28 maggio del 1926. Se ciò
è innegabile dal punto di vista strettamente politico,
oseremmo dire che, dal punto di vista dei rapporti sociali,
della vita economica e della posizione del Portogallo nel contesto
internazionale, il 25 aprile diede l'avvio a un processo di
modifiche senza precedenti per la sua importanza e per le conseguenze
che tali trasformazioni hanno avuto in seguito.” Questo
scriveva la rivista libertaria portoghese A Ideia nel
ventannale della rivoluzione dei garofani. Il testo fu tradotto
e pubblicato proprio su queste pagine (vedasi, A Ideia, “Portogallo,
venti anni dopo”, A 211, estate 1994). Non era un caso.
Fin da subito A aveva dimostrato un grande interesse per quella
rivoluzione. Un giovane Paolo Finzi aveva scritto due bei reportage
nell'estate del 1974 dal Portogallo post-rivoluzionario con
esponenti di due diverse generazioni – lo “storico”
Emidio Santana e il giovane Julio F. – del movimento anarchico
e libertario lusitano uscito dalla clandestinità dopo
la fine del regime di Salazar e di Caetano. Li potete leggere
ancora nell'archivio digitale di “A” nel numero
31 dell'estate del 1974.
Ora di anni ne sono passati quaranta. Non potevamo non tornare
a Lisbona per capire che cosa rimane di quella esperienza. Anche
perché nell'ultimo lustro il Portogallo, come gli altri
paesi dell'Europa meridionale, ha sofferto l'applicazione di
dure politiche di austerità e, come la Grecia, l'intervento
diretto della troika (FMI, BCE, Commissione Europea) che, ufficialmente,
si è concluso lo scorso mese di maggio. Ma si è
davvero concluso? E quante macerie ha lasciato alle sue spalle?
Nel centro di Lisbona, a due passi dallo storico caffè
A Brasileira e dalla statua di Fernando Pessoa, si trova la
sede dell'Associazione 25 Aprile che riunisce buona parte dei
capitani che cambiarono la storia del Portogallo contemporaneo.
Anche quest'anno l'Associazione non ha partecipato alle celebrazioni
ufficiali del 25 aprile. Una decisione che vale più di
molte dichiarazioni. Abbiamo incontrato uno dei suoi maggiori
responsabili, il colonnello Aprígio Ramalho, 68 anni,
l'esperienza della guerra coloniale in Mozambico ancora negli
occhi, le speranze di quella notte tra il 24 e il 25 aprile,
in cui coordinava le operazioni del Movimento delle Forze Armate
(MFA) nel centro del Portogallo, ancora nel cuore. E nelle parole.
“Grazie al 25 aprile la società portoghese ha vissuto
una trasformazione assolutamente radicale e totale per quanto
riguarda la forma di vita, la mentalità, le prospettive
e le aspettative delle persone, la loro coscienza di cittadinanza.
La società portoghese di adesso non ha niente a che vedere
con ciò che era prima della rivoluzione”, mi spiega
Ramalho. “Nel biennio successivo al 25 aprile il Portogallo
si trasformò in un vero e proprio laboratorio internazionale”.
Ramalho si riferisce a quello che si chiama PREC (Processo Rivoluzionario
In Corso) dove diverse visioni politiche e sociali si scontrarono.
In tutta la società portoghese ed anche all'interno del
MFA. António de Spínola, Otelo Saraiva de Carvalho,
Vasco Lourenço, il Partito Comunista, la variegata estrema
sinistra, la destra post-salazarista, l'onnipresente Chiesa
cattolica, l'immancabile massoneria, il Partito Socialista di
Mario Soares appoggiato e finanziato profumatamente dalla SPD
tedesca... In soli due anni si tennero elezioni politiche, presidenziali,
regionali e comunali e il 2 aprile del 1976 si approvò
la nuova Costituzione repubblicana. “Una delle più
avanzate del mondo”, come mi ricorda Ramalho, che aggiunge:
“In quel biennio il Portogallo è passato da una
dittatura a partito unico a una democrazia. Al di là
di tutte le lotte che ci sono state, il PREC è riuscito
a trasformare in realtà una delle promesse del MFA: restituire
il potere al popolo portoghese, in una società democratica
dove tutte le opinioni e le idee potessero esprimersi e confrontarsi”.
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Lisbona (Portogallo) - Murales nel centro della città. I politici portoghesi (al centro il presidente della Repubblica Cavaco Silva) banchettano mentre distruggono il welfare state |
“E a che punto siamo ora?”, domando a Ramalho. “Stiamo
tornando indietro”, mi risponde sconsolato. “C'è
stato un retrocesso evidente delle conquiste della rivoluzione
del 1974. A causa del neoliberismo imperante. Con l'intervento
della troika in Portogallo ci sono stati drastici tagli in tutti
i settori, soprattutto nella sanità e nell'istruzione.
Si sono sommate due cose estremamente negative: l'aumento della
disoccupazione e la riduzione degli ammortizzatori sociali e
di una buona parte dei servizi offerti alla popolazione.”
Ramalho mi spiega un fenomeno che stiamo conoscendo anche in
Italia e che è purtroppo già un dato di fatto
in Grecia e anche in Spagna: “Sono molte le famiglie in
cui nessuno ha un lavoro. È molto difficile che le persone
di 40 o 50 anni che hanno perso il lavoro riescano a trovarne
uno nuovo. E la disoccupazione giovanile è alle stelle.
All'inizio molti giovani riuscivano a tirare avanti grazie ai
risparmi e alle pensioni dei genitori. Le famiglie hanno funzionato
come un cuscinetto. Ma con l'aggravarsi della crisi e con le
misure criminali prese dall'attuale governo – tagli alle
pensioni e alle prestazioni sociali, ecc. – questa funzione
svolta dalle famiglie sta scomparendo. O è già
scomparsa. Ci troviamo in una situazione drammatica. Per me
è inaccettabile che nel mio paese ci siano persone che
non abbiano il minimo indispensabile per vivere e per mantenere
la propria famiglia. È lo Stato che ha l'obbligo di aiutare
queste persone: la solidarietà è qualcosa di indispensabile.”
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Lisbona (Portogallo), 25 aprile 1974 - Civili e militari durante l'assedio al Quartier Generale della Guardia Nazionale Repubblicana da parte dei ribelli del Movimento das Forças Armadas (Movimento delle Forze Armate, MFA) |
“Ma la costituzione approvata nel 1976 non dovrebbe essere
un baluardo davanti a questa ondata neoliberista?” chiedo,
forse un po' troppo ingenuamente, a Ramalho. “Senza dubbio”,
mi conferma “Anche se negli anni Ottanta e Novanta ci
sono stati dei cambi, i valori democratici presenti nella Costituzione
sono rimasti gli stessi. E infatti i recenti tentativi del governo
di riformarla o di oltrepassare i limiti in essa stabiliti hanno
incontrato la dura opposizione del Tribunale Costituzionale.
È evidente che per l'applicazione delle ricette neoliberiste
la costituzione portoghese è un ostacolo.”
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Lisbona (Portogallo) - Murales per i quarant'anni della Rivoluzione dei garofani nella zona universitaria della città, dedicato all'eroe del 25 aprile 1974, Fernando José Salgueiro Maia |
“I portoghesi si sentono ancora rappresentati da questa
Costituzione e dai valori della Rivoluzione?”, domando
ancora a Ramalho. “Assolutamente. Un esempio è
la partecipazione di massa alle manifestazioni e alle iniziative
organizzate per la celebrazione dei 40 anni del 25 aprile. Con
l'Associazione 25 Aprile abbiamo voluto convertire questa data
non solo in una commemorazione, ma anche in una giornata di
lotta in difesa degli ideali e dei valori della Rivoluzione.
E la popolazione ha risposto più che positivamente. È
stato qualcosa di importante.”
Allora, che cosa manca oggi che c'era quarant'anni fa? “Una
cosa più di tutte: etica nella politica. Un'etica di
servizio pubblico, per i cittadini, per la gente.”
E voi, che siete i protagonisti e i testimoni viventi di quella
Rivoluzione, che cosa potete fare? “Continuare a fare
quello che abbiamo cercato di fare negli ultimi quarant'anni:
cercare di far reagire le persone, far sì che reagiscano,
che non si lascino vincere. Che si mobilitino e che partecipino
in tutti i modi a tutte le iniziative e le azioni organizzate
per difendere ciò che considerano importante per il futuro
dei loro figli e per rifiutare le politiche approvate dal governo
negli ultimi anni. Questo è ciò che possiamo fare.
L'unica cosa possibile in democrazia. L'altra via sarebbe quella
di riprendere le armi, ma ciò non è possibile.
Non ci sono prospettive per pensare qualcosa del genere adesso.
Non avrebbe senso. In ogni caso, noi continuiamo all'erta.”
Steven Forti
Repubblica democratica del Congo/
Storia di Dodò, made in carcere
Le ho chiesto quanti anni avesse e lei mi ha risposto “dieci”.
Allora ho riformulato la domanda in un francese più corretto,
e ancora mi ha risposto “dieci”. Ma io so bene che
dieci sono gli anni di pena residua; tanti gliene ha comminati
il giudice per il reato di omicidio preterintenzionale, quello
del marito che le aveva fatto un grave torto. Bakala,
dicono in lingua ki-kongo.
“Lei non conosce la sua età” – mi spiega
Cirylle Luwala che mi accompagna e che le ha fatto la mia stessa
domanda, ma nella sua lingua. A occhio e croce può averne
non più di venti. A casa è rimasto il primo figlio
di cinque anni; quello che ha in braccio ha cinque mesi, me
lo ha detto il Direttore del carcere: è una bimba, Dodò,
ed è nata qui. Made in carcere, come è
scritto sulla grande borsa di stoffa realizzata dalla donne
della prigione di Lecce, che avevo con me e che le ho subito
donato perché potesse mettervi le poche preziose cose
che ciascuna e ciascun detenuto si porta sempre appresso e di
cui chiunque può impossessarsi, perché non ha
neanche quelle: una vecchia bottiglia di plastica dove mettere
l'acqua del fiume se e quando arrivano i bidoni donati da qualche
“buona samaritana”, come le definisce il direttore
Noè, un contenitore di alluminio per il cibo, che arriva
con la stessa frequenza della manna quella volta in Galilea,
un raro pezzetto di sapone; ma non tutti hanno tutto questo.
Perciò lei ci ha messo dentro la sua creatura, come fosse
un porte-enfant. E ora dai bordi della borsa di stoffa
sporge la testolina della piccola, e soprattutto i suoi occhi
che sembrano chiedere “perché?”.
Perché nascere in carcere, e perché dover trascorrere
in questo inferno i primi anni della propria vita che per Dodò
hanno un orizzonte decennale, e anche per la piccola Miriam
che sta qui con la sua mamma. Perché la “modernità”
ha creato queste brutture? Nella cultura della sua gente, se
solo fosse nata cinquanta o più anni fa, non ci sarebbero
state queste aberrazioni. La madre sarebbe comparsa al cospetto
degli anziani del villaggio; l'indovino fabbro, Ngoombo luufu,
o l'indovino con il corno d'antilope, Ngoombo nseengo,
avrebbero riconosciuto la sua colpa, la famiglia del padre ucciso
avrebbe chiesto un giusto risarcimento: un bue, un coppia di
polli, la costruzione di una nuova capanna, conchiglie cauris,
noci di cola, in misura tanto grande quanto più grave
è il reato. La morte di un individuo sarebbe stata compensata
con dei beni materiali che la famiglia della moglie con grandi
sacrifici avrebbe messo da parte; l'aver pagato la giusta ricompensa
avrebbe soddisfatto vivi e morti, perché anche agli antenati
si sarebbe pagato un tributo in termini di preghiere, noci di
cola e preziose conchiglie cauris. Ma, soprattutto, avrebbe
permesso a chi non ha alcuna colpa, la bimba e il fratellino
che è rimasto da solo al villaggio e che crescerà
senza padre e senza madre, di esercitare il proprio diritto
alla vita. Fra dieci anni, il fratellino primogenito avrà
già quindici anni, l'età prevista per il mukanda,
il rito di passaggio che sancisce l'ingresso nell'età
adulta, allorquando i ragazzi lasciano la casa della madre e,
dopo un breve periodo di formazione nella foresta, sono pronti
per avere una famiglia propria. Ce lo spiega bene l'antropologia
culturale. Ma la sociologia e le leggi dei mundele (i
bianchi, come qui ci chiamano), non ci spiegano cosa di meglio
abbia portato loro il cosiddetto “progresso” e la
tanto sbandierata “modernità”. Perché,
oggi, quella madre e quella piccola di cinque mesi marciscono
in prigione (”marcire” è l'unico termine
che mi riesce di trovare dopo averla visitata e avervi trascorso
appena tre giorni); la perdita di un uomo non è stata
risarcita con alcunché alla sua famiglia e al suo villaggio;
nessuna compensazione ha avuto luogo. Oggi accade soltanto che
la morte violenta di un uomo sia “compensata” con
la morte lenta e non meno atroce, in carcere, di una madre e
della sua bambina. Nessun antenato e nessun dio potranno dirsi
soddisfatti. Solo l'inutile legge degli uomini. Dei mundele,
deformazione fonetica di modèle, il modello
che noi siamo, quel modello che abbiamo esportato e imposto,
perché lo imitassero e vi si uniformassero, quale unico
viatico verso la civiltà.
Alba Monti
Bike polo/
Caratteri libertari di uno sport emergente
Nel lontano 1891 in un paese dell'Irlanda, Richard J. Mecredy
– ciclista ritirato - inventò un gioco nuovo: il
cycle polo. L'intuizione fu quella di prendere il gioco del
polo, e sostituire al cavallo la bicicletta. Questo sport ebbe
un certo successo, e nel giro di pochi anni si diffuse in Gran
Bretagna, Francia e Stati Uniti e fu presente come gioco dimostrativo
alle Olimpiadi di Londra del 1908. Negli anni '30 il cycle
polo raggiunse il suo apice di popolarità, con campionati
regolari sia in Inghilterra che in Francia; tuttavia dopo la
seconda guerra mondiale la popolarità di questo sport
andò sempre più scemando, e soltanto in Francia
– dove tuttora esiste un campionato - è riuscito
a sopravvivere.
L'intuizione di Sir Mecredy è però tornata a fiorire
circa un secolo dopo con la nascita di un nuovo sport: l'hardcourt
bike polo (HBP), uno degli sport che ha riscosso più
successo tra tutti quelli apparsi negli ultimi anni. L'HBP,
nato agli inizi del nuovo millennio, si è sviluppato
nell'ambiente dei cycle messengers (bici messaggeri)
di Seattle che giocavano a bike polo nelle pause di lavoro,
per ingannare l'attesa di nuove consegne. Dai bici-messageri
di Seattle, l'HBP si è poi diffuso velocemente e oggi
è presente in più di 30 paesi e oltre 300 città
del mondo.
Il “court”, ovvero il campo da gioco, è la
grande variante nella nuova versione del cycle polo, infatti
il bike polo non viene più giocato su erba come l'antico
polo, ma su asfalto, mescolando al cycle polo anche elementi
propri dello street hockey (esempio: la pallina è da
street hockey). A contraddistinguere l'HBP è anche il
carattere fortemente urbano (e un po' underground) di questo
gioco, che viene giocato adattando campi da tennis, da basket,
da calcetto delle aree pubbliche urbane o a volte semplicemente
delimitando un'area di circa 40mx20m all'interno di parcheggi
o di altri spiazzi in asfalto. Il “mallet”, ovvero
la mazza, è forse l'“anima” del bici polo
e riflette l'etica DIY (Do It Yourself) di questo gioco, che
tende a non dipendere da alcun lavoro specializzato. Infatti
il mallet viene auto-costruito dagli stessi giocatori,
partendo da una vecchia racchetta da sci in alluminio al quale
viene fissato con un bullone un tramo di tubo in plastica dura.
Creando così una mazza che imita il classico mallet
in legno del polo, però molto più resistente (nonché
a buon mercato).
Allo stesso modo le bici per il bike polo (non esistono limitazioni
riguardo al tipo di bici, a parte che deve avere almeno un freno
e altre precauzioni per tutelare la sicurezza degli altri giocatori)
vengono in genere messe a punto dagli stessi giocatori per una
prestazione ottimale in base al proprio stile di gioco, alle
proprie preferenze. Spesso sono bici molto decorative (e decorate)
per la particolarità delle “pologuards”,
ovvero delle coperture per le ruote, la cui funzione è
proteggere le ruote dai colpi, oltre ad evitare che venga messo
(ma in questo caso letteralmente) il famoso bastone tra le ruote.
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Europei di bike polo a Padova, foto di Alessandro Gonfiantin |
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Le regole del gioco sono poche e semplici (almeno quelle basilari):
si gioca 3 vs 3, per segnare un goal bisogna tirare colpendo
la palla con la “testa” (parte più stretta)
della mazza, ed è vietato appoggiare i piedi a terra
(nel caso capitasse, si rientra nel gioco solo dopo una “penitenza”
che consiste nel colpire la sponda con la mazza in corrispondenza
del centrocampo). Le partite durano in genere 10 minuti (senza
intervalli) o fino a che una delle due squadre raggiunge il
punteggio concordato (5 goals, in genere). Per quanto nei tornei
siano ormai sempre previsti arbitri di gioco (giocatori non
impegnati che si prestano al ruolo di arbitro), il bici polo
come sport - per la sua natura conviviale e per la sua eredità
di “gentlemen sport” - si distingue (o si dovrebbe
distinguere) per un grande fair play e per un'auto-regolamentazione
nel caso di mancato rispetto delle regole. Gli unici contatti
permessi sono spalla contro spalla e mazza contro mazza. È
consigliato l'uso del casco e dei guanti, e sono permesse protezioni
di qualunque tipo. Gli scontri e le cadute fanno parte del gioco
e del divertimento, tuttavia non ne sono la caratteristica principale.
Per quanto possa incutere timore, il bike polo è rischioso
al pari di molti altri sport e non è più pericoloso
di sport ritenuti piuttosto sicuri come possono essere il calcio
o il ciclismo su strada.
Un elemento molto interessante del bike polo (e probabilmente
è l'unico sport ad avere questa caratteristica) è
che nonostante ogni anno vengano regolarmente disputati campionati
del mondo e campionati continentali, non esiste un'istituzione
o un organo decisionale, se non il forum www.leagueofbikepolo.com,
dove la comunità “virtuale” di tutti i giocatori
di bike polo discute e prende decisioni riguardo a tornei, modifiche
al regolamento, e ogni altra questione che si possa presentare.
Questo stesso modello viene poi adottato a scala nazionale per
ogni paese (per l'Italia il riferimento è www.hardcourtitalia.it).
In Nord-America questa unione virtuale si è poi evoluta
in una federazione (http://www.nahardcourt.com/), e anche a
livello europeo si sta discutendo su una simile evoluzione.
Altra curiosità è che anche in competizioni ufficiali
a livello mondiale non esiste una rigorosa divisione per nazionalità,
e possono esser amesse squadre a nazionalità mista (potrebbe
essere Italia/Francia contro Francia/Germania). In ogni caso
la nazionalità non viene mai enfatizzata: il prestigio
e l'eventuale orgoglio per una vittoria è tutto per le
squadre, che di loro natura (per i nomi fantasiosi che vengono
scelti, o per lo scambio occasionale di giocatori, o per il
fatto che magari la squadra viene creata in occasione del tal
torneo e poi sciolta) ricordano più l'idea di una band
musicale piuttosto che quella di un club calcistico.
L'elemento fondante del bike polo è sicuramente la bici,
e così come è nato, si è sviluppato in
ambienti di appassionati della bicicletta; è uno sport
che attira amanti della bici e al tempo stesso induce all'amore
per la bicicletta e promuove la cultura della bici non solo
come mezzo di locomozione, ma come elemento importante della
vita quotidiana (e il gioco, anche negli animali, è una
parte fondamentale della vita). Da notare anche l'aspetto “rivoluzionario”
per cui si potrebbe dire che almeno nel polo è stata
vinta la famigerata “lotta di classe” dei “poveri”
contro i “ricchi”: ecco infatti che il polo, sport
da sempre riservato all'élite della “classe
dominante”, diventa popolare e accessibile a chiunque
nella sua variante su due ruote. Il bello del bike polo inoltre
è che tutti quelli che sanno andare in bici possono giocare
e magari possono anche eccellere nel gioco, senza una condizione
super-atletica o senza dover far sacrifici a tavola. Soprattutto
tutti possono divertirsi tanto, semplicemente cercando di colpire
una pallina con una mazza; ma la pallina in fondo diventa quasi
solo una scusa per girare in tondo con la bici in un cortile,
come amano fare tutti i bambini appena imparano a pedalare senza
perder l'equilibrio. Senza dubbio, il gioco del bike polo è
un altro regalo che ci viene fatto da quella che è forse
la più grande e la più bella tra tutte le invenzioni
dell'umanità, dall'unica catena che libera anziché
opprimere: quella della bicicletta.
Michele Salsi
I
team di Bike Polo in Italia (per regione):
Piemonte: Torino, Vercelli. Liguria: Genova. Lombardia:
Bergamo, Milano, Mantova. Emilia-Romagna: Carpi, Modena,
Parma. Veneto: Vicenza/Lonigo, Padova, Treviso/Conegliano,
Venezia/Mestre. Trentino Alto Adige: Bolzano. Friuli Venezia
Giulia: Pordenone. Toscana: Chianciano. Marche: Fano.
Lazio: Roma. Campania: Napoli. Abruzzo: Pescara. Puglia:
Taranto. Sardegna: Cagliari. Sicilia: Catania, Palermo.
|
Fano/
Una mostra per ricordare i meeting
Si è tenuta a Fano, presso la piccola galleria Infoshop,
la mostra multimediale in occasione dei trent'anni dal primo
meeting anticlericale, che si svolse come “Zona dewojtylizzata”
in occasione della visita in pompa magna, con tanto di altare-palco
in mezzo al mare, di GPII a Fano nell'agosto 1984.
Quindici edizioni fanesi dei meeting, divenute punto d'incontro
delle realtà laiche e anticlericali italiane, che videro
nel 1986 la fondazione della Associazione per lo sbattezzo,
e lo sviluppo di una critica essenzialmente politica sul potere
del clero, e non basata su questioni inerenti la fede, aperta
quindi anche al confronto con i credenti del dissenso. Il modello
radicale, incentrato sulla contestazione della forma di potere
di clero e gerarchia portato avanti dal meeting certo non piacque
alle intelligenze della sinistra istituzionale italiana (da
ricordare la lettera snob di Rossana Rossanda del 1990, che
ci dipingeva come goliardi), sempre impegnata a spartire l'egemonia
sul volgo con don Camillo, mentre vide l'adesione entusiastica
ed attiva di tanta gente libera e libertaria nello spirito anche
se inconsapevolmente, delle tante persone che iniziarono a frequentare
i meeting ogni anno facendoli diventare un appuntamento estivo
fisso.
Oltre ad esporre tutti manifesti delle quindici edizioni, la
mostra ha offerto una brochure contenente i materiali originali
dei meeting (le Millelire anticlericali, i giornali dei meeting
e quello dell'Associazione per lo sbattezzo, “Il Peccato”)
unitamente alla mini-storia
dei meetings edita due anni fa da A-Rivista Anarchica, ottenendo
grande successo. Durante l'inaugurazione è stata presentata
una lettura delle attualissime 'Preghiere capitaliste' di Paul
Lafargue e dell'immancabile Oscar Panizza con la sua 'Immacolata
concezione dei Papi' (ricordiamo che nel 1994 due degli organizzatori
dei meeting furono condannati a un anno per vilipendio al Papa
sulla base di una inoffensiva vignetta di Vauro).
Sempre durante le tre giornate i visitatori hanno anche potuto
visionare le clip video dei servizi giornalistici della Rai.
Tutto il materiale video dei meeting è visibile sul canale
Youtube dell'Archivio Biblioteca Enrico Travaglini, assieme
al quale Alternativa libertaria-FdCA ha curato la mostra.
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Marina Padovese, Fabio Santin e Francesca Palazzi Arduini (“Dada”) a un meeting anticlericale di oltre 16 anni fa |
Un ringraziamento va quindi a Luigi Balsamini curatore dell'Archivio
e soprattutto a Francesca Palazzi Arduini per aver costruito
questo appuntamento, che ha generato anche un divertente qui
pro quo: credendo che si trattasse di una nuova edizione
del meeting anticlericale, pare che alcuni “benpensanti”
fanesi abbiano allertato la popolazione e le forze dell'ordine
contro eventuali “disordini”, provvedendo alla diffamazione
ancor prima di aver ben capito di cosa si trattasse. Il lupo
perde il pelo...
Alternativa libertaria - Federazione dei
Comunisti Anarchici
Fano
Gran Bretagna/
Un convegno internazionale sull'anarchismo
Cosa fanno 91 anarchici a Loughborough, cittadina di sessantamila
abitanti nel cuore dell'Inghilterra? Niente paura, nessuna rivoluzione
rischia di turbare il sonno dei sudditi di sua maestà
la regina: i 91 anarchici in questione sono accademici!
E così mi sono trovato dal 3 al 5 settembre con altri
90 tra professori, ricercatori e dottorandi nel verdissimo e
sportivissimo campus dell'università di Loughborough
(ah, nel caso ve lo stesse chiedendo, il nome della città
si legge 'Làffbra') per la terza conferenza internazionale
dell'Anarchist Studies Network (ASN). L'ASN è un gruppo
con sede nel Regno Unito specializzato nel coordinamento e nella
promozione dello studio dell'anarchismo come ideologia e pratica
politica (http://anarchist-studies-network.org.uk).
Appena saputo della conferenza, era ancora febbraio, mi sono
precipitato a prenotare un posto per questo evento che ha luogo
ogni due anni. Ben prima che il programma ufficiale fosse divulgato.
Ok, lo ammetto, forse l'entusiasmo è stato eccessivo,
ma la causa risiede probabilmente nella situazione tragicomica
in cui vivo da quando ho iniziato il mio dottorato in storia
presso l'Università di Londra. L'argomento che ho scelto
riguarda le comunità anarchiche (comuni, centri sociali
e squat) post-1945 in Italia e Inghilterra, e le due reazioni
più comuni quando un collega mi chiede l'oggetto della
mia ricerca sono: 1) “Anarchici?! Ma non sarà pericoloso?”
e 2) “Comunità anarchiche? Ma gli anarchici mica
vivono in gruppo!”. Ecco, per questo motivo non stavo
nella pelle all'idea di incontrare e discutere con altre persone
che l'anarchismo lo studiano.
Il programma è stato modificato diverse volte, ma la
versione finale prometteva bene: sette pagine con i nomi dei
delegati ed il titolo dei loro interventi. Già da nomi
e università di provenienza era chiaro che l'internazionalità
sarebbe stata garantita: c'erano delegati provenienti da Canada,
Stati Uniti, Messico, Norvegia, Danimarca, Germania, Irlanda,
Francia, Italia (ma nessuno da università italiane),
Spagna, Grecia, Romania, Portogallo, Turchia, Russia e persino
Australia, oltre ovviamente al Regno Unito. Certo, l'assenza
di ricercatori sudamericani, asiatici e africani è lampante.
Ma questo potrebbe significare che lì l'anarchismo non
è molto studiato. Oppure che le università di
quelle aree non sono disposte a rimborsare i costi di un viaggio
intercontinentale.
Ciò che però mi ha colpito una volta lì
è stato notare la vasta maggioranza dei presenti era
di sesso maschile. E non sono stato l'unico, visto che una compagna
nella sessione conclusiva ha chiesto una maggiore attenzione
da parte degli organizzatori per assicurare una più alta
partecipazione femminile. Siccome mi rifiuto di pensare ad un
caso di discriminazione sessista durante il processo selettivo
da parte degli organizzatori, mi chiedo se sia davvero giusto
garantire dei posti su base sessuale (o di genere, o di etnia,
eccetera) piuttosto che di merito. Non sarebbe piuttosto il
caso di chiedersi perché arrivino meno richieste di partecipazione
da parte delle donne?
Una piacevole sorpresa, invece, è stata l'età
dei partecipanti. Già temevo la solita passerella di
polverosi professoroni con la testa piena di citazioni di Bakunin
e Kropotkin. Invece c'era una grossa componente di studiosi
venti-trentenni, il che – a mio parere – testimonia
un ritrovato interesse nello studio della teoria e della pratica
dell'anarchismo, specialmente nei settori filosofico e delle
scienze sociali. Purtroppo però la bassa età anagrafica
media non mi ha risparmiato da quella brutta malattia del mondo
accademico che è il “citazionismo compulsivo”.
Gli interventi erano raggruppati in quattordici macro-categorie:
Anarchismo e storia delle idee; Anarchismo e religione; Anarchismo
e Critical Management Studies; Herbert Read, arte e anarchismo;
Geografie anarchiche; Teoria anarchica dello stato; Anarchia
del corpo; Teoria politica; Anarchia nel Mediterraneo orientale;
Anarchismi postbellici francesi; Culture della resistenza e
DIY; Gustav Landauer; Anarchismo e Liberazione animale non-umana;
Organizzazione anarchica di Montreal. Ogni macro-categoria aveva
una o più sessioni e ogni sessione durava due ore e mezza
con in genere due o tre interventi più tempo per domande
e risposte con il “pubblico”. Ahimè, ogni
sessione si svolgeva in contemporanea con almeno altre due,
cosa che ci obbligava tutti a compiere delle scelte difficili.
Ad esempio, per la terza sessione ho seguito la parte sulle
geografie anarchiche, soprattutto per la presenza di un intervento
sugli eco-villaggi canadesi che poteva fornire consigli utili
alla parte metodologica della mia ricerca, preferendola alla
sessione sulla Teoria anarchica dello stato con i pur interessanti
interventi “Ascesa e caduta dello stato secondo Kropotkin”,
“Associazione egoistica al posto della coercizione statale”
e “Stato e violenza”.
Day one
Il primo giorno abbiamo iniziato nel pomeriggio, dopo la registrazione
e il pranzo vegano preparato dalla cooperativa Veggies, che
tra l'altro quest'anno festeggia i suoi 30 anni di attività.
Per prima cosa ho seguito l'intervento di Costas Galanopoulos
“Un mondo di federazioni: l'incompatibilità di
anarchismo e individualismo”, in cui Costas analizza il
punto di vista anarchico sulla natura umana secondo cui ogni
individuo sarebbe in realtà il risultato di una costante
mediazione tra diversi elementi, tanto da essere di per sé
“un mondo di federazioni” (Kropotkin), e che non
ci sarebbe alcuna tensione tra individuo e società essendo
anzi l'Uomo un animale sociale.
Il secondo intervento era invece “Anarchismo, ordine sociale
e paura di una 'città proletaria': Lisbona nei
primi decenni del ventesimo secolo” di Diogo Duarte. Questo
contributo fa luce sulla poco conosciuta diffusione dell'anarchismo
tra le classi lavoratrici delle grandi città portoghesi,
specialmente Lisbona e Oporto, che in quel periodo di industrializzazione
vedevano la loro popolazione aumentare senza controllo. Sotto
questa nuova luce i piani di nuova edilizia popolare avrebbero
avuto dunque un secondo fine, oltre a quello di aumentare sicurezza
e igiene, ovvero un maggiore controllo politico. Ciononostante,
i quartieri popolari riuscirono ad organizzarsi secondo i modelli
anarchici resi famosi dal più conosciuto caso di Barcellona.
Dopo la pausa ho deciso di seguire la sessione su Anarchismo
e Critical Management Studies, disciplina che adotta un punto
di vista critico nei confronti delle teorie sulla gestione e
organizzazione del lavoro. Questa volta gli interventi erano
tre. Christopher Paskewich ha presentato il suo “Essere
robot migliori: cosa possiamo imparare dalla rappresentazione
dei Millennial nei management studies”. Christopher
ha quindi parlato di come negli Stati Uniti i manager di oggi
vengano formati in modo da gestire nel miglior modo la Millennial
generation (grosso modo i nati tra anni Ottanta e Duemila)
che portano nel mondo del lavoro la sfrontatezza, l'aver coscienza
dei propri diritti e la pericolosa idea del 'lavorare
per vivere' in opposizione alla logica del 'vivere per
lavorare' dei loro padri. Per questo i manager sono spediti
a frequentare corsi di formazione per imparare tecniche (come
valorizzare i dipendenti con elogi e tenerli costantemente impegnati
con una varietà di attività) che li aiutino ad
aggirare i possibili scontri sul posto di lavoro.
“Creatività ontologica sul posto di lavoro. Dove
appartiene l'Io nell'economia globale?” è stato
invece l'intervento di PJ Holtum. PJ ha investigato come le
tecnologie globali e le strategie di management stiano modificando
l'idea che i lavoratori hanno di se stessi e quanto la crescente
esposizione dei lavoratori all'economia politica globale stia
influenzando le relazioni interpersonali e sociali.
Maria Daskalaki e George Kokkinidis, infine, hanno parlato di
“Reti di solidarietà e infrastrutture di autonomia”
portando alcuni esempi greci come Diktuosi, una rete di collettivi
ateniesi di lavoratori creatasi dal basso e caratterizzata dall'assenza
di leader, che ha l'obiettivo dichiarato di creare un mercato
autosufficiente all'interno della (ma indipendente dalla) economia
di mercato. Questo e altri esperimenti, secondo Maria e George,
uniscono la critica anticapitalista alla messa in pratica di
pratiche organizzative innovative che incarnano nuove relazioni
sociali, politiche ed economiche.
La giornata si è conclusa con la proiezione del film
“To Hell with culture” di Huw Wahl sulla vita e
il lavoro di Herbert Read, noto poeta, critico d'arte e anarchico,
seguita dal dibattito col regista e il figlio di Read, Benedict.
Il film prende il nome dal titolo del suo saggio del 1943 in
cui Read auspicava l'avvento di una società basata sulla
cooperazione e in cui l'arte non fosse più considerata
un bene accessorio ma una parte integrante della vita quotidiana.
Nel film il regista ha usato vecchi filmati di Read e nuove
interviste a storici e artisti per scoprire se e come sia possibile
realizzare tale società. Ma avendo già visto la
première qualche mese prima a Londra, con tanto di dibattito,
ne ho approfittato per un giro di esplorazione per le strade
della ridente Loughborough che – come ogni città
inglese che si rispetti – diventa una città fantasma
dopo le sei di pomeriggio.
Day two
Giovedì quattro settembre ho iniziato con la prima parte
di Geografie anarchiche e gli interventi di Federico Ferretti
dell'università di Ginevra, Richard J White (Sheffield
Hallam, Regno Unito) e Gabrielle Lemarier-Saulnier (Québec,
Canada). Federico ha presentato il suo “Anarchia e geografia:
stessa origine? L'esperienza di Elisée Reclus e la rete
dei geografi anarchici in Svizzera (1872-1889)” che indaga
le radici dello storico rapporto esistente tra anarchismo e
geografia. In particolare, la presentazione si è concentrata
sulla figura del geografo e anarchico francese Reclus che, rifugiatosi
in Svizzera dopo la sua partecipazione alla Comune di Parigi
del 1871, redige il suo enciclopedico 'Nuova geografia
universale' (19 volumi e circa 18mila pagine) e contribuisce
a fondare la Fédération Jurassienne con
i colleghi e compagni Kropotkin, Menikoc, Perron, Lefrançais,
Dragomanov e altri.
Richard ha invece preso in considerazione i “Modi per
sfruttare al meglio l'auto-aiuto nella comunità”.
Partendo dall'affermazione di Chomsky sulla necessità
di costruire le alternative all'interno dell'economia esistente,
Richard ha poi presentato i risultati delle sue ricerche che
dimostrano come già adesso una parte dei bisogni quotidiani
venga soddisfatta ricorrendo a reti informali (ad esempio, favori
tra amici o parenti o vicini). Solo una piccola percentuale
di questi, però, avviene senza poi “sdebitarsi”
ricorrendo in maniera più o meno diretta all'economia
di mercato. Inoltre dalle interviste è emerso che spesso
si preferisce ricorrere direttamente al mercato per evitare
di sentirsi un peso o un caso da beneficenza. Come superare
questi ostacoli? Un esempio è rappresentato dalle banche
del tempo che confermerebbero il pensiero di Ward secondo cui
“le alternative [per costruire una società libera]
sono già presenti negli interstizi delle strutture del
potere dominante”.
Il terzo contributo è stato fornito da Gabrielle con
il suo “Quando lo sviluppo del territorio è guidato
da principi anarchici: il caso degli ecovillaggi nelle aree
rurali (Gaspésie, Québec)”. Le zone rurali
del Québec prese in considerazione sono caratterizzate
da un'elevata età media, un basso livello di istruzione
e scarse risorse economiche. Qui si sono moltiplicati gli ecovillaggi
con uno stile di vita anarchico che, secondo Gabrielle, hanno
arricchito e valorizzato il territorio circostante stabilendo
rapporti orizzontali basati sulla solidarietà. Così
gli ecovillaggi hanno portato in quelle aree un'organizzazione
sociale alternativa attraverso la creazione di nuovi spazi pubblici,
la promozione dell'auto-organizzazione e di un'idea diversa
di proprietà.
Dopo una breve pausa ho scelto di seguire una nuova sessione
di “Anarchismo e Critical Management Studies”, questa
volta ha iniziato Leandros Savvides che ha parlato dell'esperienza
della cooperativa agricola cipriota Onisia nel suo “Capitalismo
sociale? Una critica all'autogestione nel sistema capitalistico
mondiale”. Tale cooperativa, fondata da ex combattenti
antifascisti e antifranchisti nel 1948, non ha mai ottenuto
l'appoggio della popolazione pur avendo partecipato all'innovazione
tecnologica del settore agricolo cipriota con l'introduzione,
ad esempio, del primo trattore nel paese. Infatti fino al 1974,
quando la zona in cui sorgeva la coop venne occupata militarmente
dalla Turchia causando la fine dell'esperimento, gli abitanti
del posto diffidavano della 'piccola Mosca' che aveva
semplicemente sostituito la proprietà privata con quella
collettiva. Leandros ha quindi rilanciato un dibattito attualmente
molto sentito in Grecia, dove ci si chiede se lasciare imprese
capitalistiche nelle mani dei lavoratori non li trasformi in
imprenditori con il conseguente indebolimento di una possibile
alternativa.
In seguito è intervenuta Grietje Baars con “Fare
solidarietà tra stile di vita e liberazione: il caso
degli israeliani Anarchici Contro il Muro” che tratta
il problema che può nascere quando un particolare stile
di vita, ad esempio il veganismo, rischia di ostacolare le lotte
di liberazione. Il caso scelto da Grietje è quello del
collettivo anarco-vegano Anarchici Contro il Muro, contrario
all'occupazione israeliana della Palestina, i cui attivisti
si son trovati più volte a disagio quando entravano in
contatto con le comunità palestinesi in cui il mangiare
carne è strettamente legato all'idea tradizionale di
mascolinità. Di qui il problema: cosa fare quando si
è ospiti in un villaggio palestinese e il cibo offerto
non è vegano? Spiegare il proprio veganismo ai palestinesi
rischiando di essere percepiti come l'ennesimo imperialista
occidentale con la vocazione del civilizzatore o tradire i principi
della liberazione antispecista preferendo l'animale umano a
quelli non-umani?
Per restare in tema, si è pranzato con cibo vegano, e
nessun uomo presente ha accusato gli organizzatori di lesa mascolinità.
Dopo sono andato da Gerónimo Barrera de la Torre e Anthony
Ince che coordinavano “Scienze sociali post-statiste:
laboratorio di teoria e pratica”. Qui si è discusso
sulle sfide che gli accademici del settore delle scienze sociali
si trovano ad affrontare e sulle possibili soluzioni. In particolare
ci si è concentrati sul ruolo di lingua, teoria e metodologia.
Per quanto riguarda la lingua, si è notato come spesso
si usino termini credendoli neutri quando invece perpetuano
categorie del pensiero dominante. Poi il dibattito su teoria
e metodologia ha portato ad una riflessione sulla distanza che
esiste tra accademia e “mondo reale” con il rischio
concreto che lo studioso di anarchismo si rinchiuda nella sua
torre d'avorio e resti isolato dalle esigenze del movimento
anarchico. Per superare questo possibile problema si è
pensato a blog o siti internet in cui i ricercatori possano
pubblicare i loro studi o anche seminari pubblici gratuiti in
modo da raggiungere un pubblico più vasto dei soli addetti
ai lavori.
La giornata si è poi conclusa con la sessione di Teoria
politica. Qui John Clark ha parlato brevemente del suo libro
“The impossible community” che analizza alcuni esempi
di comunità in cui coesistono liberazione e solidarietà,
e il cui pieno sviluppo garantirà la nascita di un mondo
nuovo senza capitalismo, stato, patriarcato e altre forme di
dominazione. Queste comunità vanno oltre la prefigurazione
della società futura: la “figurano” vivendola.
Tuttavia è essenziale che queste esperienze di organizzazione
sociale si coordinino secondo il modello della libera federazione
affinché la comunità impossibile diventi possibile.
L'ultimo intervento della giornata è stato di Roy Krøvel
a proposito dei “Punti di vista anarchici sui movimenti
indigeni”, in cui esamina la tendenza dei movimenti di
solidarietà nell'Europa del Nord ad interpretare le lotte
di classe, le gerarchie sociali e la resistenza latinoamericana
usando chiavi di lettura estranee a quel mondo. Sin dai tempi
di Emiliano Zapata e Pancho Villa, passando per Ernesto Che
Guevara e il subcomandante Marcos, i rivoluzionari centro- e
sud-americani hanno attratto l'interesse e influenzato l'immaginario
dei nordeuropei. Dalla metà degli anni Ottanta, invece,
la fonte di ispirazione sono diventati i movimenti indigeni
che si ribellano alla segregazione e all'oppressione, ma Roy
– pur ammettendo che gli europei possono imparare molto
da certi esperimenti sociali come quello zapatista – ricorda
che il pericolo di romanzare e idealizzare è reale ed
è in agguato.
Stavolta niente film per concludere la giornata, bensì
una serata in un tradizionalissimo pub inglese con microfono
e chitarra a disposizione di tutti. E così, mentre alcuni
si spogliavano delle loro vesti da accademici per diventare
i nuovi Johnny Rotten o Pietro Gori, altri si perdevano in chiacchiere.
E altri ancora nell'alcol.
Day three
Ultimo giorno a Loughborough. La prima sessione l'ho dedicata
ad approfondire la mia conoscenza dell'anarchismo antispecista.
Will Boisseau ha aperto le danze con “L'anarchismo e l'animale
non-umano” che torna sull'argomento dell'eventuale collaborazione
tra movimenti antispecisti e altri movimenti per la giustizia
sociale. Will teme però in questo caso che militanti
di questi ultimi possano risentirsi per quello che potrebbero
percepire come atteggiamento di superiorità da parte
di vegetariani o vegani, oppure che possano prendere le distanze
dalle frange più oltranziste e violente del movimento
di liberazione animale. Per concludere Will si è concentrato
sul caso dei lavoratori sfruttati in quei settori dell'industria
che maltrattano o uccidono animali. Dal punto di vista del “liberazionismo
animale” anarchico sono da considerarsi lavoratori che
hanno bisogno di solidarietà o carnefici alla pari dei
nazisti che lavoravano nelle camere a gas?
Dopo questo inquietante quesito, James Donaghey ci ha portato
in un viaggio nel mondo dei “Diritti animali e punk”,
durante il quale ha illustrato lo stretto rapporto che esiste
tra anarchismo, punk e diritti animali e ci ha fatto ascoltare
alcune canzoni emblematiche come “This is the ALF”
dei Conflict o “Nailing Descartes to the wall” dei
Propagandhi. Ma sono numerose le canzoni punk che trattano il
tema dei diritti degli animali, così come quello dell'anarchia,
e la loro importanza è stata confermata da diverse interviste
che rivelano come nella scena punk le canzoni abbiano spesso
maggior peso sulla scelta di diventare anarchici e/o vegani
rispetto ai classici della letteratura anarchica.
Dopo il break c'è stata l'ultima sessione della
conferenza e io ho scelto quella su Gustav Landauer. Ancora
una volta John Clark è stato il primo a parlare, questa
volta approfondendo il rapporto tra “Landauer, Reclus
e l'anarchismo comunitario”. John ha prima introdotto
la figura di Reclus ancora poco studiato a causa della grossa
mole dei suoi lavori: geografo, comunista-anarchico, ecologista,
attivista per i diritti degli animali, urbanista, contrario
ad ogni foma di dominazione e teorizzatore del mutuo appoggio
prima di Kropotkin. Reclus difatti elabora un'idea di società
basata sui principi del mutuo appoggio e della solidarietà.
Ma mentre lui sottostima il potere trasformativo di cooperative
e comunità intenzionali, Landauer (anch'esso poco conosciuto,
ma perché poco tradotto in inglese) corregge questo punto
debole dimostrando l'importanza della pratica di solidarietà
comunitaria nel processo di trasformazione e liberazione sociale.
Entrambi invece concordano sull'idea di federazione definendo
la società libera una “comunità di comunità”
fondata su nuovi rapporti orizzontali che si sostituiranno gradualmente
alle relazioni di dominazione esistenti. E la società
trionferà sullo stato.
Per concludere la conferenza Dominique Miething ha esposto la
sua “Lettura di Friedrich Nietzsche da parte di Gustav
Landauer” che punta a dimostrare come la rilettura di
Nietzsche in campo anarchico risalga a ben prima del post-anarchismo.
Secondo Dominique, che ha avuto accesso ai numerosi articoli
di Landauer su Der Sozialist, Landauer usa le idee del
filosofo come strumento per criticare il potente apparato burocratico
del partito socialdemocratico tedesco e per sovvertire i loro
dogmi ideologici. Ma Landauer scrive anche un romanzo nietzschiano
e fonde diverse sue idee con l'anarchismo, pur mantenendo le
distanze da aspetti problematici come anti-umanismo e elitismo.
ASN International Conference 2016
Dopo l'ultimo pranzo vegano ci siamo riuniti all'aperto (approfittando
dell'inspiegabile assenza di pioggia) per il feedback
finale sulla conferenza. Così, seduti nel classico cerchio
che tutti livella, ci si è giustamente congratulati con
gli organizzatori e ci sono stati alcuni suggerimenti per il
futuro, come una maggiore presenza sui social network tipo Twitter
o Facebook. Qualcuno invece, dato l'altissimo numero di partecipanti
non-anglofoni, si è spinto fino a chiedere delle sessioni
da tenere in una lingua straniera. Si è dunque riflettuto
su quale lingua scegliere (sorprendentemente è stata
bocciata l'ipotesi esperanto) e soprattutto sull'utilità
di attuare questa proposta, visto che il numero massimo di parlanti
di una stessa lingua oltre l'inglese non superava le sei persone.
Tra le richieste più pragmatiche c'è stato invece
l'utilizzo di un font più grande e leggibile per i nomi
sulle targhette, nonostante la critica di qualcuno all'idea
stessa di usare targhette con nome e affiliazione che a quanto
pare fa poco anarchico.
Tutto sommato è stata un'esperienza molto positiva, sia
per la qualità della ricerca e dei dibattiti (certo,
un maggior uso di Power Point o altre tecnologie da parte dei
relatori aiuterebbe a restare svegli durante alcune presentazioni)
sia per la ricchezza degli scambi durante le pause o le bevute
di birra serali. Così è terminata la terza conferenza
dell'Anarchist Studies Network e ci si è dati appuntamento
alla quarta, nel 2016. In poche ore Loughborough ha visto ripartire
i 91 accademici anarchici accorsi da (quasi) tutto il mondo
non per fare la rivoluzione, ma semplicemente il punto della
situazione sull'anarchismo. D'altra parte, come ha detto provocatoriamente
una compagna olandese mentre ci si lamentava per il caldo in
un'aula con le finestre bloccate: “E ora vediamo di quanti
accademici anarchici c'è bisogno per rompere una finestra”.
Le finestre sono rimaste chiuse, e integre. Però abbiamo
aperto la porta.
Luca Lapolla
Sardegna/
Contro le servitù militari
Acque trasparenti in tutte le sfumature d'azzurro e di verde,
spiagge bianche, baie e fondali mozzafiato. Nei porti e negli
aeroporti i tabelloni pubblicitari ammiccano ai turisti che
arrivano a frotte: “In Sardegna lo spettacolo è
a sud ovest: benvenuti nel Sulcis-Iglesiente”; “Autunno
in Barbagia: 28 paesi nel cuore della Sardegna raccontano la
loro storia”; “In Sardegna il benessere inizia a
tavola”. Resort di lusso presi d'assalto dai soliti noti
e dai nuovi ricchi e case vista mare frutto di una cementificazione
scellerata affittate spesso in nero. Ci si confonde senza imbarazzo:
i vip sui loro yacht ancorati a cento metri da riva e le famigliole
a consumare il loro pranzo al sacco sotto gli ombrelloni. C'è
posto per tutti nell'isola che i greci e i fenici chiamavano
Ichnusa, descrivendola di ritorno dalle loro traversate come
un grande piede verde in mezzo al mare. Il rovescio della medaglia,
parecchio inquietante, neanche si vede. Si chiamano servitù
militari, territori sottratti al bene comune e destinati all'esercito:
poligoni dove sperimentare nuovi armamenti, territori per esercitazioni
di cielo, di terra e di mare. In tutto circa 35 mila ettari
che danno alla Sardegna il triste primato di ospitare sul suo
suolo all'incirca il 70 per cento di tutte le servitù
militari italiane. I dati sono pubblici, reperibili anche sul
sito della Regione Sardegna, un elenco dettagliato di tutti
i beni del demanio militare con tanto di carte e foto. Nell'estate
sarda, fra feste popolari e party esclusivi, tra sagre
di paese e happy hour, può capitare che i due
mondi s'incontrino. Sulla spiaggia di Cala Zafferano ad esempio,
dalle parti di Capo Teulada, dove i vacanzieri hanno trovato
tra le dune un buon numero di ordigni abbandonati dopo le esercitazioni.
La zona per la verità sarebbe interdetta, ma i turisti
aggirano i divieti approdando con i loro gommoni: vuoi mettere
il brivido di un selfie con una bomba magari inesplosa?
Sempre quest'estate, precisamente il 4 settembre, nel poligono
di Capo Frasca – 14 km quadrati sulla costa occidentale,
territorio comunale di Arbus, Medio Campidano – le esercitazioni
hanno provocato un incendio che ha distrutto in un momento 32
ettari di macchia mediterranea. Il sindaco di Arbus ha parlato
di danni incalcolabili; la Regione Sardegna, per bocca del suo
presidente Francesco Pigliaru, ha protestato invocando un confronto
con il governo; l'esercito ha minimizzato parlando di evento
eccezionale; il ministero della Difesa ha promesso un'inchiesta
e nuovi paletti.
Capo Frasca è un poligono interforze Nato utilizzato
per esercitazioni terra-mare-aria, strettamente collegato con
l'aeroporto Nato di Decimomannu, a tutt'oggi la base aerea militare
più attiva in Europa. È il terzo poligono in ordine
di grandezza presente sull'isola, dopo quelli di Quirra-Perdasdefogu
(12.700 ettari) e di Teulada (7.200 ettari), che sono i più
grandi d'Italia. Per comprendere la reale dimensione della questione
servitù militari in Sardegna, consiglio l'illuminante
lettura di un numero di Birdi ke porru (letteralmente
Verde come il porro), rivista antiautoritaria scaricabile dalla
rete (è sufficiente digitare il nome in un qualsiasi
motore di ricerca). Una ventina di pagine che documentano con
rigore le dosi superiori ai limiti di legge di sostanze altamente
inquinanti come l'antimonio, l'arsenico, il cadmio, il torio
e il cerio nei territori limitrofi ai poligoni; che ricostruiscono
il dramma di Quirra, con i soldati e i pastori morti per tumore
causato dall'uranio impoverito; l'alta percentuale di bambini
nati con malformazioni; gli agnellini con due teste; gli strascichi
giudiziari, le connivenze, le coperture, i tentativi d'insabbiamento
messi in atto per negare l'evidenza. Se poi qualcuno non ritiene
sufficiente la parola scritta, suggerisco la visione di un video
su Youtube (http://www.youtube.com/watch?v=1jkMGYw92-I). Dura
tre minuti, è la prova di lancio del razzo Zefiro effettuata
a Quirra nel 2006. Si tratta di un razzo alto 7 metri e mezzo,
due metri di diametro, realizzato dall'Agenzia Spaziale Europea:
serve a portare in cielo i satelliti.
Di tutto ciò ogni tanto qualcuno si indigna. Sabato 13
settembre davanti al poligono di Capo Frasca c'è stata
una manifestazione indetta inizialmente da vari gruppi indipendentisti
che ha visto la partecipazione di svariate migliaia di persone
(cinquemila secondo la questura, più del doppio secondo
alcuni manifestanti) pronte a dire no, da subito, a tutte le
servitù. C'è stata la solita passerella di politici
di vario colore, ha cavalcato la protesta persino l'Unione Sarda,
il potentissimo quotidiano dell'isola, che ha venduto a un euro
in più insieme al giornale, una bandiera blu con la scritta
bianca no servitù. Un gruppo ha sfondato la recinzione,
è entrato all'interno della base ed è rimasto
lì per alcune ore. Sono lontani i tempi delle marce della
pace con la partecipazione di Julian Beck del Living Theatre
e sono lontani anche i tempi della rivolta di Pratobello, sopra
Orgosolo, nel 1969, quando gli abitanti affrontarono a brutto
muso i militari intenzionati a trasformare in poligono i loro
pascoli, finendo poi per vincere senza un atto di violenza la
battaglia e fraternizzando con i soldati. Oggi i militari sventolano
la minaccia dell'occupazione: che ne sarà delle ricadute
sull'indotto se si smantelleranno i poligoni? E poi non si può,
sono ritenuti strategici: occorre pure un luogo dove addestrare
i nostri ragazzi che vanno in giro per il mondo ad esportare
democrazia. E sperimentare armi, perché c'è una
cosa che non bisognerebbe mai smettere di dire: l'Italia è
da tempo tra i primi produttori al mondo di ogni genere d'armamenti.
È una nostra eccellenza, siamo bravissimi. Lo sappiano
i disoccupati d'oggi: il settore assume.
Massimo Lunardelli
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