Spagna
1936-1964/Gli anarchici dimenticati (non solo dai comunisti)
Cari compagni,
ho apprezzato la ricognizione
di Massimo Ortalli intorno alla bibliografia sugli anarchici
italiani pubblicata in “A” 391.
Stimolato e incuriosito dalla nota in merito al misconoscimento
del ruolo degli anarchici negli avvenimenti del Novecento ho
voluto riprendere in mano proprio la monografia “Spagna
quando?” de “Il Ponte” comparsa nel Dicembre
1964 e presumibilmente presentata nel Marzo successivo a Roma
nell'omonima citata iniziativa pubblica.
Nel volume, edizione italiana del testo “España
hoy” prodotto dal gruppo di “Ruedo iberico”,
compaiono anche diversi contributi portati a commento e complemento
dell'originale spagnolo da alcuni intellettuali italiani tra
i quali Aldo Garosci, già miliziano giellista nella Colonna
italiana sul fronte aragonese. Gli anarchici, scorrendo le pagine,
compaiono poco e, direi, male. Forza di massa organizzata preponderante
e determinante nella guerra civile tra il 1936 e il '39, sembrano
qui quasi sparire, ostracizzati dalle componenti democratiche
come una ormai trascurabile deriva settaria ostinata nella sua
volontà rivoluzionaria, isolati nel loro tentativo di
azione insurrezionale.
È Maria Adele Teodori, giornalista radicale allora fresca
autrice di “Spagna in ginocchio” per le Edizioni
di Comunità, nel trattare de “L'opposizione”,
articolo in cui si occupa ampiamente dei movimenti cattolici
democratici spagnoli, che più sembra accorgersi dell'esistenza
degli antiautoritari sul fronte antifranchista, ma pure a maggiormente
calcare la mano: “Gli anarchici, i libertari, cresciuti
alla scuola della violenza, camminano per loro conto, sono quasi
tutti fuorusciti e i nuclei non hanno la consistenza di trenta
anni fa”. La ritroveremo tuttavia nei primi anni Settanta
tra i firmatari della nota “Lettera aperta a L'Espresso
sul caso Pinelli”.
È del resto lo stesso Garosci, cui pure nella conferenza
romana Rossi riconosce il parziale merito di avere almeno accennato
agli anarchici, a citarli nel suo apporto “Spagna, libertà,
rivoluzione” una sola volta, en passant, accidentalmente,
a proposito della borghesia che ”a Barcellona iscrivendosi
in massa al Psuc e all'Ugt fece scacco alla poderosa maggioranza
libertaria operaia della Cnt”. Tutto qui, e solo a proposito
dunque del glorioso periodo della guerra civile.
Ma è vero che di lì a poco, nel 1969, Garosci
dovrà intervenire nuovamente e diffusamente con la sua
relazione sui “Problemi dell'anarchismo spagnolo”
al Convegno internazionale di studi “Anarchici e anarchia
nel mondo contemporaneo” promosso dalla Fondazione Luigi
Einaudi. Ancora una volta, come nel già citato caso della
Teodori, saranno allora la contestazione studentesca, il conflitto
operaio e poi le bombe della strage di Stato a svegliare le
coscienze e l'interesse degli intellettuali liberali e progressisti.
Questi dunque i minimi presupposti scritti del confronto alla
Casa della cultura di Roma di tanti anni fa in cui dovette essere
presentato quel numero speciale della rivista fondata da Piero
Calamandrei. Bene fecero allora Aldo Rossi, redattore di “Umanità
Nova”, e gli altri compagni della Federazione anarchica
laziale a lamentare anche in quell'occasione la “strana
dimenticanza dei relatori del contributo dato dagli anarchici”
nella opposizione antifranchista attiva in Spagna dal secondo
dopoguerra. “Veniva messo in rilievo il contributo dei
comunisti, socialisti, repubblicani ed anche della tardiva -ma
valida, secondo gli oratori- partecipazione delle forze cattoliche,
mentre l'anarchismo sembrava non avere alcuna importanza circa
la realtà spagnola”, protestava Rossi. Ma è
indubbio che alla metà degli anni Sessanta il progressismo
riformista de “Il Ponte” fosse sensibile e attento
agli esperimenti di Governo del Centrosinistra imperniato proprio
sulla nuova alleanza tra cattolici e socialisti, modello al
quale in Spagna al tempo le forze democratiche, comunisti compresi,
guardavano per il dopo Franco che sentivano ormai prossimo.
Non ha torto dunque Ortalli quando afferma che la riduzione
e rimozione del ruolo degli anarchici nelle vicende novecentesche
fu opera non solo dei marxisti e della loro scuola storiografica,
allora e per lungo tempo egemone, ma pure agita e comunque consentita
da parte democratica e liberale, almeno fino alla strage di
Piazza Fontana.
Tornando alla conferenza romana del '65 sarebbe però
per noi prezioso riflettere soprattutto sulla presenza critica
che quei compagni di allora, esigua minoranza, in una fase non
certo alta del loro movimento, seppero esprimere. Essi si presero
il diritto di esserci andando ad ascoltare e legittimandosi
a portare in prima persona il proprio pensiero e la propria
parola, esercitando il contraddittorio e dialogando alla pari
pure in un consesso alto della cultura del tempo. Facendosi
dunque puntuale e adeguato presidio libertario nella società.
Paolo Papini
Roma
Dibattito nazionalismi/L'eterna seduzione della parola
Al di là delle diverse interpretazioni e considerazioni,
una cosa è certa: il fatto che ci ritroviamo nuovamente
qui sulle pagine di “A” per continuare un dibattito
avviato da Steven Forti (Catalogna/L'eterno
fascino del nazionalismo, in “A” 385, dicembre
2013/gennaio 2014, quindi il nostro intervento Nazionalismi/Nazioni
senza stato in “A” 390, giugno 2014, poi
sullo scorso numero la replica
di Steven Forti e l'intervento
di Leo Melziade) che speriamo possa essere arricchito anche
dalle riflessioni e dagli spunti di altri lettori e collaboratori,
è già una cosa per noi preziosa.
Ma, veniamo al dunque: seguendo la modalità del nostro
compagno catalano, riprendiamo alcune delle sue risposte e riflessioni
scritte in risposta al nostro articolo, per chiarire meglio
e ampliare quanto avevamo accennato nella nostra precedente
riflessione.
1. È certo che le parole assumono sfumature e significati
nel tempo e che il loro contenuto sia intrinsecamente legato
alle esperienze storiche; eppure, il nostro tentativo di cercare
insieme un significato risponde a qualcosa di ben più
semplice della la ricerca della “chimera dell'origine”,
che è capirsi sul senso che diamo alle parole affinché
il nostro dialogo possa partire da un lessico quanto più
possibile chiaro e condiviso. A ciò si aggiunge la necessità,
da parte nostra, di ridare a certe parole un loro significato
“originario”, perché spesso ideologie e propaganda
ne hanno stravolto completamente il senso fino ad attribuirgliene
uno totalmente differente quando non opposto. Per non andare
troppo lontano, pensiamo alla parola “anarchia”:
chiedete oggi ai ragazzi nelle scuole, a qualche cittadino medio
o al vostro vicino di casa cosa significa anarchia. Ci saranno
tante risposte ma molte purtroppo accomunate dal fatto che questa
parola è stata completamente svuotata del suo significato
reale e riempita di contenuti che niente hanno a che vedere
con essa. Che facciamo, non cerchiamo di riappropriarci di ciò
che è il senso delle parole, ancorché queste assumano
sfumature diverse nel tempo? No, nessuna chimera, solo necessità
di tornare all'essenza delle cose.
2. La necessità di capirsi sui termini usati è
evidente nella domanda che Forti fa: “perché difendere
la propria terra deve portare alla lotta per la creazione di
un nuovo stato?” nel nostro intervento non compare alcun
riferimento alla creazione di nuovi stati, anzi la nostra è
una posizione che va proprio in direzione contraria. non pensiamo
che la parola “indipendentismo” significhi automaticamente
creazione di un nuovo stato (essa si riferisce piuttosto alla
creazione della possibilità per un popolo di autodeterminarsi).
Il fatto che questo termine, per varie ragioni storico-politiche,
sia stato fatto coincidere con la nascita di uno stato rientra
nella problematica di cui al punto precedente.
3. “Perché dovremmo declinare la lotta contro l'omologazione
culturale e per la difesa e la riappropriazione della terra
in un modo nazionalista e/o indipendentista? esistono molte
esperienze di lotta di questo tipo che non abbracciano nessun
tipo di lotta di liberazione nazionale anche in territori che
vengono considerati nazioni senza stato”: punto strettamente
collegato a quello precedente, anche in questo caso ci pare
ci sia un fraintendimento di fondo. Per noi i processi di autodeterminazione
ed emancipazione sociale non possono che essere strettamente
correlati senza che questo significhi dare vita ad istituzioni
gerarchiche. Quando utilizziamo la formula “nazioni senza
stato” non intendiamo dire che vi sono nazioni (ovvero
popoli che vivono in un territorio, hanno cultura, lingua, tradizioni
ed sistemi economici propri) che devono dare vita ad un proprio
stato ma esattamente il contrario. L'affermazione delle specificità
dei popoli contribuirebbe a mostrare l'artificiosità
dell'istituzione statale e dei sui confini.
Ciò che ci domandiamo è perché spesso,
anche tra i nostri compagni e le nostre compagne, si storce
il naso di fronte a questi temi invece di discutere su come
innestarvi la necessaria carica antiautoritaria.
4. “[...] è sempre più urgente recuperare
di questi tempi l'idea e la pratica internazionalista”:
assolutamente concordi; il motto “agisci localmente, pensa
globalmente”, forse più in voga in altri tempi,
risponde per noi proprio a questa necessità. Non abbiamo
mai negato l'importanza della solidarietà internazionale,
anzi pensiamo che essa sia fondamentale ma ciò che ribadiamo
è la necessità di non fare l'errore contrario,
ossia di non pensare che chi lotta per la liberazione della
propria terra non possa farlo in nome di una liberazione comune
a tutti i popoli. La parola stessa che lo evoca: “inter-nazionale”
cioè “tra-nazioni”, tra popoli che lottano
insieme.
5. “Che si fa? si appoggia la propria borghesia nazionale
o no?”: su questo pensiamo di essere stati chiari: no,
la lotta di un popolo è per noi lotta popolare, proletaria
e antistatalista. Nel passaggio dedicato al concetto di lotta
di liberazione nazionale abbiamo posto l'accento sul fatto che
questa possa manifestare due aspetti che dobbiamo ben tener
presenti: uno è incarnato dalle rivendicazioni delle
comunità contro lo Stato, l'altro dalle istanze della
borghesia compradora che mira solo a un passaggio di consegna
del potere. Nel primo caso è lotta degli sfruttati, ossia
lotta nella quale per noi è importante provare a dare
il nostro contributo di proposte libertarie; la seconda è
parte di un processo reazionario che è necessario combattere.
Ma se staremo sempre fuori da queste lotte, finché non
daremo il nostro apporto a questi dibattiti, come possiamo pretendere
che la borghesia o le forze reazionarie non se ne impossessino?
È proprio questo il punto: non esiste un prontuario su
come si sviluppano le lotte di liberazione; ognuna delle lotte
in atto ha le sue connotazioni. Dobbiamo solo capire in quali
contesti poter agire e quali prospettive vi siano per portare
il nostro contributo. Dobbiamo guardare alle lotte di liberazione
non come un unicum caratterizzato dalle istanze stataliste e
borghesi, perché ciò ci porterà a rimanerne
sempre al margine senza capire che è invece necessario
saper leggere ed interpretare le varie sfaccettature di ogni
lotta in corso.
p.s. sull'ultimo accenno di Forti agli “anarchici che
abbracciarono l'interventismo durante la grande guerra”
per poi finire tra le fila dei fascisti pensiamo non sia questo
il piano della discussione, ma solo una deviazione dal reale
senso del nostro dibattito.
Laura Gargiulo e Igor Ninu
Sardigna
Sulla naturalità dei conflitti
Sono sicura di non sbagliare nel pensare che a libertari e anarchici
sia capitato, almeno una volta, di essere tacciati di sprovvedutezza
o ingenuità durante una discussione o uno scambio di
opinioni. “Siete degli idealisti e vivete su un altro
pianeta”, “non siete abbastanza pragmatici per occuparvi
di politica”. Per quanto mi riguarda sono in molti, all'interno
della mia cerchia di conoscenze, a non avere, purtroppo o per
fortuna, la mia visione del mondo. Dico per fortuna perché
lo scambio di opinioni con chi ha un'idea radicalmente diversa
dalla propria è arricchente, permette di fare esercizio
di pensiero e dialettica, di cercare nuove soluzioni a problemi
che magari non ci si era posti prima; dico anche purtroppo perché
a volte è estenuante, soprattutto se capita di essere
soli in un gruppo di persone poco propense ad ascoltare. In
alcuni casi è anche un poco deludente: “come possono
dei giovani della mia età pensare queste cose?”,
mi chiedo.
Qualche giorno fa mi sono imbattuta in una discussione nata
da una frase di Samuel P. Huntington sulla storia delle relazioni
tra le grandi potenze del mondo, che si trova, secondo il politologo,
ad essere caratterizzata da un incessante conflitto, alcune
volte caldo, quando combattuto apertamente, altre volte freddo.
Ripeto la frase nella mia testa e penso che alla fine è
un verosimile riassunto delle dinamiche del mondo moderno, in
cui gli stati nazionali giocano un ruolo da protagonisti, intriso
di patriottismo, nazionalismo e prevaricazione del forte sul
debole. Si tratta davvero di un susseguirsi di dinamiche di
guerra, combattuta o minacciata. Per le risorse, per il potere.
È la natura dell'uomo, dicono i miei interlocutori. È
la natura del mondo. Le relazioni tra gli stati esemplificano,
in larga scala, le relazioni tra i singoli uomini e all'interno
delle comunità. La storia dell'uomo si riassume nel conflitto;
non esiste, né è mai esistito, un istante di tregua
reale o di cooperazione, un momento in cui le comunità
e gli individui si siano trovati a collaborare senza il secondo
fine del controllo o della prevaricazione.
Mi fermo a pensare qualche secondo, la loro affermazione mi
spaventa; la descrizione delle dinamiche delle grandi potenze,
sempre in guerra fra loro, è calzante. Ma non può
essere la natura degli uomini la causa di tutto. Ci penso ancora
qualche istante, poi mi dico: se è vero che questo è
ciò che accade ed è accaduto nella storia fino
ad ora, non significa assolutamente che non esista un altro
modo di intrattenere relazioni. Un modo che non implichi il
conflitto e la prevaricazione. “Non esiste un'altra
via. E se lo pensi sei, nel migliore delle ipotesi, un'utopista.
Altrimenti una sprovveduta”. Questa è la risposta che
presto ottengo.
Sono in molti ad essere convinti che i conflitti tra gli esseri
umani si possano risolvere solo con la prevaricazione da parte
del più forte, il quale si comporta seguendo una condotta
che ritiene giusta perché giustificata dalla propria
posizione di potenza. Che la forza sia data dalla sua appartenenza
ad una maggioranza, dalla sua influenza economica o da un vantaggio
acquisito, poco importa. Il più forte sarebbe stupido
a non utilizzare la sua posizione favorevole, chiunque al suo
posto lo farebbe. Perché mediare? Perché dialogare?
È così che va il mondo, lo si può leggere
già tra le pagine scritte da Tucidide più di 2400
anni fa.
Il forte si impone e il debole perisce, fino a quando quest'ultimo
non riuscirà a collezionare abbastanza potere da riuscire
a restituire il torto. “Dipende tutto dalla natura
degli uomini, dalla loro caratteristica violenta, che li porta
a non poter fare a meno di competere e ad imporsi. Non puoi
negare che essa esista”. È proprio in questo modo, attraverso
la credenza di una presunta naturalità dei comportamenti
bellicosi e utilitaristici, che si giustificano le guerre, che
ci si limita a parteggiare sempre per l'una o per l'altra fazione
coinvolta in uno scontro e mai a condannare il modus operandi
scelto, basato sulla violenza applicata o minacciata. È
così che si giustifica la presenza degli stati, degli
amministratori, dei funzionari, dei giudici. Per tutelarci,
nella triste convinzione che il più forte tenterà
in tutti i modi di assoggettarci, imporsi e opprimerci; perché
gli esseri umani concorrono tra loro, ognuno con il fine di
ottenere il massimo per sé, senza curarsi troppo del
prossimo. “È così” mi dicono “che
va il mondo.”
Non si può negare che la violenza sia tra le pulsioni
umane, ma utilizzare questa caratteristica per giustificare
le storture del mondo significa asserire che la violenza sia
una “irresistibile forza” dalla quale l'uomo non
ha modo di sottrarsi; eppure gli umani sono “esseri
ragionevoli” e proprio per questo motivo è presente
in loro la facoltà di decidere in che modo affrontare
gli eventi, in quale maniera reagire alle situazioni. Pensare
questo non significa essere buonisti, è biologia.
Mi soffermo sull'idea che sia l'educazione la causa di tutto,
della credenza che non esista rimedio ai mali del mondo; siamo
educati fin da bambini alla competizione e al conflitto. Abbiamo
interiorizzato queste modalità di comportamento, le idee
sono penetrate in noi talmente a fondo che la cooperazione,
il dialogo e la solidarietà tra gli esseri umani non
sono nemmeno più contemplati tra le modalità di
risoluzione delle problematiche. Ma non solo, vengono anche
accusate di non essere applicabili perché contrarie alla
natura umana. Crediamo così di aver bisogno di qualcuno
che amministri i nostri affari, che interceda per noi, che risolva
le nostre questioni e che faccia fronte ai nostri bisogni.
Cerco di spiegare che, a mio avviso, questo tipo di idea sull'ineluttabilità
dei conflitti sia stata creata da chiunque fosse interessato
ad impadronirsi del potere, assoggettando il resto della collettività.
Solo creando una società formata da individui incapaci
di accordarsi e di dialogare è possibile proporsi come
intermediari, e chiedere la delega di qualunque potere e libertà
in cambio di protezione. “Da soli non troverete
mai un accordo, né riuscirete ad organizzarvi”, ci dicono.
Penso ai miei interlocutori, tutti dei giovani intorno ai venticinque
anni; loro non sono certo tra coloro che hanno deliberatamente
tessuto questo piano con il filo della paura, della prevaricazione,
dell'odio, al fine di rendere utopica l'idea di una possibile
convivenza pacifica, basata su relazioni in cui nessuno vince
o si impone, ma sulla condivisione. I ragazzi con cui sto dialogando
non hanno direttamente a che fare con questo piano; loro sono
davvero convinti che non esista un altro modo. “E
poi l'illusa sarei io”, ribatto.
Mi sforzo allora di spiegare che il loro pensiero di stampo
utilitaristico e conflittuale, che credono di adoperare come
semplice conseguenza della natura delle cose, degli uomini e
del mondo, è di fatto la causa prima di tutte le storture,
degli abusi e delle prevaricazioni a cui assistiamo. Il mondo
funziona in molti casi seguendo le logiche di dominio da loro
descritte, ma ciò di cui non sembrano rendersi conto
è che loro stessi ne sono gli artefici. Coinvolti in
una perpetrazione dell'esistente che pensano essere naturale.
“Il vostro atteggiamento non è la conseguenza,
la risposta alle circostanze immutabili, ma la causa stessa
di tutto. Pensate di difendervi dalle brutture del mondo, ma
non vi rendete conto di crearle voi stessi. Forse se riusciste
a liberarvi della convinzione di una presunta naturalità
dell'ordine delle cose, allora potremmo finalmente arrivare
ad intravedere dei cambiamenti”.
I miei interlocutori non sono convinti di quel che sto dicendo.
Sostenere che una soluzione ai complicati mali del mondo possa
cominciare con un cambiamento del pensiero sull'ordine delle
cose non ha nessun senso. “Le tue idee sono buone”, “sono
belle ed apprezzabili, ma inconcludenti e astratte. Magari fosse
tutto così semplice! Magari si potesse cambiare il mondo
partendo dal pensiero!”. Immersi come siamo in una società
iper-complessa e complicata, ci riesce assai difficile immaginare
che le soluzioni, talvolta, possano rivelarsi meno ardue del
previsto e che non debbano per forza comprendere macchinosi
giochi geopolitici, segretissime manovre tra i 'grandi' della
Terra o avvenire tramite un obbligo imposto dai vertici della
società.
Carlotta Pedrazzini
Gambolò (Pv)
Un popolo, una lotta
Il 26 settembre, nell'aula bunker del carcere delle Vallette
di Torino, uno degli imputati nel “processone” per
i fatti in Val Susa del 27 giugno e del 3 luglio 2011, ha letto
questa sua dichiarazione spontanea. Per ulteriori informazioni
ed aggiornamenti sul processo, www.tgmaddalena.it
e www.tgvallesusa.it
Siamo giunti alla fine di questo dibattimento. A voi non resta
che giudicarci secondo le norme del codice penale.
Nonostante abbiano un soggetto, il legislatore, tanto impersonale
quanto irraggiungibile – quasi un dio infallibile dispensatore
di giustizia –, in realtà i codici non sono altro
che una banale creazione umana. Non solo la loro compilazione,
ma anche la loro interpretazione e applicazione non sono altro
che semplici azioni umane.
La giustizia, quella vera, si sottrae alla norma e non potrà
mai essere codificata. Appartiene alla sfera dei valori e solo
il giudizio storico – una volta che le passioni del presente
saranno sopite – decreterà, attraverso il comune
senso civile, se la vostra sentenza sarà stata o meno
giusta.
In quest'aula sono state delineate due visioni diametralmente
opposte dei medesimi eventi.
Una – quella della procura – che vede centinaia
di agenti violentemente aggrediti e feriti nell'adempimento
del proprio dovere. L'altra – quella che noi e le nostre
difese abbiamo esposto – racconta di un movimento popolare
pacifico aggredito brutalmente senza che avesse messo in atto
nemmeno il semplice reato di disobbedienza civile. Sì,
perché noi siamo stati violentemente attaccati mentre
eravamo pacificamente attestati in un luogo in cui non solo
avevamo il diritto di rimanere ma di cui avevamo persino pagato
il suolo pubblico. Un'area che era al di fuori – e lo
rimane tuttora nonostante le recinzioni illegittime che ne inibiscono
l'accesso – dall'area destinata al cantiere.
Non solo quindi il 27 giugno alla Maddalena le forze dell'ordine
effettuarono un'azione illegale, da tutti noi percepita come
tale, ma la fecero con altissimo disprezzo per la salute di
chi si trovava di fronte.
Io non temo di essere retorico affermando che quel giorno lo
Stato italiano intraprese una vera e propria guerra chimica
ad alta intensità contro i propri cittadini.
In questi ultimi anni si è parlato molto di CS, il gas
espulso dai lacrimogeni di cui è vietato l'uso bellico
dalle convenzioni internazionali. Proibito nella guerra fra
stati ma ammesso nella guerra interna contro i propri cittadini
che dissentono. In Italia il primo uso massiccio di questo gas
si ebbe nel 2001 a Genova contro i manifestanti che contestavano
il G8. E tutti sanno della riprovazione a livello internazionale
di cui fu oggetto la polizia italiana per come fu gestito in
quei giorni l'ordine pubblico. Numerose testimonianze già
allora descrissero quanto questo gas fosse micidiale, causando
svenimenti nausea vomito problemi respiratori infiammazioni
oculari irritazioni cutanee. Gli studi medici ci dicono che
una forte e prolungata esposizione potrebbe creare danni permanenti
a occhi polmoni stomaco fegato cuore reni e persino provocare
aborti. E non si conoscono ancora le conseguenze nel lungo periodo,
conseguenze cui patiranno non solo coloro che ne sono stati
colpiti ma anche agli agenti che ne hanno fatto largo uso. Non
a noi, quindi, dovrebbero rivolgersi i loro sindacati. Come
ha insegnato la vicenda delle bombe all'uranio impoverito, gli
apparati statali si disinteressano non solo della salute dei
propri cittadini ma persino di quella dei loro servi.
Ebbene, io ho partecipato alle giornate genovesi e vi posso
dire in tutta tranquillità che – sotto questo profilo,
confrontate alle giornate della Maddalena – furono meno
traumatiche. In Val Susa – nelle giornate del 27 giugno
e del 3 luglio 2011 – la quantità e la concentrazione
di CS fu enormemente più alta. Fu decisamente la più
massiccia da quando questo gas è in dotazione alle forze
di polizia in Italia.
Chi diede l'ordine di accerchiare la libera repubblica della
Maddalena e, come in una tonnara, gasare tutti i presenti, precludendo
ogni via di fuga e gasandoli anche tra i boschi dove avevano
cercato scampo e riparo? I dirigenti sul posto, dai nomi secretati
in questo processo? Il questore? Il prefetto? Il ministro degli
interni? Il presidente del consiglio?
La nostra lotta è un dato di fatto
Contro di noi, in questo procedimento, si sono costituiti come
parti civili reclamando il risarcimento dei danni subiti, ben
tre ministeri. Ebbene, io dichiaro apertamente che non sono
loro le parti lese, anzi dovrebbero rispondere alla comunità
per il grave attentato commesso alla salute di tutti i cittadini
presenti a Chiomonte in quelle due giornate, per averli proditoriamente
sottoposti per ore all'esposizione di gas venefici. Ora, pare
che la legislazione italiana consideri il CS arma non-letale
con effetti reversibili e ne consenta l'uso da parte della forza
pubblica. Ma l'uso di uno strumento di dissuasione coercitivo
dovrebbe essere sempre effettuato con moderazione e con dei
limiti ben precisi. Come una mano può non essere letale
in un semplice schiaffo, la stessa mano può diventare
letale se strozza alla gola. E' della cronaca di questo periodo
come a Ferrara l'uso spropositato di uno strumento ordinario
in dotazione agli agenti di pubblica sicurezza, il manganello,
abbia condotto a morte il giovane Federico Aldovrandi o come
un altro strumento frequentemente usato nelle strutture psichiatriche,
il letto di contenzione, abbia barbaramente assassinato il maestro
salernitano Francesco Mastrogiovanni.
Questo uso incontrollato esagerato e spropositato di CS è
all'origine della nostra reazione. Era quello che serviva per
trasformare con un colpo di bacchetta magica un movimento popolare
pacifico ventennale in un'accolita di violenti.
Perché, solo dopo il 27 giugno e il 3 luglio 2011 –
improvvisamente – il movimento NO TAV diventa un problema
di ordine pubblico, tanto da originare summit governativi, relazioni
di servizi segreti e dichiarazioni deliranti di ministri e uomini
politici? Solo per giustificare il conseguente accanimento giudiziario?
Per arrivare ad accuse di terrorismo per il lancio di petardi
o a condanne di anni di reclusione per la sola detenzione e
trasporto di artifici pirotecnici?
Chi ha decretato questo inasprimento di livello dello scontro?
Il movimento NO TAV o lo Stato italiano?
La risposta è di una banalità sconcertante. Non
potendo controbattere pubblicamente con valide argomentazioni
le ragioni del movimento, lo si è volutamente criminalizzato.
Non potendo convincere si è scelto di agire con la forza,
per schiacciare il dissenso manu militari. Questa è la
moderna democrazia che ci governa, una vera e propria democrazia
totalitaria.
Noi in quelle due giornate fummo presi alla gola, aggrediti
in maniera letale e ci siamo difesi.
Non lo neghiamo e non abbiamo paura di rivendicarlo. Persino
il codice riconosce la legittima difesa. Non credo abbia importanza
– almeno sul principio – se chi offende veste una
divisa e chi si difende no. Perché quel giorno, è
evidente, la legalità non stava dalla parte di chi la
difendeva.
E in cosa è consistita praticamente la nostra difesa
di fronte ad un'aggressione chimica di tale portata? Nel gesto
più semplice e naturale, quello di tirare dei sassi.
Quando andavo alle elementari ricordo che nel libro di testo
vi era l'illustrazione di un ragazzino che scagliava un sasso
contro dei soldati austriaci. E la didascalia ne parlava come
di un eroe, autore di un gesto coraggioso che aveva innescato
la sollevazione di tutta la città di Genova contro l'invasore.
Era il Balilla. Solo più avanti scoprii che la sua figura
era stata successivamente strumentalizzata in senso nazionalista
dal fascismo. E ancora più avanti scoprii che molti altri
sassi erano stati lanciati dalle folle in tumulto, come fece
il popolo di Milano per chiedere il pane nel 1898, richiesta
cui lo Stato sabaudo rispose con il cannone. Nella storia moderna
i movimenti popolari hanno sempre usato questa forma di difesa,
semplice spontanea diretta ed elementare.
Io sono fermamente convinto che siano stati proprio quei sassi
– impugnati, in svariate lotte, dalle generazioni ribelli
che ci hanno preceduto – a permettere alla società
civile di progredire, a permettere l'affermazione e il riconoscimento
di tutti quei diritti sociali e quelle libertà civili
che ormai sono patrimonio comune acquisito. Diritti per la cui
difesa e ampliamento dovranno essere gettati ancora tantissimi
sassi.
Detto questo, mi auguro che ora la procura torinese non sequestri,
per istigazione alla violenza, tutti i libri in cui compare
l'immagine del ragazzino genovese. Secondo il governo e le sue
fonti informative di sicurezza il nostro movimento sarebbe ormai
ostaggio di frange violente e la Val Susa sarebbe diventata
una palestra per i violenti di tutta Europa. Come a dire che
coloro che hanno tirato dei sassi, tagliato delle reti o gettato
dei petardi nel cantiere sono altra cosa rispetto a coloro che
per anni hanno animato il movimento NO TAV. E oltre a essere
diversi, la maggior parte non sarebbe nemmeno composta da valsusini.
Nulla di più palesemente falso, perché in questa
lotta tutti contribuiscono con le proprie capacità e
possibilità. Non tutte le persone possono avere la prestanza
fisica per arrampicarsi su per i sentieri, ma anche a chi resta
indietro il cuore non cessa mai di battere all'unisono con tutti
quelli che stanno tagliando le reti e sabotando i lavori. E
che il movimento abbia raccolto con simpatia la solidarietà
di numerose persone che, anche con sacrificio personale, sono
accorse in Val Susa a sostenere la nostra lotta è un
dato di fatto. Se il 27 luglio – a difendere la Maddalena
– eravamo per lo più piemontesi, il 3 luglio sono
giunti da tutta la penisola per protestare contro l'aggressione
subita, che da tutti era considerata un atto di forza ingiustificato
e violento da parte dello Stato italiano. Se non vi fosse stato
questo alto grado di coscienza collettiva non si sarebbe certo
radunata tanta gente. La parola d'ordine “Assediamo il
cantiere” e l'obiettivo di quel giorno, l'abbattimento
delle recinzioni, erano stati ampiamente pubblicizzati e condivisi
da tutti. Per questo le reti furono attaccate in punti diversi,
non solo dalla strada ma anche dai boschi, per questo finita
la manifestazione, la gente non se ne era andata ma era rimasta
sul posto a incitare coloro che le buttavano giù.
E le forze dell'ordine ancora una volta sono ricorse alla guerra
chimica, sparando migliaia di candelotti lacrimogeni, non solo
su chi danneggiava le reti ma anche, proditoriamente, sugli
inermi. E ancora una volta ci siamo difesi.
Fra noi non ci sono differenze. Noi siamo un'unica comunità
resistente. Si può resistere lanciando un sasso, sabotando
le recinzioni e le attrezzature del cantiere, occupando un terreno,
effettuando un blocco stradale, costruendo un presidio, intraprendendo
un'azione legale, organizzando un dibattito o un volantinaggio
e persino creando un gruppo di preghiera. E poi marciando tutti
insieme.
Il nostro è un movimento che, per condivisione di idee
e unità di popolo, è stato giustamente paragonato
– anche se in altro contesto storico e con altri mezzi
– a quello della resistenza al nazifascismo. Sì,
perché in Val Susa lo Stato italiano sta pesantemente
militarizzando il territorio, continuando a inviare truppe che
sono percepite dalla popolazione alla stregua di un esercito
invasore.
Più saremo attaccati, più ci mostreremo uniti.
Un popolo, una lotta.
Per portare un esempio personale, io sono stato obiettore di
coscienza e resto tuttora convinto antimilitarista. Mai avrei
immaginato nella mia esistenza di marciare in corteo assieme
agli alpini NO TAV e di ritrovarmi dopo a bere e a scherzare
con loro. Questa è la magia del nostro movimento. Un
movimento di popolo che supera ogni divergenza, rispetta ogni
differenza, e si stringe come un pugno solidale abbracciando
tutti quelli vi si ritrovano. Questo è il motivo per
cui nessuno riesce a dividerci.
In questo processo si è parlato soprattutto di scontri,
di agenti feriti, di manifestanti assetati di sangue. Chiunque
abbia ascoltato le testimonianze degli agenti che hanno deposto
si è reso conto di come molti di loro si siano accidentati
da soli, per imperizia della montagna, distorcendosi cadendo
o addirittura respirando il loro stesso gas, che i sassi dei
manifestanti ben poco potevano contro caschi scudi e le robuste
protezioni delle divise, che la maggior parte ha continuato
il servizio fino alla fine per poi marcare visita e accorgersi
delle “ferite” solo in serata. Quasi tutti i referti
medici riportano prognosi brevi poi gonfiate a posteriori con
presunte complicazioni. Lo stesso carabiniere, l'unico che il
3 luglio ebbe un contatto diretto con i manifestanti, che ha
dichiarato in quest'aula di essere stato massacrato di botte,
ne è uscito con una prognosi esigua di 10 giorni, segno
evidente che le percosse ricevute erano di lieve entità.
Non così è accaduto a Fabiano Di Bernardino, NO
TAV arrestato nella stessa giornata e poi pestato brutalmente
all'interno del cantiere, riportando ulna radio e naso fratturati.
Due pesi e due misure della stessa procura torinese, noi sul
banco degli imputati, archiviazione per i massacratori in divisa.
Noi non siamo fautori dello scontro a tutti i costi. Lo abbiamo
accettato per legittima difesa ma non lo cerchiamo. Quello che
ci interessa, ci anima e ci appassiona sono i momenti costruttivi
di crescita collettiva della nostra lotta. Quei momenti in cui
la storia si interrompe – anche se per un tempo brevissimo
– e si può pensare e viversi in un mondo diverso,
in cui condividere valori e speranze. E uno di questi momenti
è stato la libera repubblica della Maddalena, che è
stata una vera palestra, non di violenza ma di democrazia. Non
della democrazia rappresentativa in cui si delega il potere
ad altri che poi ne abuseranno a piacimento, ma della democrazia
reale, quella in cui tutto un popolo si confronta, discute,
decide e agisce in prima persona.
Un nuovo modello di democrazia
Noi siamo un movimento che si oppone alla costruzione di una
linea ferroviaria ad alta velocità che consideriamo inutile
costosa e nociva. Nociva per l'ambiente, che verrà devastato
in maniera irreversibile, e per la salute degli abitanti della
Val Susa e di Torino, che saranno esposti per anni alla contaminazione
di polveri d'amianto e persino radioattive. Inutile perché
tutte le più elementari previsioni di traffico lo prospettano
ampiamente. Costosa perché così vuole il sistema
clientelare dei partiti che è alla base ogni grande opera
nel nostro paese. Opere progettate per impinguare le casse di
vari gruppi finanziari, di potenti lobbies di costruttori, di
partiti politici e associazioni mafiose. La corruzione eletta
a sistema. Costoro non hanno alcuna remora, per i propri miserabili
tornaconti di bottega, a sottrarre sempre più risorse
alla scuola, alla sanità, alla cultura, alle pensioni,
alla salvaguardia del territorio e ai servizi per i cittadini.
Di tutto questo – cioè delle ragioni e delle motivazioni
degli imputati – in questo processo non se ne è
voluto parlare. Come se le nostre ragioni – che dei tecnici
competenti avrebbero ampiamente illustrato – non fossero
attinenti al processo. E nemmeno di 'ndrangheta si è
voluto parlare. Nonostante i giornali riferissero dei rapporti
tra questa organizzazione mafiosa e le ditte appaltatrici del
cantiere TAV di Chiomonte, proprio di quell'Italcoge che ha
la faccia tosta di costituirsi parte civile contro di noi.
Mentre noi venivamo denunciati, arrestati, vessati da misure
cautelari sproporzionate, la mafia – dietro i reticolati
– sotto la protezione delle forze dell'ordine e dell'esercito
italiano, in tutta tranquillità faceva i suoi affari
asfaltando le strade all'interno del cantiere.
Gli svariati tentativi dei nostri difensori di introdurre questi
elementi all'interno del processo sono sempre stati rigettati
dal tribunale come non pertinenti. Si è deciso di fare
in fretta e di chiudere gli occhi.
Solo dibattendo su queste problematiche il tribunale avrebbe
potuto avere un quadro esaustivo della posta in gioco, per entrambe
le parti. Invece abbiamo assistito a un processo contro più
di 50 oppositori del TAV in cui non si è discusso né
del TAV né delle infiltrazioni mafiose che lo accompagnano.
Qui si è preferito dibattere solo sulle distorsioni e
sui lividi riportati dagli agenti per poi presentare il conto
in pene detentive e pecuniarie.
Io credo che sia impossibile giudicare qualsiasi fatto se lo
si estrapola dal contesto in cui è maturato. La stessa
azione che in una data circostanza può essere considerata
riprovevole, all'inverso, può presentarsi virtuosa in
altro contesto. Comunque le nostre ragioni – anche se
non in quest'aula – sono ormai all'attenzione di tutto
il paese. Una sempre più ampia fascia di persone sta
cominciando a comprendere i meccanismi della truffa ad alta
velocità della linea ferroviaria Torino-Lione. L'opposizione
sta lentamente montando in tutta la penisola, e anche in Francia.
Per noi lottare contro questa devastazione che lo Stato vuole
imporre alla Val Susa è anche una questione morale.
Noi abbiamo non solo il diritto ma anche il dovere di opporci.
Non riconosciamo la regola che ogni decisione presa dalla maggioranza
degli eletti sia indiscutibile e irrevocabile. Pensiamo che
i cittadini debbano intervenire direttamente su ogni problema
che li riguarda.
Abbiamo indicato un nuovo modello di democrazia, in cui le minoranze
hanno pari dignità delle maggioranze e non accettiamo
diktat da parte dello Stato. E non ci fermeremo, nonostante
la procura torinese continui a depositare decine di denunce
nei nostri confronti, ipotizzando reati spropositati persino
per episodi penalmente irrilevanti. Giustizia a tempo pieno
e ad alta velocità solo contro il movimento NO TAV, che
nelle aule di tribunale – a dispetto dei tempi lunghi
– gode di una specifica corsia preferenziale.
Non abbiamo paura.
Noi, a differenza dei sostenitori del TAV, non abbiamo interessi
particolari da difendere, non siamo qui seduti sul banco degli
accusati per esserci illecitamente appropriati di qualcosa per
mero tornaconto personale. Quello che ci muove è solo
un'idea di giustizia. Noi siamo animati da alti valori etici
e sociali. Coloro che in una determinata epoca storica sono
ritenuti pericolosi delinquenti e come tali sono incriminati
e sanzionati dalla legge possono diventare gli eroi di domani.
Molti sovversivi che vennero condannati e patirono lunghe pene
detentive durante gli anni bui del fascismo poi furono considerati
i padri della repubblica, tanto che uno di loro ne è
diventato persino il presidente. Lo stesso è accaduto
a Nelson Mandela.
Il movimento NO TAV – sia nel caso di vittoria, sia di
sconfitta – sarà comunque riconosciuto dalle generazioni
future come un modello eroico di resistenza.
Per quanto ci riguarda, attendiamo il vostro verdetto senza
timore, come sempre, con serenità e determinazione, con
la coscienza e l'orgoglio di essere nel giusto. Perché
le ragioni sono tutte dalla nostra parte.
Il movimento NO TAV sta scrivendo la storia di questo paese.
E la storia vi giudicherà.
Tobia Imperato
Sardegna/Un
consiglio di De André a Dio
Lodine
è un piccolo paese della Barbagia, di 400 abitanti
e immerso in un territorio ricco di siti archeologici
pre-nuragici e nuragici, non lontano da Mamoiada, Orgosolo,
Nuoro, Gavoi.
Mi ci hanno condotto alcune amiche e amici di Nuoro e
dintorni.
È curioso come da qualche tempo, tutti gli abitanti
di Lodine facciano disegnare sulle serrande metalliche
dei propri garage, volti noti della musica, della politica,
della vita civile.
Fa eccezione questa foto che allego dove Fabrizio De André
e la sua celebre citazione sulla vita in Sardegna non
stanno su una delle tante serrande, ma nel muro di un
bar con sovrastante abitazione.
Le amiche e gli amici barbaricini, chiacchierando sulle
curiosità della zona, mi hanno promesso che, essendo
io un anarchico, un giorno mi avrebbero portato a Ovodda,
il paese degli anarchici, talmente anarchici che il carnevale
lo festeggiano il mercoledì delle ceneri.
Saludos.
Nicola
Pisu
Serrenti (Vs)
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I
nostri fondi neri
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Sottoscrizioni. Federico Andreini (Rimini)
10,00; Remo Ritucci (San Giovanni in Persiceto –
Bo) 20,00; Nazario Pignotti (Grottammare – Ap)
10,00; Ettore Filippi (Empoli – Fi) 10,00; Gianandrea
Ferrari (Reggio Emilia) 10,00; Arturo Schwarz (Milano)
100,00; un compagno (Reggio Emilia) 200,00; Ivana
Antonica (Frasso Telesino – Bn) per versione
PDF della rivista, 4,00; Cristiano Draghi (Firenze)
ricordando suo padre Gianfranco, 100,00; Aurora e
Paolo (Milano) ricordando Amelia Pastorello e Alfonso
Failla, 500,00; Gianfilippo Gallo (Roma) 10,00; Ugo
Fortini (Signa – Fi) ricordando Milena e Gasperina,
30,00; Riccardo D'Agostino (Torino) 10,00; Libreria
San Benedetto (Genova) 14,20; Igor Cardella (Palermo)
20,00. Totale € 1.048,20.
Abbonamenti sostenitori. (quando non altrimenti
specificato, trattasi di euro 100,00). Giuseppe
Anello (Roma); Claudio Paderni (Bornato – Bs);
Remy Perrot (Parigi - Francia). Totale €
300,00.
Nell'elenco dei Fondi neri, pubblicato sullo scorso numero, abbiamo omesso di specificare che l'abbonamento sostenitore di Marco Galliari (Milano) era “dedicato” al ricordo di Franco Pasello. Ovviamo ora, unendoci a Marco nel ricordo di un caro amico e compagno, obiettore totale, antimilitarista, amico del popolo Rom, orgogliosamente panettiere, in assoluto il massimo diffusore (per oltre 30 anni) della nostra rivista nel corso della sua storia. Ciao Franco, ci manchi.
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