Europa
Rassegnati, indifferenti e placidi consensi
di Antonio Cardella
Sono quelli che l'opinione pubblica italiana, e in genere europea, sembra garantire ai governi in carica e agli Stati.
A cui manca un'opposizione degna di questo nome.
Quando, nella notte tra il 16
e il 17 dello scorso settembre, le emittenti di tutto il mondo
trasmisero l'esito del referendum sulla Scozia indipendente,
parve percepirsi quasi fisicamente il sospiro di sollievo di
tutti gli apparati politici ed economici che regolano la vita
dell'eurozona.
Il moto di sollievo era perfettamente giustificato perché, nell'immediato, la sconfitta degli indipendentisti scozzesi esorcizzava il moltiplicarsi di referendum popolari per le altre istanze secessioniste presenti nel nostro continente. A partire dalla Catalogna e dai Paesi baschi nella penisola iberica sino alla Crimea dell'ex impero sovietico, passando per l'Irlanda e il Galles, il desiderio di sganciarsi da governi centrali avvertiti come ostili e comunque estranei alle proprie tradizioni etno-culturali vive, o esplicitamente o sotto traccia, alimentandosi delle molte precarietà che la crisi sistemica del mondo contemporaneo manifesta. Senza considerare, poi, per la loro valenza disgregativa, le molte forme di sciovinismo e di razzismo esplicitate da movimenti di destra estrema che in alcuni Paesi si impongono come protagonisti egemoni della vita politica (vedi il movimento della Le Pen in Francia).
L'accrescersi e il rinnovato dinamismo di queste forme eccentriche hanno origini diverse: alcune storicamente riconducibili ad aggregazioni forzate di antichi colonialismi (le molte dominazioni epocali: quella araba in particolare nel sud della penisola italiana) o a logiche imperiali (l'austria-ungarica al nord e la borbonica al sud dell'Italia a cavallo tra il XVIII e il XIX secolo); altre forme aggregative trovano le loro ragioni in forti spinte autonomistiche di natura etno-culturale (Penisola balcanica – Paesi Baschi). Resta da chiedersi come mai questi fenomeni di disgregazione si siano proprio adesso manifestati in tutta la loro virulenza e anche su questo interrogativo la risposta non è semplice.
La mia opinione è che sia venuta meno la credibilità degli Stati nazionali: svuotati delle loro prerogative fondative, hanno contemporaneamente, e di conseguenza, manifestato in tutta evidenza la loro incapacità di essere guida autentica e autonoma delle rispettive comunità. Le difficoltà, le sofferenze i sacrifici che ad ogni piè sospinto si richiedono a cittadini già provati sono addebitati ad entità sovranazionali sorde e inaccessibili, talché cresce a dismisura il senso di impotenza; questo volge presto in rassegnazione per alcuni, per altri in moti di cieca ribellione che in taluni contesti si manifesta nella riaffermazione più o meno violenta di un'identità concussa.
È in questo scenario di forti tensioni autonomistiche, talvolta astoricamente isolazionistiche, che va misurato il fallimento della Unione Europea. Nei suoi riguardi aumenta la diffidenza dei popoli che la compongono, i quali avvertono Bruxelles sempre più lontana e nemica. Ritengono – a ragione – che il governo e le altre istituzioni europee sostengano gli interessi particolari di poteri finanziari rapaci e cinici, indifferenti alla sorte dei popoli, protesi soltanto a salvaguardare i privilegi di piccoli gruppi ricchi e potenti, volti a rastrellare risorse da trasferire dall'economia reale alla speculazione finanziaria, attiva in ogni angolo del pianeta. Quella stessa speculazione che, in pochi decenni, ha trasformato le Borse da organismi funzionali alla produzione di ricchezza e di progresso sociale in una sorta di Las Vegas del gioco d'azzardo nel quale tutto è virtuale tranne l'istanza patologica della sfida alla sorte e l'accumulazione di denaro fine a se stesso, circolante a circuito chiuso.
Atteggiamenti autolesionistici
Ebbene, questi sono i poteri tutelati dalle direttive e dalle
normative dell'Unione Europea. Al sostegno e alla sopravvivenza
del sistema liberista privo di controlli e di contrappesi servono
le demenziali politiche del rigore e del pareggio dei bilancio.
Occorre che la produzione della ricchezza reale e la sua redistribuzione
siano compatibili con gli interessi di gruppi privilegiati,
i quali hanno provocato, per eccesso di azzardo, la crisi profonda
che ancora ci affligge e che ricade tutta sulla carne viva dei
popoli.
In questo quadro di iniquità profonde e crescenti, i
governi nazionali sono chiamati a regolare il traffico perché
le istanze di questi potentati sovranazionali abbiano libera
circolazione nei diversi contesti della zona europea, pronti
a reprimere con durezza eventuali sacche di oppositori. Parlo
di sacche di oppositori con cognizione di causa, perché
gli oppositori veri a questa concezione truffaldina della comunità,
quegli oppositori che sono perfettamente consapevoli del dramma
che stiamo vivendo, costituiscono gruppi sparuti e, per il momento,
inermi: sacche, appunto, che vivono di vita precaria in contesti
rassegnati o indifferenti.
Adesso, la rassegnazione è comprensibile in coloro che
hanno maturato la convinzione di non avere alcun mezzo per influire
sul corso degli eventi e si limitano ad attendere che le cose
cambino per effetto di un qualche miracolo che si ritiene sia
sempre tacitamente attivo dietro l'angolo della storia degli
oppressi. L'indifferenza è un sentimento pericoloso e,
in larga misura, colpevole, perché sottende la convinzione
che, comunque vadano le cose attorno a me, io, turandomi il
naso, me la caverò sempre. Rassegnazione e indifferenza
sono atteggiamenti autolesionistici per il semplice motivo che,
qualunque sia la forma del mio isolamento, non potrò
mai impedire che la vita attorno al mio rifugio continui a fluire,
e non è affatto detto che, quando deciderò di
uscire dal bunker nel quale ho coltivato i presunti vantaggi
del mio isolamento – perché prima o poi dovrò
uscire – quello che troverò sia migliore di quello
che, a suo tempo, ho lasciato.
E ciò che è vero per gli individui vale anche
per gli egoismi nazionalistici: dallo tzunami della crisi che
devasta popoli e territori della Vecchia Europa, nessuno, tranne
i soliti avvoltoi che di macerie si nutrono, si salva. A meno
che – evento assai improbabile – non si decida di
cambiare prospettiva e ricominciare tutto da capo.
Il fatto è che noi viviamo in un'area, quella europea,
nella quale nessuno avverte la necessità di mutamenti
radicali del nostro modo di stare al mondo: si tira avanti con
qualche riformetta qui, qualche altra là nell'attesa
messianica che, ad un momento dato – non si sa bene quanto
lontano nel tempo – qualcuno riesca a cavare il ragno
dal buco.
È un'illusione storicamente infondata: la qualità
dell'esistente non cambia per inerzia e la condizione di gran
parte del Pianeta, per gli effetti delle modalità perverse
di creare e di distribuire la ricchezza prodotta, non è
modificabile seguendo le logiche delle consolidate norme economiche
e politico-giuridiche oggi prevalenti. D'altra parte non c'è
sentore di un'opposizione popolare vera e coesa, nel mare increspato
di mugugni indistinti, tra rassegnati, indifferenti e placidi
consensi.
Antonio Cardella
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