Coltivare i talenti
Questa è una storia bella,
per una volta, fatta di gratitudine e nostalgia.
In apparenza, quello che vado a dirvi non ha a che fare con
la scuola, che è il mio argomento preferito. In apparenza,
il film di un regista esordiente - neanche 25 anni e una determinazione
inflessibile - non c'entra con quella fase complicata della
vita in cui, alla scuola superiore, uno magari comincia a scegliere
cosa fare della vita e come investire le sue idee, il suo sguardo,
le sue mani, la creatività e, se c'è, il talento.
E invece qualcosa c'entra.
Comandante è il film d'esordio di Enrico Maisto.
In realtà, non è proprio un'opera prima. Ne ha
girati altri due, il primo dei quali lo ha realizzato a 17 anni,
mentre frequentava il Liceo Classico Berchet di Milano, istituto
scolastico che, come tutte le scuole di questo disgraziato paese,
contiene un numero rilevante di bizzarri personaggi appartenenti
alla bistrattata categoria degli insegnanti.
È un contesto prevedibilmente fortunato, o almeno così
si dice. Gli studenti che lo frequentano vengono per la maggior
parte da famiglie privilegiate, vivono in un mondo culturalmente
ricco e vivace e lo sanno, il che non è di per se stesso
un dato sempre positivo. Chi come me, nella infinita gavetta
che si fa in questo mestiere, ha quasi sempre lavorato in Istituti
professionali, dove la vera battaglia è riconquistare
i ragazzi alla dignità del vivere, considera con una
punta di spocchia e con invidia segreta o esplicita i professori
di liceo, e sottovaluta le responsabilità di questi contesti.
I ragazzi hanno spesso tutto quello che desiderano, tranne,
appunto, il sapore della vita vera. Questo produce guai di vario
genere, equilibri dissestati, anoressie e bulimie, esperimenti
a volte estremi col corpo e con la mente.
Ma se uno non ci si trova, tutte queste cose non le sa.
Il problema è sempre quello, lo stesso che gli inutili
personaggi che si sono avvicendati in anni recenti al ministero
della pubblica istruzione continuano a ignorare: uno non sa
cosa vuol dire fare l'insegnante finché non capita in
una classe e non ne diventa il solo e unico responsabile. Enrico
Maisto, nello specifico, è figlio di magistrati. Figlio
unico, molto dotato, molto determinato e per me, che non lo
conoscevo quando ho visto il piccolo film girato al liceo, aveva
di certo talento. E tuttavia, con la presunzione tipica di molti
adulti e certo mia in quegli anni, mi pareva destinato a non
conoscere la vita vera, protetto com'era in quello che immaginavo
un bozzolo di benessere e affetti.
Mi sbagliavo. Non bisognerebbe mai pensare di aver capito, quando
non si sa nulla.
Adesso,
a qualche anno di distanza da quel piccolo talentoso film, sostenuto
dal Liceo Berchet e da chi lì insegnava, recitato in
parte dai docenti medesimi, Enrico Maisto realizza Comandante,
lo proietta in una sala piena (anche di amici, insegnanti e
persone che per la sua breve vita fin qui son state per lui
importanti) e io devo rivedere tutto, ammettere di non aver
capito nulla, o quasi.
È una strana operazione di memoria, questo film, e un
omaggio di affetti che deve aver richiesto un coraggio considerevole.
La storia, raccontata con una levità invidiabile, si
srotola intorno a due protagonisti: il padre del regista, per
molti anni giudice di sorveglianza a S. Vittore, e il suo amico
Felice, meccanico e militante di Lotta Continua, comunista convinto
ancora oggi, seppure con una coscienza critica molto chiara.
Questo è il nodo: come raccontare quegli anni attraverso
una rete di affetti anche molto intima, mostrando la tessitura
delle emozioni e toccando corde segrete in un contesto pubblico,
rendendo giustizia alle contraddizioni dell'ideologia ma anche
al legame di rispetto e di profonda solidarietà tra due
persone molto diverse, entrambe profondamente presenti nella
formazione umana prima che professionale del regista?
Il nodo, alla fine, sta nelle parole stesse di Francesco Maisto,
il magistrato, che con onestà cristallina e sussurrata
risponde alle domande del figlio dicendo che un amico è
qualcuno con il quale non devi preoccuparti di quello che sei,
perché puoi essere, e basta. Così, in modo sommesso,
vengono fuori due storie: quella del militante che non ha mai
condiviso l'uso della violenza e che sa esprimersi in modo critico
rispetto a scelte che ha vissuto direttamente, e quella del
magistrato incaricato di controllare, nella casa circondariale,
che tutto venisse fatto secondo le regole, e che per ciò
stesso si espone, nella sua cristallina onestà, a una
quotidiana disconferma del proprio ruolo, a un trasferimento
non voluto, a una serie di piccole, grandi angherie alle quali
è possibile opporre solo, se si è persone per
bene, la determinazione a fare il proprio mestiere.
Il regista, per lo più, ascolta, nascondendosi dietro
la macchina da presa, parlando poco, osservando e riprendendo
gesti che ha visto fare mille volte e che ora filma per lasciare
una traccia. In una Milano di periferie e mezzeluci, negli spazi
chiusi del carcere, nella stanza d'albergo dove Francesco Maisto
si prepara la caffettiera del rituale caffè serale, alla
fine il nodo del discorso salta fuori cristallino, quando il
magistrato dice che la gente si aspetta che il mestiere del
magistrato sia quello di applicare la legge. Non è così.
Il magistrato, dice Maisto-padre, è un artista, un poeta.
Il magistrato deve interpretare la legge.
Ecco: non so se capisco e se sono d'accordo, ma credo che questo
sia il bene e il male del sistema italiano. Dentro questa “interpretazione
della legge“, un concetto che già altrove ho toccato,
risiede tutto il senso della cultura italiana. Il male mi è
chiaro, e sta nella imperante cialtroneria dell'oggi. Il bene,
quello che solo ora capisco, è affidato alle persone
di buonsenso, quelle che sanno di avere una responsabilità
precisa, che va assunta ma non usata: piccoli eroi, dei quali
non si sa nulla.
Mi pare una cosa importante da capire. E mi pare che questa
stessa assunzione di responsabilità faccia parte del
mestiere di insegnante, se si vuole farlo decentemente. Come
nella gestione della legge, non vi sono vie di mezzo: si è
santi o cialtroni. La linea è sottile, e la categoria
molto diversificata. Però se qualcuno sa ancora ascoltare
e ricostruire, se attraversa e ricompone questi ricordi non
dimenticandosi di ringraziare chi glieli ha donati, beh, nulla
è perduto.
La memoria resta, e fa parte di quello che siamo. E che dobbiamo
essere.
Nicoletta Vallorani
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