L'Ai lettori di “A”
61 (dicembre 1977/gennaio 1978) si apre con l'annuncio di un
imminente matrimonio. Che poi non si fece, perché uno
dei due promessi sposi non si presentò alla cerimonia.
Ci riferiamo alla preannunciata fusione tra la nostra rivista
e il Bollettino del Centro di Documentazione Anarchica (di Torino),
una vivace pubblicazione in gran parte interna all'ambito libertario,
portata avanti da militanti che facevano riferimento alla medesima
area del movimento anarchico – quei Gruppi Anarchici Federati
che di lì a poco si sarebbero sciolti. La rivista avrebbe
dovuto passare, a partire dal numero successivo, da 36 a 44
pagine (il che puntualmente avvenne): quel che non avvenne fu
che le 8 pagine centrali sarebbero state curate dalla redazione
(torinese, appunto) del CDA, in piena autonomia ma – è
evidente – al contempo in sostanziale sintonia con la
redazione (milanese) di “A”. All'ultimo momento,
e cioè appena prima della preannunciata assemblea pubblica
del 15 gennaio a Bologna, i “torinesi” ci ripensarono
e non si presentarono. Imbarazzante, come tutti i matrimoni
preannunciati e poi non celebrati. Meglio così, alla
luce degli sviluppi successivi, visto che tra le due redazioni
si evidenziarono presto grosse – e nel tempo crescenti
– distanze su vari temi da sempre al centro del dibattito
tra gli anarchici. In particolare su quello della violenza,
allora poi – siamo alla fine del quasi mitico Settantasette
– drammaticamente attuale, con la scia di azioni violente
e a volte propriamente “terroristiche” che si succedevano
a velocità impressionante.
Sulla questione della violenza codesto numero 61 di “A”
contiene vari scritti, uno dei quali – per la penna di
Paolo Finzi – in qualche misura programmatico. Nella sostanza,
si criticano profondamente tutti coloro che, prevalentemente
in campo marxista-leninista, sopravvalutano il ruolo positivo
della violenza nelle lotte sociali e ancor più l'idea
stessa e la mitologia della lotta armata. Non si tiene conto,
in quella visione, dei tempi necessari per la presa di coscienza
degli sfruttati, senza la quale – si ribadiva – “non è possibile la rivoluzione libertaria, l'unica
che ci interessi”. Al contempo si facevano una serie di
distinguo, “salvando” alcune azioni, ferimenti,
rapimenti verso i quali si esprimeva consenso, adesione, simpatia.
Una prospettiva – in quell'articolo come in tanti altri
editoriali di quegli anni – che con il tempo la redazione
di “A” ha superato e abbandonato, anzi fortemente
criticato, perché eticamente debole e tutta “dentro”
a una logica politica (se non, a tratti, militare) che poco
o niente ha a che vedere con le ricchezze, le risorse e le potenzialità
di movimenti di lotta ed esperienze individuali e collettive
di “vita alternativa” che sappiano costruire in
positivo un baricentro e un riferimento davvero “altro”
rispetto al teatrino della rappresentazione sociale degli “scontri”,
del “nemico”, ecc... Questioni complesse, di cui
si continua a discutere (anche in questo, anche negli ultimi
numeri di “A”) e di cui si continuerà a discutere.
Quella che sicuramente è cambiata, e non poco, è
la sensibilità della redazione, che proprio a partire
da quel periodo e quelle riflessioni mette in moto una trasformazione
profonda e in itinere che riguarda sia il senso e le
prospettive generali dell'anarchismo, sia – che è
poi quello che riguarda più direttamente questa rubrica
– il ruolo di questa rivista. Che, proprio a partire da
quegli anni, è venuta accentuando sempre più il
suo carattere di palestra di discussione, luogo aperto ai dibattiti,
agorà aperta anche ai non-anarchici, sempre meno “giornale
(un po' sopra le righe) di lotta” e sempre più
snodo di notizie, informazioni, opinioni, fornitore di strumenti
per capire e ragionare e sempre meno di “linee forti”,
nemici da attaccare, verità da riaffermare a ogni piè
sospinto.
Una trasformazione profonda, che fa sì che, nel riprendere
in mano e rileggere quelle pagine – di 37 anni fa, appunto
– la “nostalgia” per quegli anni sia spesso
molto meno intensa della coscienza delle mutate sensibilità
e opinioni. Si potrebbe dire che ci troviamo di fronte a una
caso significativo di sostanziale coerenza anarchica e, al contempo,
di una profonda, ma davvero profondissima, revisione di quelle
che allora ci sembravano le cose da pensare e da dire.
Non ci dispiace, non tanto perché noi si sia convinti
che oggi “abbiamo ragione”, ma molto più
modestamente perché tutto ciò conferma che non
siamo statici e stanchi ripetitori di verità predigerite,
sempre le stesse, ma si cerchi ancora – numero dopo numero
– di capirci qualcosa di più. È su questo
terreno che il progetto editoriale di “A” si è
mosso nell'ultimo quarto di secolo, al punto che – per
certi aspetti – “lavorando” sui numeri di
37 anni fa si ha a volte la sensazione di leggere un'altra rivista.
Per noi, si tratta di una bella sensazione. E secondo voi?
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