anarchiche
La mia doppia identità. Negata.
di Audrey Goodfriend
A Venezia, nel 2000, il Centro Studi Libertari di Milano organizzò il convegno di studi “Anarchici ed ebrei, storia di un incontro”.
Dagli Stati Uniti venne un'anarchica ebrea, che a un certo punto della sua vita decise di non definirsi più ebrea. Nel suo intervento spiegò perché.
Qando mi è stato chiesto
di partecipare a una tavola rotonda su «Anarchici ed ebrei:
la doppia identità», ho avuto l'impressione di
non essere la persona adatta, e ancora adesso mi sento un po'
fuori posto, per i motivi che spiegherò più avanti,
ma essenzialmente perché non mi riconosco davvero in
una doppia identità. Nonostante tutto.
Nonostante il fatto, ad esempio, che io sia nata proprio in
seno al movimento anarchico ebraico. Mio padre era arrivato
negli Stati Uniti dalla Polonia. Era, allora, socialista, ma
diventò anarchico mentre lavorava in una legatoria a
Chicago. Mia madre, che veniva da un piccolo shtetl (villaggio)
polacco, venne introdotta nell'ambiente del «Freie Arbeiter
Stimme» da suoi amici di Newark (New Jersey). Poi sono
nata io, proprio in mezzo al movimento anarchico yiddish, come
dicevo. Da bambina assistevo a molte delle discussioni cui partecipavano
i miei genitori. Mio padre era membro della Yiddishe Anarchistike
Federazie ed era anche segretario di un gruppo di mutuo appoggio
del Workmen's Circle, chiamato Ferrer Center Branch (divenuto
più tardi Ferrer-Rocker Branch). Così la mia infanzia
fu piena di anarchismo e anche di cultura yiddish. I miei genitori,
infatti, ritenevano di dover allevare la loro figlia nella conoscenza
della lingua yiddish e della sua tradizione culturale: pur crescendo
a New York, non ho parlato inglese finché non sono andata
a scuola.
|
Audrey Goodfriend (1920 New York City - 2013 Berkeley, California) in una foto di fine anni Trenta |
Andammo a vivere in una cooperativa di ebrei di sinistra,
tutti operai, che si impegnavano a conservare la cultura yiddish:
la Sholem Aleichem Cooperative. La cooperativa aveva organizzato
una scuola, che noi bambini frequentavamo ogni giorno dopo la
scuola pubblica, dove si insegnava a leggere e scrivere lo yiddish.
Fu così che cominciai a leggere il «Freie Arbeiter
Stimme». Ero una bambina precoce e i miei genitori amavano
farmi recitare poesie anarchiche yiddish; ad esempio una di
Yusef Buvshever, di cui ricordo ancora qualche verso: «A
velt un hersher, un gershte, d'us iz Anarchie» (Un mondo
senza governanti e senza governati, questo è l'anarchia)...
Bene, quando ebbi undici anni diventai anarchica davvero, dopo
avere letto L'ABC del comunismo anarchico di Alexander
Berkman, un'esposizione elementare delle idee libertarie. Qualche
anno dopo uscì l'autobiografia di Emma Goldman. La lessi
e – wow! – ero proprio anarchica convinta. Continuavo
a leggere il «Freie Arbeiter Stimme», ma il movimento
anarchico yiddish era in fase di declino, a New York e –
penso – un po' in tutti gli Stati Uniti. Molti anarchici
ebrei erano diventati comunisti negli anni Venti e, all'inizio
degli anni Trenta, il movimento era triste e per di più
era sempre senza soldi. Così, alcuni di noi, figli di
anarchici e lettori noi stessi dello «Stimme», formammo
un piccolo gruppo con lo scopo di raccogliere fondi per il giornale:
ci chiamavamo Yunge Adler, cioè Aquilotti.
|
Audrey con i suoi genitori, anche loro anarchici, quando viveva nei Sholem Aleichem Apartments (ca. 1924), un progetto edilizio cooperativo situato nel Bronx al quale partecipava tutta la sinistra radicale del movimento yiddish |
Tuttavia, quello che mi accadde fu che, riflettendo sulle
idee anarchiche, trovavo sempre meno congeniale quello che leggevo
sul «Freie Arbeiter Stimme». Ad esempio, durante
gli anni della Grande Depressione, molti compagni caldeggiavano
l'elezione di Franklin Delano Roosevelt. Era, questa, una cosa
che non riuscivo a capire e cominciai ad avere dei dubbi sul
movimento anarchico yiddish. Mi misi a leggere sempre di più
e sempre di più altri periodici anarchici. All'epoca,
inoltre, ero molto presa da quanto stava succedendo in Spagna.
Anche il movimento anarchico yiddish sosteneva gli anarchici
spagnoli, ma difendeva la loro decisione di entrare nel governo
repubblicano. E anche questo mi diede da pensare. Che cosa stava
succedendo alle idee anarchiche tra i nostri compagni ebrei?
Più tardi, «Freie Arbeiter Stimme» cominciò
a parteggiare per l'entrata in guerra degli Stati Uniti, sostenendo
che la cosa più importante era sconfiggere Hitler. Anche
questo mi pose seri problemi, perché credevo che gli
anarchici non dovessero essere coinvolti negli Stati e nelle
loro guerre.
Ebbi delle accese discussioni con mio padre. Lo feci addirittura
inferocire quando gli dissi: «sono più in ansia
per i nostri compagni anarchici nei campi di concentramento
francesi che non per la tua famiglia, una famiglia che io neppure
conosco». Anni dopo, da adulta, mi sono resa conto che
la mia impetuosità giovanile me l'aveva fatta dire un
po' grossa. Anche perché, da buona internazionalista,
penso naturalmente che nessuno dovrebbe essere internato o peggio
ancora ucciso, di chiunque si tratti, in qualunque parte del
mondo.
Poi, quando nel dopoguerra sul «Freie Arbeiter Stimme»
ci fu un durissimo scontro sul sostegno da dare al costituendo
Stato di Israele e il direttore d'allora, Herman Frank, contrario
alla forma-Stato, venne dimesso, rimasi molto turbata. E decisi
che non mi sarei più definita ebrea. Ed eccoci alle perplessità
che ho esposto all'inizio del mio intervento a proposito della
mia «doppia identità».
Provengo da un background ebraico, non c'è dubbio, e
amo la cultura yiddish, ma non sono minimamente religiosa e
non sostengo le idee sioniste, vale a dire che non possiedo
le due caratteristiche che, agli occhi del mondo, definiscono
l'ebraicità. Per questo continuo a dire «non sono
ebrea». La cosa buffa è che tutti dicono che sono
quanto di più ebreo si possa immaginare, ma questa è
tutta un'altra faccenda.
|
Audrey insieme alla figlia Nora Koven, anche lei attiva nella scuola autogestita “Walden” di Berkeley |
Facendo un piccolo salto in avanti nel tempo... mi sono impegnata
in attività educative e, in particolare, sono stata tra
i promotori della Walden School di Berkeley (California), fondata
su principi libertari. Proprio agli inizi di quella attività,
mentre portavo a scuola un gruppo di ragazzini, attorno ai sei
anni di età, li sentii discutere del loro ambiente familiare,
delle loro origini. Un ragazzino disse: «sono ebreo».
Una ragazzina disse: «be', io sono mezza ebrea e mezza
virginiana, perché mia madre è ebrea e mio padre
viene dalla Virginia, perciò sono metà e metà».
Mia figlia (figlia mia e di David Koven, anche lui anarchico)
disse: «anch'io sono mezza ebrea, perché mio padre
è ebreo e mia madre è una persona normale».
Da allora è una specie di scherzo familiare dire che
io sono la parte normale della famiglia.
Ritornando un po' indietro, dopo essermi resa conto che non
avevo nulla a che fare con la guerra mondiale, io e alcuni altri
giovani anarchici ebrei ci mettemmo insieme a degli anarchici
italiani di New York e formammo un gruppo di cui faceva parte,
tra gli altri, anche Paul Goodman. Molta della nostra attività
era di tipo antimilitarista. Mi sentivo molto vicina al movimento
anarchico italo-americano, di cui appresi alcune canzoni. Ascoltando
ieri sera, durante l'incontro conviviale, la canzone «Nostra
patria è il mondo intero, nostra legge è la libertà»
mi sono sentita riportare indietro a quei tempi, a New York.
Giorni bellissimi di pic-nic e feste organizzate per raccogliere
fondi per la resistenza antifascista. La cosa curiosa è
che, se pure io non mi considerassi un'anarchica ebrea nel movimento
italiano, ma semplicemente un'anarchica, i nostri compagni parlavano
di me proprio come della «ragazza ebrea»...
Audrey Goodfriend
Un
ricordo molto personale
di Rossella Di Leo
Audrey Goodfriend ha concorso in modo essenziale
alla mia “educazione sentimentale” anarchica.
Insieme a qualche altra persona – tutti maschi gli
altri: Pio Turroni, Louis Mercier Vega, Tony Martocchia,
Attilio Bortolotti – mi ha trasmesso uno “spirito”
comunitario che s'impara solo nella pratica esistenziale
quotidiana. Tutte queste persone, pur se molto diverse
tra loro (e tutte molto più anziane di me), mi
hanno consentito di conoscere, attraverso i loro racconti
di vita e militanza, un anarchismo che si incarnava in
uomini e donne concrete, dando sostanza e prospettiva
storica a quella visione del mondo che già condividevo.
Non sorprendentemente ho conosciuto Audrey nel 1980 al
Simposio internazionale anarchico che nel febbraio di
quell'anno si teneva a Portland, nell'Oregon. Io stavo
facendo un lungo giro coast to coast in Nord America
che mi aveva fatto entrare in contatto sia con il nuovo
anarchismo americano (alla Goodman e alla Bookchin, per
intenderci), sia con il vecchio anarchismo italo-americano
(in particolare quello attorno a “L'Adunata dei
Refrattari”), che si stava estinguendo per ragioni
anagrafiche. Forse, nell'interesse di Audrey a conoscere
“la compagna italiana” c'era un riflesso di
quel legame che da sempre l'aveva legata al movimento
italo-americano, sia sulla costa Est, quando ancora abitava
a New York, sia sulla costa Ovest, dove si trasferì
nel 1946 insieme al suo compagno, David Koven. D'altronde,
questa speciale vicinanza tra movimento italo-americano
e movimento yiddish è un tratto tipico dell'immigrazione
anarchica negli Stati Uniti che andrebbe indagato per
capirne meglio le ragioni.
Comunque, ci conosciamo a Portland e, venendo a sapere
che avrei passato qualche tempo nella zona di San Francisco,
subito mi invita a stare da lei, a Berkeley. Lì
nasce la nostra amicizia, fatta di racconti (a cominciare
dal suo incontro con Emma Goldman, quando diciottenne
va a Toronto per conoscerla), di incontri con la pletora
di anarchici attivi nella Bay Area (per principio Audrey
tiene buoni rapporti con tutte le sfaccettature anarchiche,
anche le più bislacche), di pazienti lezioni di
inglese da parte di chi aveva lungamente insegnato…
E certamente l'esperienza della Walden School and Community,
che ha fondato con David e altri alla metà degli
anni Cinquanta, è per lei un punto centrale della
sua vita e della sua militanza. Non solo ci insegna fino
al 1971, ma le figlie, Nora e Diva, sono tra i primi studenti
a compiere l'intero ciclo educativo. Per Audrey questo
esperimento educativo autogestito capace di durare per
decenni – la scuola è tuttora operante –
è un vivere l'anarchia che rispecchia bene il suo
modo di agire, un modo nel quale mi sono riconosciuta.
Rossella Di Leo
testo già apparso nel Bollettino dell'Archivio
Pinelli, n.41, 1/2013.
|
|