racconto
La guerra e la palla ovale
di Giuseppe Ciarallo
Dedicato ai giocatori della nazionale italiana di rugby, i quali alla fine del primo incontro del torneo Sei Nazioni 2003, vinto contro il Galles per 30 a 22, hanno fatto un giro di campo sventolando la bandiera della pace.
Caro papà,
ti scrivo in un torrido pomeriggio, reso ancor più rovente
da una febbre che mi brucia dentro.
La guerra è finita, ci dicono, vi dicono, ma nulla è
più lontano da una pace ritrovata di questa assurda situazione
di limbo, di questo disordine strisciante dal quale sento che
non potranno derivare che tragici avvenimenti. La guerra è
finita, dunque. Ennesima bugia raccontata a copertura di un
conflitto nato all'insegna di una menzogna ancor più
grande: il dono della democrazia a un popolo oppresso.
Ma non è solo di questo che volevo parlarti, anche se
nel corso della lettera non potrò non tornare sull'argomento.
Che strano, papà, questa guerra che mi ha fatto diventare
adulto all'improvviso (credevo di esserlo diventato, adulto,
già da tempo ma evidentemente non era così), è
come se avesse annullato di botto tutto il mio passato. Ieri
mi sono tornate in mente immagini che vedevo lontanissime. Tu,
più giovane di una quindicina d'anni, uno sconfinato
prato verde, Anthony e io a macinare metri e metri passandoci,
canonicamente all'indietro, una palla ovale. I primi rudimenti
di un gioco che tu definivi “uno sport bestiale praticato
da gentiluomini”. Anthony ha poi smesso; all'improvviso
si è accorto che in ogni partita rischiava di rompersi
qualche dito o osso della mano, cosa che gli avrebbe impedito
di coltivare l'altra sua grande passione: la musica. Tra il
rugby e il saxofono ha scelto quest'ultimo. Scelta rispettabile,
la sua. Io no, invece. Con tua grande soddisfazione ho continuato
a calpestare i campi verdi, a sudare dietro un pallone che non
ne voleva sapere di farsi agguantare, a calciare tra i pali,
a provare drop su drop, a faticare per il semplice gusto di
farlo, a imparare sulla mia pelle la bellissima filosofia di
questo sport edificante.
Ogni partita è una battaglia, la squadra avversaria è
il nemico al quale, eri quasi ossessivo nel ricordarmelo, non
devi mai dimenticare di portare tutto il tuo rispetto, la tua
squadra è la tua famiglia. Tu e ogni altro tuo compagno,
per quanto bravi possiate essere, non siete nulla uno senza
gli altri. E poi lavorare, lavorare, lavorare, e ancora placcare,
placcare, placcare, aiutare sempre i compagni, rispettare sempre
gli avversari e correre, correre, correre verso la linea oltre
la quale c'è la vittoria. In ogni caso, lealtà
sempre e comunque. Perché, come non smettevi mai di ripetermi,
è mille volte meglio perdere sapendo di aver dato fondo
a ogni tua energia, di aver lottato con totale impegno e onestà,
piuttosto che ottenere una vittoria frutto di comportamenti
poco limpidi, in modo subdolo.
E tu credi che una disciplina del genere si possa tenere solo
in campo, dimenticandola poi appena fuori dagli spartani spogliatoi
dei campetti di periferia? No papà, come ben sai non
è possibile, me lo hai insegnato tu questo, e di ciò
ti sarò grato in eterno. Nella vita di ogni giorno ho
imparato ad applicare le stesse regole. Impegno e dedizione
assoluta in ogni cosa che faccio, disponibilità incondizionata
nei confronti dei miei compagni e considerazione e stima anche
per gli avversari.
C'è una cosa che ci ripetiamo prima di ogni partita:
di fronte ci saranno quindici uomini contro quindici uomini,
anche se a scontrarsi sarà una squadretta di infimo ordine
e i mitici All Blacks; perché l'importante non è
mai l'esito della gara, magari scontata ancor prima del fischio
iniziale dell'arbitro, quanto l'impegno che ognuno dei trenta
giocatori metterà in campo, onorando così i propri
colori, gli avversari, il pubblico e il rugby in generale.
Ma qui, papà, non siamo quindici contro quindici. Qui
sono solo. Solo sul mio aereo e sotto di me città così
piccole da sembrare pannelli di circuiti elettronici smontati
da vecchi computer rotti.
Donne e uomini, vecchi e bambini non se ne vedono. L'esplosione,
le fiamme e il fungo di fumo che vedo sempre sotto di me indicano
che l'obiettivo è stato centrato, proprio come in un
videogioco, e che posso tornare, soddisfatto, alla base.
Ma non funziona così, sai? L'ho imparato a mie spese.
Le case sono proprio case, fatte di mattoni, e del sangue e
sudore di chi le ha costruite dal niente; spesso sono tutto
quello che un uomo possiede, sono scuole, ospedali, teatri,
biblioteche. E la fiammata e la colonna di fumo conseguente
celano e contengono in sé, ben nascosti alla vista, braccia,
gambe, occhi, brandelli di carne che in un solo istante, in
uno schiocco di dita non sono più un corpo, non sono
più vita, non sono più un essere umano con un
nome, un cognome, una data di nascita, non sono più niente,
nemmeno una croce o quello che sono soliti metterci loro, su
un fazzoletto di terra.
Dicevo che qui non ci sono due squadre che si fronteggiano.
Qui c'è un'unica squadra, padrona incontrastata della
partita. La scorsa notte ho sognato di essere su un campo di
rugby bellissimo (come vedi pure i miei sogni hanno forma ovale),
verde come non ne avevo mai visti prima. Nella mia bianca uniforme,
pallone ben stretto sotto il braccio, guardavo i miei avversari
fissarmi con odio nelle loro divise sporche e lacere, schierati
in due file perpendicolari alla linea di metà campo,
come se invece di opporsi al mio attacco mi invitassero a passare
tra loro come accolto tra due ali di folla. I loro non erano
volti fieri e combattivi, ma quelli di persone vinte, umiliate
e passando accanto a loro potevo vedere la ragione di quello
scoramento: le caviglie di ognuno erano incatenate al terreno
di gioco. Nessuno di loro, anche volendo, avrebbe potuto muovere
un dito per impedirmi di andare a segnare la mia meta. Nonostante
questo, avanzando fresco come una rosa nel bel mezzo di quelle
forche caudine al contrario, senza versare una sola goccia di
sudore né minimamente sporcare la mia candida divisa
andavo a schiacciare il pallone proprio in mezzo ai pali. Dopodiché
mi chinavo a raccattare la palla, la ponevo con cura sul terreno,
strappavo un ciuffo d'erba lasciandolo poi cadere al suolo nell'atto
di misurare la forza del vento, infine sparavo un calcione centrando
perfettamente i pali. Dunque, senza nemmeno guadare in faccia
gli avversari, trotterellavo verso gli spogliatoi per l'inutile
e immeritata doccia.
Bene, papà. È proprio quello che stiamo facendo
noi, qui, ora. Stiamo giocando senza avversari. I pochi missili
che avevano, glieli abbiamo fatti smantellare con la minaccia
di un intervento armato che in seguito c'è comunque stato.
Mai nessun fine stratega militare del passato si era spinto
così in là, giungendo a conclusioni, è
proprio il caso di dirlo, così disarmanti: togliere all'avversario
qualsiasi possibilità di difesa prima di colpirlo duramente.
Chapeau!
Tu sai, caro papà, con quanto entusiasmo e convinzione
ho aderito inizialmente a questa guerra. Credevo veramente che
l'ennesimo, feroce tiranno di questa terra incantevole e spietata
fosse una minaccia per tutti noi, desideravo con tutto me stesso
che i bambini di questo paese ricominciassero a vivere la normale
esistenza a cui ogni essere umano ha diritto, ero sicuro che
il pazzo sanguinario nascondesse armi chimiche, ma evidentemente
sono stato imbrogliato, insieme a tutti voi, dalla propaganda
martellante dei nostri potenti governanti. Sì perché
figuriamoci se, perso per perso, il tetro macellaio che qui
ha il supremo potere di vita e di morte, avrebbe esitato a utilizzare
le sue tanto sbandierate armi di distruzione di massa. Non le
ha usate semplicemente perché non le aveva.
E anche se un giorno ci verranno a raccontare che in un hangar
sperduto in una sperduta località segreta è stato
trovato materiale chimico e bla bla bla, noi non crediamoci,
perché chi ha mentito una volta è capace di mentire
dieci, cento, mille altre volte. Di armi di distruzione di massa
qui ce ne sono a bizzeffe, ma le abbiamo noi e abbiamo dimostrato
di saperle usare senza scrupolo alcuno.
Il nemico, dicevo. Il nemico visto come qualcuno da rispettare.
E questo reciprocamente. Ma quale rispetto posso suscitare io,
che vigliaccamente, senza nulla rischiare sgancio bombe a grappolo,
vietate da ogni convenzione internazionale, su mercati, scuole,
ospedali perpetuando la spirale di morte e odio sulla quale
pochi personaggi senza scrupoli, millantando una pulizia morale
che davvero non appartiene loro, hanno deciso di fondare la
vita dell'intero pianeta da qui alla fine dei nostri giorni?
Io me li ricordo i nemici di cui avere paura, e ne provo una
nostalgia senza fine. Nei due anni in cui ho avuto la fortuna
e l'onore di indossare la maglia della nazionale del mio Paese,
prima dell'infortunio al ginocchio, io, appena diciannovenne,
ne ho visti di sguardi fieri, di occhi brillanti d'orgoglio,
di petti che si gonfiavano già alle note degl'inni. Puoi
star certo, papà, che trovarsi di fronte quindici colossi
completamente di nero vestiti, che si muovono compatti nella
loro danza di guerra, che urlano col dichiarato proposito di
intimorire l'avversario, e ti posso assicurare che raggiungono
sempre il loro scopo, be', quello fa veramente paura! Sapere
che dopo qualche minuto la tua forza, il tuo carattere, la tua
determinazione andrà a scontrarsi con centoventi chili
di muscoli e risolutezza, questo sì che può mettere
agitazione, sicuramente più che salire su un aereo, volare
indisturbati per una mezz'oretta, liberarsi di un fastidioso
carico di morte e più leggeri tornare placidamente alla
base.
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Manifesto di arruolamento dei giocatori di rugby britannici. “L'unione dei giocatori di rugby fa il suo dovere con oltre il 90% di arruolamenti. Atleti britannici, seguirete questo glorioso esempio?” |
Tutto stabilito, tutto perfettamente e tecnologicamente studiato,
senza la benché minima possibilità di errore.
Non è questo che mi aspettavo. Non è questo che
volevo io, che ho deliberatamente preferito al rotolare tondo
e preciso di un pallone da calcio, il rimbalzo sghembo e imprevedibile
della palla ovale. Nell'esistenza di un uomo nulla è
lineare, i problemi così come le gioie arrivano sempre
all'improvviso, quando meno te li aspetti, e la vita assomiglia
spesso a una palla che ti rimbalza storta tra le mani e rischia
di schizzarti via come una saponetta. È per questo che
amo il rugby, per il magico miscuglio di abilità e fortuna
necessari per cercare di addomesticare il rimbalzo strambo di
un pallone che sembra animato di vita propria quando, insolente
e beffardo ti fa tuffare a destra, per agguantarlo, mentre in
cuor suo ha deciso già da prima di rotolare dalla parte
opposta.
Ma quello che più mi manca, papà, è quella
leggerezza che stempera le più coriacee regole scritte
e non scritte del rugby, che anzi le fortifica confermando l'umanità
di uno sport che solo sport non può essere senza trasformarsi
in qualcosa di più importante: un vero e proprio stile
di vita. Mi riferisco a quello che tra di noi chiamiamo il terzo
tempo. Il dopo partita, la serata nei pub passata a far scorrere
fiumi di birra, bionda, rossa, scura, come biondi, rossi, scuri
e senza distinzione di lingua e nazionalità sono i giocatori,
amici anche se avversari fino a qualche ora prima. E non è
raro che il marcantonio col quale hai fatto a cazzotti in campo
sia poi quello con cui più fraternamente conversi in
birreria, raccontando e ascoltando di punti di sutura, ecchimosi,
fratture da mostrare come medaglie al valore esibite da soldati
alticci. Il tutto però ridendo a crepapelle, senza essere
obbligati a prendersi troppo sul serio.
Qui un terzo tempo non è possibile, papà. Non
posso andare a bere un bicchiere in allegria con quelli ai quali
ho distrutto la casa, ho ucciso un figlio o un padre. Non siamo
liberatori, noi, siamo portatori di disgrazie, né più
né meno di quanto ha fatto fino a oggi il despota al
potere col suo popolo martoriato. La democrazia non si può
imporre, è un lampante ossimoro, questo. La libertà
non si può sganciare dall'alto, da un aereo da caccia.
La libertà la si conquista con l'impegno personale, con
il sangue, il sudore e le lacrime, con il vigore delle proprie
idee, con l'orgoglio delle proprie convinzioni, con la lealtà
anche e, qualora necessario, con un bel placcaggio deciso.
Ricordi cosa diceva Oscar Wilde parlando del rugby? Che è
un'ottima occasione per tenere lontani trenta energumeni dal
centro della città! Quante risate per questa buffa definizione.
Bene, cosa bisogna inventarsi, oggi, per tenere lontane le innumerevoli
belve assetate di sangue fresco dalle nostre città, dalle
città di tutta la Terra?
Non so se riuscirò a trovare di nuovo il coraggio di
scendere in campo, e incrociare con fierezza lo sguardo di un
giocatore avversario; io che leale non sono stato, colpevole
anche se non del tutto conscio, pur sempre complice di un modo
di intendere il mondo diametralmente opposto a quello che credevo
essere il mio modello.
Non so se saprò ancora calciare la mia palla tra le altissime
torri gemelle dei due pali, giusto in mezzo, senza nemmeno sfiorarle
e crear danni. Tutto questo mi ha tolto la guerra, papà,
e come ben sai non è poco.
Nelle orecchie ho sempre le parole della haka neozelandese che
oramai ho mandato a memoria (ka mate, ka mate, ka ora, ka
ora, tenei ta tangata, ruhuru huru. Nga na i tiri mai, whaka
whiti te ra. A haupani, a haupani, a haupani, kaupani whiti
te ra... È la vita, è la vita, è la
morte, è la morte. Risaliremo di nuovo la scala della
vita), negli occhi ho ancora i gesti terribili dei guerrieri
maori vestiti di nero perché, così si dice, portano
il lutto per i nemici che sconfiggeranno.
È strano, papà, nel rugby avevo nemici che amavo,
in questa sporca guerra ho scoperto di avere solo “amici”
che odio.
A presto
Edward |