Luigi Veronelli, gastronomo anarchico
di Andrea Bonini
La sua bussola è stata la difesa della millenaria civiltà contadina, non per gusto della tradizione o per nostalgia, ma in quanto forma possibile di sensibilità planetaria, alternativa al consumo predatorio di mondo e di relazioni.
Luigi Veronelli era uno di quegli uomini che raramente il caos-caso regala al mondo, uomini che sembrano essere arrivati al nostro tempo attraverso strade minori e poco battute della storia. Giornalista, scrittore e gastronomo, prendeva maledettamente sul serio il suo mestiere. Riteneva d'avere il preciso dovere dell'onestà nei confronti dei suoi lettori, rifiutando a priori ogni calcolo di convenienza.
Un giornalista rigoroso che si è occupato per cinquant'anni di vino e di cibo: non è una contraddizione? No, se si riconosce il critico come punto di vista terzo tra chi produce e chi acquista e assaggia, come qualcuno in grado di sollecitare, provocare, indirizzare l'uno e l'altro a vini e cibi di qualità. Perché, come Veronelli scrisse, “vivere, anche bere, anche mangiare, è pensare-pesare le qualità e separare il bello dal brutto, il buono dal cattivo, il vero dal falso“.
Esercizi di liberazione
Veronelli si definiva anarchico, ma cosa c'è di anarchico nell'assaggio di un vino o di un piatto? Gli uomini di potere da sempre utilizzano le bevande, la cucina e i riti della tavola per ribadire la loro gaudente estraneità all'indigenza e alla fame. La gastronomia si occupa degli atti alimentari, di qualunque tipologia, in quanto fatti culturali, parti di discorsi sul mondo. La complessità e la varietà dei discorsi, le dinamiche economiche che sottendono richiedono - a chi vi si accosta con serietà - una presa di posizione politica. Esercitare la sensibilità - dei sensi e dell'animo che scrive, indifferentemente - può quindi diventare un momento di liberazione.
Il contributo di Veronelli alla storia dell'agricoltura, del vino e della cucina è difficilmente calcolabile, anche perché la sua opera di giornalista scrittore è immensa e, purtroppo, non ancora riunita in un'antologia. Impossibile, poi, valutare l'impatto di decenni di corrispondenza con gli operatori del settore e con i lettori. Ristoranti di altissimo livello hanno costruito la loro filosofia di lavoro, la loro estetica e la loro fama grazie alle frequenti visite e ai consigli di Veronelli. Grandi vini sono nati da una sua suggestione o da una sua esplicita richiesta, moltissimi hanno ottenuto visibilità internazionale grazie a un suo scritto.
Più che conteggiare i singoli meriti - e gli errori, naturalmente - ha senso osservare come le vicende sociali abbiano attraversato l'attività del più grande degustatore del Novecento. La sua storia di “assaggiatore che scrive“ ebbe inizio nel 1956, quando, accanto a testi filosofici legati alla formazione universitaria, la neonata Veronelli Editore pubblicò Il Gastronomo, rivista di letteratura gastronomica diretta dallo stesso Veronelli. Con l'eredità torbida dell'immaginario fascista di un'agricoltura di massa, ma anche con il moralismo cattolico che si andava consolidando come potere politico, il trentenne Veronelli fece subito i conti pubblicando Proudhon, De Sade e D'Annunzio, ponendo così le basi della prospettiva individualista che non avrebbe mai abbandonato. Sono però anche gli anni della rivista I Problemi del Socialismo, edita da Veronelli e diretta da Lelio Basso, un laboratorio politico per il rinnovamento del PSI in senso antistalinista, a testimoniare la volontà di dare alle idee una concretezza sociale.
Questi pochi titoli tratti da un catalogo degli anni ‘50 riescono da soli a suggerire la complessità della figura di Luigi Veronelli, il suo genio e le sue contraddizioni. Il riconoscimento della gastronomia come parte integrante della cultura “alta“ fu, sin dall'inizio, un punto fermo del suo approccio: nella prima opera dedicata ai vini d'Italia, 1961, chiamò a introdurre il patrimonio vitivinicolo delle singole regioni i maggiori scrittori italiani dell'epoca e sottolineò con riproduzioni a colori di nature morte le indicazioni sull'abbinamento cibo-vino. Al contrario, le due anime di quel primo catalogo - quella politica e quella gastronomica - troveranno una sintesi solo molti anni dopo.
Dal 1963, conclusa la sua prima esperienza di editore, Veronelli si dedicò alla scrittura e alla curatela di opere gastronomiche, quindi a quella carriera di giornalista e divulgatore televisivo che lo rese personaggio notissimo nell'Italia “in bianco e nero“. Decenni di lavoro - oltre 200 i libri pubblicati, migliaia gli articoli - che accompagnarono l'affermazione del vino e della cucina italiani nel mondo.
Le radici di un progetto
Negli anni '90 il contenuto politico delle idee veronelliane
trovò in Marc Tibaldi - intellettuale e caporedattore
di Veronelli EV, bimestrale della nuova Veronelli Editore -
un interlocutore in grado di riconoscere nella terra che Veronelli
camminava e raccontava da decenni la terra su cui da sempre
si giocano la liberazione e il dominio degli esseri umani, le
loro vicende storiche e sociali. Di più, la stessa terra
divenuta paradigma biopolitico del nostro tempo. Il dialogo
tra Veronelli, Marc e alcune realtà di movimento fu intenso
e portò alla nascita, 2003, del “progetto connetivo“
t/Terra e libertà/critical wine di cui Veronelli
fu parte attiva e ispiratore. Il contadino e l'assaggiatore
- figure mitiche dell'immaginario veronelliano - si scoprirono
parti d'un sistema capace non solo di generare conflitto, ma
anche di “sperimentare l'utopia“ attraverso forme
felici di produzione e di relazione. La nuova centralità
politica del nodo terra e la produzione teorica del connettivo
permisero a tutti, per la prima volta, di cogliere la profondità
delle “intuizioni irrisolte“ veronelliane, delle
sue coraggiose prese di posizione.
“Il produttore di vino non può essere un industriale“,
scrisse Veronelli nel 1961 ne I Vini d'Italia (Canesi
Editore). Avrebbe poi scritto e ripetuto centinaia di volte
ciò che i suoi sensi verificavano ad ogni assaggio: “il
peggior vino contadino è migliore del miglior vino d'industria“.
Quarant'anni dopo, TLCW sviluppa così quelle frasi semplici
e radicali: “I prodotti industriali agroalimentari sono
nient'altro che il simulacro macchinico della vita, l'effetto
della distruzione delle relazioni sociali in agricoltura e il
surrogato sintetico dello scambio uomo-natura. [...] Il macchinismo
contro cui ci battiamo è il divenire macchina della vita“.
Soltanto un esempio di come, concetto dopo concetto, le due
anime di Luigi Veronelli trovarono finalmente una sintesi all'interno
del percorso collettivo che Gino - da sempre assaggiatore giudice
monocratico, battitore libero e orgoglioso - condivise e sostenne
negli ultimi anni di vita.
Il punto di vista politico non è certo l'unico dal quale
l'opera veronelliana può essere letta, tuttavia è
impossibile ricordare Luigi Veronelli senza ricordare anche
la sua sensibilità anarchica. Il pubblico rogo imposto
nel 1961 dal tribunale di Varese alla sua edizione dell'opera
di De Sade e la condanna a tre mesi di carcere, la denuncia
per “blocco stradale aggravato“ ricevuta nel 1980
per essersi messo al fianco dei viticoltori astigiani in mobilitazione,
la “Giornata della disobbedienza vignaiola“ promossa
del 1993, l'occupazione del porto di Monopoli nel 2004 sono
momenti imprescindibili della sua vicenda umana, politica e
professionale.
Riletti oggi i suoi scritti non hanno perso la loro carica provocatoria,
pieni di intuizioni teoriche che Veronelli non si è mai
curato di motivare o approfondire, tanto meno di riunire in
un metodo o in una teoria. La sua missione è stata, piuttosto,
quella di difendere una civiltà contadina millenaria,
marginalizzata socialmente, culturalmente e politicamente, quindi
a rischio d'estinzione. L'ha difesa non per gusto della tradizione
o per nostalgia, ma in quanto forma possibile di sensibilità
planetaria, alternativa al consumo predatorio di mondo e
di relazioni. Lo ha fatto raccontandone l'umanità, la
capacità di creare momenti di bellezza e di condivisione
concentrati in una bottiglia o in un piatto.
Se “il vino è un valore reale che ci dà
l'irreale“, il vino e le idee di chi lo ha amato, studiato
e descritto sono più che mai necessari perché
i paesi di domani siano davvero visioni di anime contadine.
Andrea Bonini
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