Le occasioni mancate con Gino
di Orazio Gobbi
Numerosi giovani hanno intrapreso il ritorno alla coltivazione della terra con la consapevolezza e il coraggio che derivano loro dagli insegnamenti di Veronelli. E questo non è poco...
Devo confessare che scrivere di Luigi Veronelli suscita in me apprensione ed emozione. Apprensione dovuta al fatto che io non ho condiviso con lui collaborazioni professionali o editoriali o momenti di festosa fratellanza enoica. A questo va aggiunto che nel variegato mondo della critica enogastronomica molti si dichiarano a torto o a ragione suoi allievi. Io non posso “vantare” nessuna conoscenza personale di Veronelli, nonostante lo abbia visto in diverse occasioni nel corso degli ultimi trent'anni. L'ultima volta nel dicembre 2003, l'anno prima della sua scomparsa, durante il Critical Wine al Leoncavallo di Milano. L'emozione invece fa riferimento alle occasioni mancate, perché più il tempo passa e più mi rammarico di non avere mai avuto occasione di conversare con lui, di bere un buon vino in sua compagnia.
Questa mancata occasione ha impedito che si realizzasse il mio desiderio di conoscere Gino e ha reso un po' più orfana, per così dire, l'attività di enotecario che ho svolto con passione nel periodo che ha seguito il grande riflusso movimentista degli anni '70. Tuttavia credo di avere delle buone ragioni per affermare di avere appreso la sostanza più vera dell'insegnamento di Veronelli. Egli è stato per me e per quelli della mia generazione che hanno coltivato l'interesse per i vini, i cibi, la cultura alimentare un maestro, direi quasi una figura paterna. I primi ricordi che ho di Gino si confondono con quelli della mia giovinezza. Allora con mio padre, nei tempi sottratti al suo lavoro operaio, andavamo nella nostra vecchia casa in campagna, pigiavamo l'uva bianca e rossa acquistata da un amico vignaiolo, poi travasavamo il vino e lo imbottigliavamo.
Al mio caro padre devo anche la consuetudine, all'inizio degli anni '70, di vedere sulla Rai-Tv la trasmissione di cucina A tavola alle sette condotta dalla coppia Ave Ninchi e Luigi Veronelli. Diversamente da mio padre, che era più attratto dalla prosperosa e simpatica genuinità di Ave Ninchi, io ero più incuriosito dalla presenza di Veronelli. Mi piacevano i modi garbati e signorili che aveva di presentarsi, ero affascinato da come teneva nella mano il bicchiere di vino, da come l'osservava e l' annusava con quel suo nasone a patata che sorreggeva occhiali dalle spesse lenti. Beh, uno così, pensavo un po' ingenuamente, deve per forza saperne di vino.
Le presenze televisive ne ampliarono la notorietà verso il grande pubblico, ma nel mondo dell'informazione e della critica enogastronomica si era già da tempo ritagliato il ruolo di grande comunicatore e polemista. Tra la fine degli anni '70 e l'inizio degli '80 lo vidi condurre altre trasmissioni televisive (Viaggio sentimentale nell'Italia dei vini, La meridiana), sempre attento a discutere di vino, di fatica contadina, di cultura alimentare. E con la stessa disinvoltura, curiosità, passione, come fosse la prima volta. Venne in seguito progressivamente emarginato dalla televisione per le sue posizioni anticonformiste e per essersi più volte dichiarato anarchico: “Proprio perché anarchico e disobbediente, non ho più spazio reale nei mezzi televisivi se non per qualche breve intervista” e da allora le sue apparizioni in TV furono sempre più sporadiche. Le sue prese di posizione ne rispecchiavano l'etica libertaria, lo spirito critico e il gusto della polemica corrosiva. Utilizzava la provocazione non per civetteria personale ma per visione lungimirante: “È migliore il peggiore vino contadino che il migliore vino d'industria” oppure: “I grandi vini sono puri, razionali ed armonici quindi, per definizione, anarchici”. Sapeva guardare lontano nonostante l'incipiente cecità. Se confrontiamo gli apporti culturali e professionali espressi da Veronelli nelle conduzioni televisive con le trasmissioni dedicate all'enogastronomia degli odierni schermi televisivi possiamo valutare l'abisso che separa due modi di fare informazione: nel primo caso abbiamo sapienza, spirito critico, sobrietà; nel secondo caso assistiamo allo spettacolo bulimico di tristi personaggi, alla passerella autocelebrativa di conduttori, chef, giornalisti e pubblico precettato.
Lungimirante
Sembra di sentirlo il buon Gino chiosare come “programmazione
emmerdosa” quello che passa oggigiorno sul televisore
e non possiamo che confermare questo giudizio. Veronelli utilizzava
i mezzi d'informazione per divulgare una nuova cultura legata
al cibo e al vino, i mass-media erano per lui l'occasione di
richiamare alla necessità urgente di cambiare rotta nei
consumi alimentari di massa. Attaccava il ruolo contorto dell'industria
alimentare moderna, la massificazione dei consumi, gli OGM,
l'agricoltura intensiva e l'uso predatorio della terra condotta
dalle multinazionali. In tal senso è stato un antesignano
delle istanze No-global, o New-global se si preferisce. In comune
con Pierpaolo Pasolini, Veronelli ha offerto preziose riflessioni
sulle condizioni sociali del mondo contadino alla luce della
modernità industriale, ha messo in risalto gli aspetti
controversi dell'agricoltura e della cultura materiale contadina
del dopoguerra. Nei primi anni '80 trovai casualmente in una
libreria un'antologia di scritti di Pierre J. Proudhon pubblicata
nel 19571, il volume aveva impresso
in copertina la scritta Veronelli editore. Nel commento
introduttivo all'autore francese Veronelli scriveva: “Queste
pagine dovrebbero ripagare in parte all'ingiustificato oblìo
in cui egli è spesso tenuto dai lettori moderni, specialmente
in Italia”. Così, venni a sapere che Gino aveva
svolto negli anni giovanili l'attività di editore e questa
impresa rappresentava per lui la prosecuzione della formazione
umanistica e politico-filosofica acquisita negli studi universitari.
Nel '57 oltre a Proudhon pubblica un libello del Marchese De
Sade2, autore maudit per
i benpensanti dell'epoca. Veronelli è costretto a subire,
oltre che l'accusa di oscenità da parte dell'autorità
giudiziaria, anche il sequestro di tutte le copie del libro
reperibili sul mercato e la loro messa al rogo nel cortile della
questura di Varese. Era l'inverno del 1961, pare sia stato l'ultimo
rogo di libri nel nostro Paese.
Con descrizioni sempre innovative
Negli stessi anni pubblica periodici di gastronomia (Il
gastronomo), di filosofia (Il pensiero) e la rivista
di analisi teorico-politica Problemi del socialismo fondata
e diretta da Lelio Basso, antifascista, membro della Costituente
ed esponente di rilievo del socialismo critico nel secondo dopoguerra.
Ma Veronelli utilizza l'editore Canesi di Roma per pubblicare
il suo primo repertorio dei vini italiani3,
un opera fondamentale di ricognizione della geografia enologica
del nostro Paese. Questo libro, riletto oggi, risulta particolarmente
significativo se consideriamo la bibliografia reperibile all'epoca
sull'argomento. Contiene una descrizione innovativa dei caratteri
organolettici dei vini italiani e soprattutto esprime il nuovo
lessico enologico veronelliano, una modalità fino ad
allora inedita di raccontare i vini.
Nella seconda parte del novecento altri autori si sono cimentati
con passione al racconto dei vini italiani4,
tuttavia credo che Veronelli abbia incarnato più di ogni
altro il principio significante del termine enologo,
beninteso se decliniamo questa parola alla sua origine etimologica
di oinos e di logos cioè di colui che discorre,
studia, parla (o scrive) di vino. Sappiamo tuttavia che il termine
enologia nel linguaggio comune viene confuso o ritenuto
equivalente a quello di enotecnica, la disciplina scientifica
che studia le trasformazioni del mosto d'uva, che pratica la
stabilizzazione e conservazione del vino e infine redige un
lessico uniformante per degustarlo e giudicarlo. La problematica
che ne deriva investe dunque i confini tra enologia ed enotecnica.
Per quel che sappiamo, Veronelli non ha mai demonizzato l'apporto
scientifico alle pratiche enologiche. Sosteneva però
che l'applicazione della scienza enologica non dovrebbe mai
modificare, per ragioni industriali o commerciali, i caratteri
naturali e peculiari dei vini. L'enologia dunque come risultante
empirica di sapienza e di esperienza, come pratica che sa prendersi
cura dei vini, della loro origine e sanità, della loro
integrità e capacità di affinarsi ed evolversi
nel tempo. E così anche in viticoltura la ricerca scientifica
deve mirare a sostenere e migliorare il vivente organico
del terreno e del vigneto, deve contribuire a preservare gli
elementi naturali che sono propri di un Terroir: il microclima,
la vegetazione, il vigneto, l'uva5.
Veronelli sostenne numerose polemiche rivolte contro i tecnici
del vino, i moderni wine-makers asserviti alle mode e
ai brands commerciali dell'industria vinicola e delle
multinazionali del settore.
Con ironia e sorpresa
Ricordo, prima ancora che fosse in voga la moda dei vini/frutto6,
le polemiche rivolte alle scuole di formazione enotecnica, accusate
di forgiare specialisti che avrebbero standardizzato il gusto
dei vini, così come stava avvenendo per i cibi nell'industria
alimentare. Anche in questo caso Gino fu lungimirante. Gli ultimi
vent'anni hanno visto il mercato del vino invaso da prodotti
che ricercano la perfezione tecnica e la piacevolezza immediata,
ma risultano tra loro molto simili, standardizzati. Sono prodotti
che una certa enotecnica, ruffiana e disinvolta, ha modellato
per soddisfare il Gusto-Comune-Medio. Senza distinzione
e senza personalità questi vini possono essere prodotti
in ogni parte del Pianeta7.
Viceversa Veronelli si poneva in ascolto della natura unica
e intima del vino che nasce nella vigna elettiva o per volontà
caparbia del vignaiolo. Perché il vino è memoria
di paesaggi e di persone, di incontri e di amicizie e quando
il vino invecchia, e noi invecchiamo con lui, puoi coglierne
il racconto degli anni passati in bottiglia8.
Scrive Veronelli a questo proposito: “Ogni vino bevuto
ha il suo racconto. Mio proposito renderne facile l'ascolto
e la comprensione a te, lettore che ami il vino, che mi leggi,
e sei disposto a riconoscerlo amico. Il vino è insomma
un valore reale che ci dà l'irreale”. In oltre
cinquant'anni di attività ha dovuto fare i conti con
il conformismo culturale presente nel nostro paese, adoperandosi
costantemente con precisa volontà, per elevare
la cultura enologica nel nostro Paese.
Nel corso di questa sua lunga attività ha ricoperto con
passione e dedizione la figura di giornalista e di scrittore,
di editore e imprenditore di se stesso. Sono tuttavia del parere
che il sovrapporsi di questi ruoli gli abbia leso, in taluni
casi, sotto il profilo dell'integrità intellettuale e
abbia prodotto esiti contraddittori9.
È stato fatto osservare, giustamente, che l'eredità
culturale di Veronelli deve essere “distribuita”,
che non può essere appannaggio di nessuno in particolare10.
Ciononostante credo che egli abbia indicato con la Lettera
ai giovani estremi i destinatari più autentici
della propria eredità.
La Lettera è apparsa su A rivista anarchica
nel febbraio 1999 ed è preceduta da un appello: “Ai
Centri sociali e ai circoli anarchici di dedicarsi alle colture,
oltre che alle culture”. Lessi l'appello con ironia e
sorpresa, perché avevo sperimentato quanto fossero di
pessima qualità, fino ad allora, i vini consumati negli
spazi sociali autogestiti, perlomeno quelli che mi era capitato
di frequentare. Veronelli nella Lettera motiva così
la scelta di rivolgersi ai giovani estremi: “Tu, giovane,
fai opera di eversione e di sovversione, esigendo per te e per
i tuoi compagni, la qualità. [...] Ho avuto modo per
la loro civile frequentazione, di conoscere meglio, tra i giovani,
alcuni impegnati nei Centri Sociali e nei Circoli Anarchici.
Li ho trovati coraggiosi, propositivi, dialettici, attenti ed
esigenti. Penso che siano i soli a poter svelare e rendere evidente
agli altri giovani, il tentativo in atto contro di loro, in
quanto contro la libertà e la terra”. Nei tormentati
anni che stiamo vivendo, che vedono il tentativo di molti giovani
di districarsi nel mercato del lavoro precario, le speranze
contenute nel testo della lettera stanno vedendo significative
possibilità di realizzarsi. Ne siamo testimoni: numerosi
giovani hanno intrapreso il ritorno alla coltivazione della
terra con la consapevolezza e il coraggio che derivano loro
dagli insegnamenti di Veronelli. Nel panorama desolante della
nostra epoca sono segnali libertari che vanno raccontati.
Orazio Gobbi
Note
- Pierre Joseph Proudhon La questione sociale antologia
di scritti a cura di Luigi Veronelli; traduzione di Mario Bonfantini;
Veronelli Editore, Milano 1957.
- Marchese de Sade Storielle racconti e raccontini a
cura di Luigi Veronelli; traduzione di Pino Bava; illustrazioni
di Alberto Manfredi; Veronelli Editore Milano 1957.
- Luigi Veronelli I vini italiani, Canesi Editore Roma
1961.
- Non sono numerosi gli scrittori che fino agli anni '70 del
'900 si sono cimentati nel racconto dei vini italiani;
voglio citare in particolare Paolo Monelli, Piero Accolti ma
soprattutto Mario Soldati con il suo epistolario: Vino al
vino, terzo viaggio, alla ricerca di vini genuini; Arnoldo
Mondadori Editore Milano 1976. Il volume viene dedicato dall'autore
a Luigi Veronelli.
- Un bell'affresco degli elementi che compongono il Terroir
ci viene offerto dal libro del vignaiolo Corrado Dottori: Non
è il vino dell'enologo, lessico di un vignaiolo che dissente;
Derive Approdi Editore Roma 2012. Dottori è anche uno
dei vignaioli protagonisti del film-documentario Resistenza
Naturale girato nel 2013 dal regista Jonathan Nossiter.
- I descrittori fruttati sono parte rilevante nella degustazione
dei vini, ma quando essi diventano il paradigma assoluto per
giudicarne qualità e tipicità siamo allora di
fronte all'ossessione del vino/frutto. Portatori insani di questa
imperante moda enologica sono numerosi produttori e tecnici
del vino, wine-makers e giornalisti di mezzo mondo.
- Il quadro desolante della standardizzazione del gusto dei
vini è stato illustrato dal già citato regista
franco/brasiliano Jonathan Nossiter con il suo film-documentario
Mondovino, la guerra del gusto. Al suo apparire nel 2004
il film scatenò dibattiti e polemiche che tutt'ora hanno
riscontro nell'ambiente enologico e non solo.
- Per l'enologo appassionato seguire la fase evolutiva dei vini
rappresenta uno degli aspetti più affascinanti. Ci sono
vini che si apprezzano giovani, franchi ed esuberanti. Altri
vini hanno bisogno di alcuni o di molti anni passati in bottiglia
per esprimersi al meglio. Quando i vini raggiungono la loro
apoteosi gustativa si concedono alla nostra meditazione
(neologismo veronelliano).
- Un profilo biografico disincantato di Gino Veronelli dovrebbe
tenere conto anche di alcuni aspetti contraddittori emersi nel
corso della sua lunga attività. Questo scritto non li
ha presi in esame solamente per limitatezza di spazio, non per
censoria omissione.
- “L'eredità distribuita” di Veronelli
è una bella definizione espressa da Angelo Pagliaro
in una lettera apparsa
su A rivista anarchica nell'aprile 2007.
continua
a leggere il dossier
|