Beni comuni, luoghi comuni
di Massimo Angelini
Ecco due tra gli argomenti principali che appassionavano il Gino e che sono stati alla base della nostra amicizia e proficua collaborazione.
Era la sera del 12 ottobre 2000, quando per la prima volta, nel ristorante di Bacci Parodi, all'Acquasanta di Genova, incontravo Gino. Parlavamo di una varietà locale di patata - la Quarantina Bianca - che quasi vent'anni prima avevo trovato tra le pieghe dei miei monti dietro Genova, e nel tempo, piano piano, avevo incoraggiato a recuperare e fare rinascere. Dove uno spirito non informato potrebbe leggere “patata”, noi di questo entroterra in filigrana leggiamo: piccola economia; riscatto per chi lavora col fiato corto su terrazze grandi, a volte, poco più che scalini; autonomia nel rigenerare le proprie varietà senza pagare dazio a istituti, università, scienziati; orgoglio di contadini che imparano a non vergognarsi del lavoro più importante, quello che dà da mangiare a tutti. E tutto questo Gino lo capiva; ah, se lo capiva! Ed è per questo che, dopo un contatto telefonico disarmante nella semplicità delle sue risposte, era sceso a Genova per assaggiare una patata e parlarne. Ci vedeva già poco, ma - coltello in mano - sapeva distinguere al taglio una pasta grossolana da una fine. Aveva occhi quasi spenti, ma vedeva lontano.
Poi siamo diventati amici. Gli piaceva come parlavo della terra e che nel parlarne m'impegnavo a portare la testa nel cuore. Sapeva che non stavamo scemeggiando al gioco della degustazione fine a se stessa, a fare gli intenditori della piacevolezza e del vivere da buongustai, ma che in ballo c'erano orgoglio di gente comune e piccola economia, qualche volta spinta poco oltre i margini della sussistenza. Così aveva iniziato a sollecitarmi riflessioni da condividere su EV, il suo diario-rivista, nella libertà di chiamare pane il pane e biasimare chi chioccia sul mondo contadino arrotando la erre con la sciarpetta al collo.
Niente banalità
Nel 2001, mancavano sette giorni al G8, avevo desiderato per Genova un lungo incontro di due giorni sul tema dei luoghi comuni. Questa parola è ambigua e me ne spiace: ma dicendo “luoghi comuni” non parlo delle banalità; parlo degli spazi materiali, giuridici, simbolici la cui titolarità è nell'orizzonte delle comunità e di chi in una comunità vive, ha vissuto e di chi sarà per viverci: si chiama compresenza. Luoghi comuni: sono quelli che non appartengono a un privato né al pubblico delle istituzioni, quelli della gente, inalienabili per loro intima natura, e che per loro intima natura non si possono vendere, limitare, vietare. Spazi che hanno a che fare con ambiti pregiuridici, come quelli della sussistenza, del gioco, della preghiera, della festa, e che, pertanto nessuna espressione del diritto può legittimamente condizionare o interdire senza rivelare la propria incompetenza o scivolare nell'assurdo.
Luoghi comuni: oggi stretti nella morsa mortale di diritto pubblico e diritto privato, confinati nell'oblio del diritto comunitario, in un tempo dove la stessa parola, “diritto comunitario” ha il significato capovolto, perché riferita all'Europa, non alla comunità. L'incontro s'intitolava “Risveglio. Della terra e della cultura locale”. Non un convegno: liturgia di Ottocento e di accademia; ma molti seminari contemporanei dove, mattina, pranzo e pomeriggio, si stava con un maestro, nella conversazione, senza dialettica. Maestri: avevo invitato Ivan Illich dal Messico, con lui era stata condivisa per giorni la forma dell'incontro; Jean-Marie Pelt dalla Francia, autore de “L'orto di Frankestein”; Hope Shand dal Canada, tra le prime a denunciare la brevettazione delle sementi; Teodor Shanin dalla Russia, che dirigeva della Scuola di Scienze sociali di Mosca... che meraviglia! E il giorno dopo, a tavola, anche Gino. E adesso tu che leggi prova a immaginare (io lo conservo negli occhi come una buona fotografia): allo stesso tavolo, commensali uno a fianco all'altro, Luigi Veronelli, Ivan Illich e Giovanni Rebora, eretici della cultura come pochi altri hanno saputo essere. A Gino non piacevano le banalità, ma i luoghi comuni sì, e anche lui era venuto volentieri a ragionarne con noi. Sette giorni dopo, a Genova sarebbe scesa la notte.
Parla stanco, ma chiaro
Scambiavamo lettere, scambiavamo visite. Lui alle nostre tavole
contadine, io nei centri sociali dei Critical Wine; così
fino al primo autunno del 2004, Mandillo dei Semi: festa delle
varietà e dei prodotti contadini (ché non tutti
gli agricoltori lo sono). È stata l'ultima volta che
ci siamo incontrati: si parlava ancora di biodiversità,
di mondo contadino, della “Pomona” di Giorgio Gallesio.
Qui - https://www.youtube.com/watch?v=I5wycjImmdM
- ne è rimasta una traccia, dove rivedi e risenti Gino
che parla stanco, ma parla chiaro.
Tra il 2001 e la fine di EV (novembre 2004), quando Gino si
è addormentato, mi ha dato ospitalità sulla sua
rivista cinque, sette, otto volte: non ricordo più, non
ne tengo il conto; e di quel frattempo, tra lettere e incontri,
ne ricordo nitide l'amicizia e la stima che abbiamo condiviso
e che ancora oggi conservo.
Massimo Angelini
Veronelli Ev, not found?
di Angelo Pagliaro
Una rivista da archiviare, ma online.
Dieci anni fa moriva Luigi Veronelli e otto anni fa cessava di esistere anche la rivista da lui fondata: Veronelli EV. Prima di chiudere i battenti e subito dopo la scomparsa dell'anarchenologo (come ci piaceva nominarlo) la nuova direzione del giornale aveva provveduto al licenziamento di due collaboratori storici della rivista: Marc Tibaldi (caporedattore) e Andrea Bonini, braccio destro di Gino, un giovane intellettuale capace di tradurre in azioni pratiche le intuizioni veronelliane.
A nulla valse la protesta dei centri sociali, delle realtà che ospitarono i critical wine e di alcuni collaboratori di EV. La decisione fu irreversibile oltre che immotivata. Dopo questa triste decisione, notai subito che la rivista andava perdendo tutta la sua effervescenza e, dopo qualche mese, iniziò inesorabile il processo di rimozione dei progetti politici che Gino, caparbiamente, aveva portato avanti. Il secondo atto del “nuovo corso” editoriale fu consumato nell'estate del 2005 quando l'allora presidente del Senato, Marcello Pera presentò in una conferenza stampa tenuta nei locali del Senato di via Santa Chiara a Roma, l'Associazione Luigi Veronelli per la tutela e la promozione del vino italiano a cui aderirono parlamentari di tutte le forze politiche. Molti di noi rimasero allibiti, conoscendo l'avversione di Gino nei confronti dei cosiddetti “rappresentanti politici”. Non voglio neanche immaginare quale sarebbe stata la sua reazione ad un'iniziativa del genere. Passò da allora un anno e nella primavera del 2006 venne diffuso l'ultimo numero di EV, targato 88.
“Spendere di meno per essere più liberi”
Fu un numero importante perché nel suo editoriale Nichi
Stefi motivava con queste parole la scelta di porre fine ad
un'esperienza durata oltre 15 anni: “dobbiamo spendere
di meno per essere più liberi, per metterci più
entusiasmo e meno calcoli. Vogliamo descrivere l'Italia enoica
anche nei suoi angoli meno conosciuti e che hanno scarsa rilevanza
economica, perché è lì che esiste un'Italia
autentica, non ubriacata di rappresentazione. Continueremo a
disegnare la mappa, a degustare e a descrivere le degustazioni
e inizieremo un dialogo con i lettori che soltanto Internet
permette”.
In quell'editoriale vi era una promessa mai mantenuta ossia
che EV avrebbe continuato il suo viaggio sul Web, con cadenza
mensile. Sulla pagina web dell'editore Veronelli rimase per
qualche anno l'archivio della rivista EV, consultabile anche
per nome dell'autore ma poi venne rimosso e il sito cambiò
denominazione. Bene, è proprio da queste colonne, nel
pieno rispetto delle diverse opinioni e delle scelte operate,
mentre si ricorda la figura e l'opera dell'enoico ed enoteico
(come amava definirsi) piu' bravo e famoso d'Italia che desidero
lanciare un appello alla famiglia Veronelli e in particolare
al genero di Luigi, Gian Arturo Rota, affinchè quella
bella esperienza editoriale e il sapere da essa accumulato negli
88 numeri pubblicati in circa quindici anni di vita, non vada
disperso.
Digitalizzare l'archivio cartaceo e offrirlo online può
contribuire a informare correttamente tutti coloro che hanno
voglia di conoscere, da una fonte primaria e non per sentito
dire, i veri pensieri di Luigi Veronelli e dei suoi “scomodi”
collaboratori. Poter rileggere tutto il dibattito sostenuto
da Massimo Angelini sull'importanza delle autocertificazioni,
i racconti di Andrea Bonini sull'ultimo viaggio al Sud e l'occupazione
del porto di Monopoli, gli articoli di Marc Tibaldi sulle De.Co.
quale strumento dal basso, le proposte di Sergio Cusani e Pino
Tripodi sul prezzo sorgente ecc. potrebbe costituire, nel decimo
anniversario della scomparsa del fondatore, un bel dono culturale.
In un tempo quale quello attuale, in cui vorrebbero costringerci
a vivere solo di cronaca, anche la lettura di EV potrebbe aiutarci
a ripensare il passato e a tentare di progettare il futuro producendo
atti di sensibilità planetaria.
Angelo Pagliaro
angelopagliaro@hotmail.com
Il vino anarchico e libertino di Gino
di Pietro Stara
Il suo era un pensiero ecologico radicale. Testardamente dalla parte della natura.
Luigi Veronelli, come un novello Daniello Bartoli1,
mostra il volto alle parole, trascrive icone che contrassegnano
concetti: la natura si umanizza, prende corpo, mani, capelli,
bocca, e, infine, in maniera stupefacente, trasforma l'acqua
che trae dalle radici in un liquore tutto fuoco, il vino! «Il
vino, dopo l'uomo, è il personaggio più capace
di raccontare storie, di lanciare messaggi vasti e antichi,
di presentarsi con i suoi documenti d'identità completi.
Io, quando assaggio un vino, sento tutto quello che è
successo in quella terra dove è nato, tra quella gente
che l'ha coltivato, in quelle mani che l'hanno toccato. È
inquietante, lo so, ma è proprio così. Il vino
vive di vita propria2».
Per Veronelli la scienza non ha ancora occupato lo spazio, né
si intuisce possa farlo, delle infinite metamorfosi del vino.
Un pensiero ecologico radicale per un'epoca, come quella degli
inizi anni '60 del secolo scorso, in cui l'industrialismo marca
le sorti ineluttabili e progressive del genere umano. La scienza
ha conquistato lo spazio, ma non il “meccanismo”
delle infinite metamorfosi del vino: «vi è qualcosa
che sfugge, qualcosa che noi solo conosciamo, con cui solo noi
comunichiamo, noi che amiamo il vino: la sua anima. Ha origine
dalla pianta simbolica, la vite. È coltivato e non fabbricato
come le cose inerti. È soggetto a mille condizioni naturali
prima di venire alla luce; un giorno nasce e subito ha bisogno
di attente cure; solo attraverso pericoli ed esperienze giunge
alla maturità, per poi declinare e, più vecchio
morire. Un ciclo che è di ogni creatura.3»
Una vecchia testardaggine
Ed è proprio in quel contesto che fa la sua apparizione
la famosa frase di Luigi Veronelli secondo cui «il peggior
vino contadino è migliore del miglior vino industriale».
Non perché, come erroneamente è stato tradotto
sino a noi, vi è una lettura semplicistica e bucolica
di un mondo come quello contadino, superbamente anarchico, che
concilia animalità e grande umanità, né
perché vi è una presunzione anti-scientifica di
tipo mistico-ancestrale, ma soltanto una vecchia testardaggine:
«essere i vini contadini migliori. Piccolo il podere,
minuta la vigna, perfetto il vino. Polemica aspra su ciò.
Spergiurano: il contadino non sa vinificare; non sa e tu insegnalo;
ma non che non conviene, cuopre cuopre. A uve sane, o
bestie, è l'immediata opera. (...) Nego con ciò
la validità dell'intervento 'enotecnico'? Affatto;
dico solo che deve essere condizionato. Le 'pratiche'
che rispettano l'integrità della composizione naturale
del vino sono lecite nella misura in cui apportano un'intelligente
correzione delle sue 'imperfezioni'. La natura, nella
sua infinita sapienza, ha tutto previsto perché l'uva,
se è sana, se è colta al punto esatto, si trasformi
in vino con il minimo aiuto dell'uomo; aiuto che deve favorire
i fenomeni naturali e non alterarli.»4
Gino cammina le campagne e beve molti vini – quanti? «flebile
in matematica, non ne ho mai tentato il conto; 10 bicchieri
pro die “a sbutoni” da quando ho iniziato
a bere; 10 anni e ora ne ho – quasi – 78, centinaia
di migliaia di bicchieri5»
racconta in una delle sue ultime conversazioni che ci giungono
scritte, poco prima di lasciare il palcoscenico della vita.
Veronelli ama rivolgersi al lettore con il 'tu', «instaurando
una comunicazione di grande familiarità, di anarchica
abolizione delle gerarchie allocutive6»:
«se non ami il vino, se non sei disposto a riconoscerlo
amico, non leggermi7.»
Da qui partono le sue mirabolanti descrizioni dei vini, risalenti,
nelle loro prime formulazioni, ad un'Italia ancora priva delle
denominazioni di origine: alla fine degli anni Cinquanta8.
Solo così possiamo renderci conto di quanto tutta letteratura eno-gastronomica, di lì a venire, sia in qualche modo a lui debitrice: «Grignolino di Migliandolo. Colore: rosso rubino delicato, ma vivo e acceso (sottile trasparenza porporina); brillante. Profumo: bouquet anche delicato e fresco (con lievissima insistenza erbacea). Sapore: asciutto senza cedimenti e senza asprezza; sottile fondo amarognolo di grande eleganza; sentore di pepe bianco, lieve fragranza di rosa; nerbo sottile ma deciso e stoffa leggera ma aristocratica; ha carattere e razza. Questo l'esame organolettico di un grignolino accolto nel volume, il quadro direi delle sue “costanti”, anno per anno, buona o cattiva l'annata.
“Vino testa balorda, anarchico, individualista”
Dice tutto quella descrizione? No, non può dirlo, non dice ad esempio, che è vino testa balorda, anarchico, individualista; rosso chiaro, vivo di trasparenza porporina alla nascita, subito asciutto senza cedimenti ed asprezze, vuole essere bevuto da giovane; uno, due, cinque anni secondo volontà sua (capace, in certe annate, di andare avanti, a dispetto), si fa colore rosso rubino (se ne ha voglia, si smorza) nell'aristocrazia; solo se ti riconosce amico, per come lo ascolti, per cure che gli dai, svela tutto il bouquet sottile di verde nocciola ed il gusto lieve amarognolo, pacato, e attento, controllato (finalmente) e armonico.
Se, nell'esame organolettico, avessi messo tutto questo, il
tecnico si sarebbe confermato: “Veronelli è matto”
e, testa balorda anarchico individualista come quel suo vino,
inattendibile9.» E il suo
sguardo si getta Oltralpe, alla qualità che circoscrive,
delimita e riconosce: il cru, anche in bottiglia.
Con lo stesso spirito goliardico
Battaglia che precorre le denominazioni comunali d'origine
(De.Co.), per tutelare i manufatti di origine, siano essi agricoli,
alimentari o culturali prodotti in un determinato territorio
perché così «non passano – ripeto
– due anni e le multinazionali si liquefanno al sole10».
Concludo proprio là, al confine tra il sacro e il profano,
con la prima dissacrante parodia della messa11,
dove Gino Veronelli incomincia i suoi “Vini d'Italia”:
«Introibo ad altare Bacchi, ad eum qui laetificat cor
hominis.» Perché allora, come oggi, e con lo stesso
spirito goliardico, si avverte e si esalta quell'inesprimibile
del vino.
Pietro Stara
Note
- Daniello Bartoli, La ricreazione del savio, a cura
di B. Mortara Garavelli, Parma, Fondazione P. Bembo/U. Guanda
Editore, 1992 (Edizione originale del 1659).
- Luigi Veronelli, Prima, dicembre 1984, in Gian Arturo
Rota, Nichi Stefi, Luigi Veronelli. La vita è troppo
corta per bere vini cattivi, Giunti/Slow Food Editore, Milano,
Firenze, Bra 2012, pag. 300.
- Luigi Veronelli, I vini d'Italia, Canesi Editore, Roma
1961, pag. 13.
- Luigi Veronelli, Il vino giusto, Rizzoli, Milano 1971,
pag. 23.
- Luigi Veronelli, Pablo Echaurren, Bianco Rosso e Veronelli.
Manuale per enodissidenti e gastroribelli II°, Stampa
Alternativa, Virebo 2005, pag. 98.
- Manuela Manfredini, Parlare col ghiottone. L'Italiano
delle guide gastronomiche, in http://www.treccani.it/magazine/lingua_italiana/speciali/panevino/3.html.
- Luigi Veronelli, Il vino giusto, cit. pag. 9.
- Cfr. Luigi Carnacina, Luigi Veronelli, La grande cucina
: 3715 ricette, 242 soggetti a colori, 221 soggetti in nero,
139 disegni, a cura di Luigi Veronelli Contiene dizionario
gastronomico, Garzanti, Milano 1960; Luigi Veronelli, I vini
italiani, cit.
- Luigi Veronelli ( a cura di), Catalogo Bolaffi dei vini
d'Italia. “Il Gotha dei vini”, prima ristampa,
Giulio Bolaffi Editore, Torino 1970, pp. XIX, XX.
- Luigi Veronelli, Pablo Echaurren, Bianco Rosso e Veronelli,
cit. pag. 49.
- Risalente al XII secolo sotto il nome di Officium Lusorum
si riferisce al codice di Benedictbeuern (Carmina Burana),
di cui si ha una versione più tarda pubblicata da Tommaso
Wright come Missa de potatoribus (Messa dei bevitori)
o Missa gulonis Cfr. Francesco Novati, Studi critici
e letterari. L'Alfieri poeta comico. Il ritmo Cassinese e le
sue interpretazioni. Un poeta dimenticato. La parodia sacra
nelle letterature moderne. Loescher Editore, Torino 1889.
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