calcio e nazismo
La svastica allo stadio
di Giovanni A. Cerutti
Con questo titolo è appena uscito un nostro nuovo dossier, curato da Giovanni A. Cerutti. Raccoglie i suoi quattro articoli apparsi nei numeri 374/377 di “A”. Per il dossier Cerutti ha scritto un'introduzione (“La fragilità dei campioni”) che bene inquadra l'incrocio tra lo sport più popolare d'Europa e la dittatura nazista (e il fascismo, suo alleato). La riproduciamo qui.
Le storie qui presentate sono
state raccolte tra le molte che hanno attraversato il mondo
dello sport in generale, e del calcio in particolare, nell'Europa
della fine degli anni trenta e della seconda guerra mondiale.
Sono state scelte tra le altre, perché i loro protagonisti
sono uomini che hanno contribuito a scrivere la storia del calcio,
che all'apice della carriera e della fama sono stati travolti
dal corso della storia europea, ritrovandosi a condividere il
medesimo destino di milioni di altri uomini.
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Matthias Sindelar (Kozlov, 10 febbraio 1903 - Vienna, 23 gennaio 1939) |
Matthias Sindelar stava per guidare la nazionale austriaca
- il Wunderteam che aveva dominato il calcio europeo
negli anni trenta - ai campionati del mondo di Parigi, all'inseguimento
di un più che probabile titolo che avrebbe posto un prestigioso
sigillo a una delle più straordinarie carriere della
storia del calcio mondiale, quando l'annessione dell'Austria
alla Germania di Hitler, con lo conseguente scioglimento della
nazionale di calcio austriaca, lo mise nelle condizioni di dover
vestire la maglia della nazionale tedesca. Il rifiuto che senza
esitazioni oppose alla convocazione del commissario tecnico
Herberger cambierà non solo il corso della sua carriera,
ma anche della sua vita. Árpád Weisz ed Ernest
Erbstein, alla guida rispettivamente del Bologna e del Torino,
si stavano contendendo il campionato italiano, quando la promulgazione
delle leggi razziali li costrinse a lasciare l'Italia e a vagare
per l'Europa occupata. Due allenatori che hanno segnato l'evoluzione
tecnica e tattica del gioco del calcio, introducendo innovazioni
che ancora oggi ne costituiscono la base, terminarono le loro
peregrinazioni uno ad Auschwitz, dove venne sterminato con tutta
la famiglia, e l'altro a Budapest, dove riuscì a sfuggire
alla feroce caccia all'uomo condotta dalle Croci frecciate di
Szálasi, fanaticamente antisemite. Giocatori e dirigenti
della squadra di Amsterdam si ritrovarono dopo l'occupazione
dell'Olanda, prima a cercare di mettere in salvo i propri soci
ebrei e poi a organizzare i primi nuclei della Resistenza olandese.
Negli anni sessanta, un piccolo gruppo di quei sopravvissuti
costruì l'Ajax che, guidato da Johan Cruijff, lascerà
un segno indelebile nella storia del calcio. Dieci anni dopo,
l'imprevedibile corso della storia intreccerà quella
vicenda con quella dei generali argentini nella Buenos Aires
dei desaparecidos.
In quel frangente storico, a cavallo delle due guerre mondiali,
si stavano affermando i processi che disegnarono i tratti principali
che caratterizzano il calcio contemporaneo. Quasi tutte le federazioni
nazionali riconobbero ufficialmente il professionismo, che in
modo embrionale era già stato ammesso dalla federazione
inglese nel 1885, mentre lo sviluppo tecnico-tattico del gioco
determinò la crescente centralità della funzione
dell'allenatore, tanto più rilevante, quanto più
si consolidava la dimensione collettiva del gioco di squadra
inaugurata dal passing game delle squadre scozzesi, che
aveva soppiantato il dribbling game delle origini, la
cui essenza era una somma di tentativi individuali di andare
in rete. Parallelamente si svilupparono i contatti internazionali,
con l'organizzazione dei primi tornei tra squadre di club e
l'intensificarsi delle partite tra le rappresentative nazionali,
fino all'organizzazione nel 1930 del primo campionato mondiale
in Uruguay. Ma le tensioni nazionaliste che percorrevano l'Europa
mutarono il significato di questa evoluzione, determinando una
stretta interconnessione tra eventi sportivi e relazioni internazionali,
trasformando gli incontri di calcio in veicoli di azioni diplomatiche.
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Il vecchio stemma Ajax |
Frammenti di memoria
Ma, soprattutto, negli anni tra le due guerre il calcio divenne
in gran parte dell'Europa una delle espressioni più significative
della nascente società di massa. Fin dagli esordi nell'Inghilterra
della metà dell'ottocento, quando i regolamenti avevano
ancora tratti indefiniti, le partite di calcio avevano attirato
numerosi spettatori e fin da subito si era sviluppata la pratica
di recintare i campi da gioco per chiedere il pagamento di un
biglietto di ingresso per assistervi; ora, però, la crescente
disponibilità di tempo libero, conseguenza dei cambiamenti
della scansione dei tempi di vita imposti dai processi di industrializzazione
e urbanizzazione, permetteva a un sempre maggior numero di appassionati
di andare a vedere le partite. Ben presto attorno a ogni squadra
si crearono gruppi di sostenitori, che presero a seguire anche
le partite disputate nelle altre città, organizzando
le trasferte. Non solo, ma il parallelo sviluppo dei mezzi di
comunicazione di massa permise a un pubblico sempre più
vasto di seguire le imprese delle squadre. Vennero fondati i
primi periodici specializzati, ma furono soprattutto le trasmissioni
alla radio delle cronache delle partite ad ampliare ulteriormente
la platea di spettatori che seguiva il calcio, tanto che la
popolarità dei suoi campioni si affermò al di
fuori dell'ambiente dei tifosi - termine che entra nei dizionari
italiani nel 1935 – facendoli approdare alle cronache
mondane. Così, non solo le principali industrie cominciarono
ad acquistare gli spazi intorno al terreno di gioco per posizionare
i cartelloni pubblicitari negli stadi, ma cominciarono anche
a mettere sotto contratto i calciatori più famosi per
le loro campagne pubblicitarie. Perché poi tra tutti
i modi possibili di impiegare il nascente tempo libero sia stata
proprio la passione per il calcio a occupare un posto così
rilevante è un'altra questione, sulla quale ci sono infinite
teorie. Forse perché combina in modo del tutto imprevedibile
l'organizzazione e l'applicazione scientifica richieste dallo
sport con l'imponderabile proprio del gioco, e in fondo della
vita, tanto da aver fatto dire ad Albert Camus di dovere al
calcio tutto ciò che aveva imparato sulla moralità
e gli obblighi degli uomini.
Prima di essere riportate alla luce, queste storie hanno lasciato
frammenti di memoria, incrociando in modo significativo la vita
e la carriera di figure di rilievo assoluto, che hanno continuato
a ricoprire ruoli di spicco anche nel calcio del dopoguerra.
Weisz ha scoperto Giuseppe Meazza, facendolo debuttare in prima
squadra a 16 anni. Anche Fulvio Bernardini, allenatore del Bologna
che vinse lo scudetto nel 1964, con alla presidenza lo stesso
Dall'Ara degli scudetti degli anni trenta, da calciatore era
stato una delle stelle dell'Inter di Weisz. E a Trieste Jenö
Konrad, anch'egli allontanato in forza delle leggi razziali,
aveva allenato Ferruccio Valcareggi, Nereo Rocco e Gino Colaussi.
Sepp Herberger, che tentò di convincere Sindelar ad accettare
di giocare i mondiali di Parigi per la Germania, ha allenato
la nazionale tedesca fino al 1964. Ma mai quei frammenti hanno
trovato la strada per trasformarsi in ricordo, aprendo una via
per conoscere vicende così significative.
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Árpád Weisz (Solt, 16 aprile 1896 - Auschwitz, 31 gennaio 1944) |
Per larga parte questa circostanza trova la sua spiegazione
nel clima generale che segnò i primi anni del dopoguerra.
Da una parte, la voglia di lasciarsi alle spalle gli orrori
e le distruzioni del conflitto bellico aveva creato uno stato
d'animo poco favorevole ad accogliere il ricordo della persecuzione
e dello sterminio, così ben restituito da Eduardo De
Filippo in Napoli milionaria!, in cui il reduce Gennaro
Jovine non riesce a portare a termine il racconto della sua
deportazione, interrotto dalle esortazioni di parenti e amici
a dimenticare e a pensare al futuro. Sguardo al futuro che,
su un altro piano, condizionava anche il discorso pubblico,
dominato da ideologie convinte di poter edificare società
in grado di rispondere ai bisogni umani rimuovendo per sempre
le cause di conflitto che avevano portato alle distruzioni della
guerra.
Resta paradigmatica la decisione di Natalia Ginzburg di rifiutare
il manoscritto di Se questo è un uomo, che uscirà
per i tipi di Einaudi soltanto nel 1958. In un mondo teso verso
la costruzione di un progresso inarrestabile, non c'era posto
per storie consegnate a un passato definitivamente superato.
Soltanto quando è venuta meno questa fiducia incrollabile
nel futuro, quando la storia è tornata a essere percepita
per quello che è, una commistione inestricabile di rischi
e opportunità, si è cominciato a volgersi verso
quel passato. Anzi, nello smarrimento del non sapere più
esattamente cosa vogliamo essere e nell'incapacità di
individuare progetti adeguati ai nuovi scenari, volgersi verso
quelle storie diventa sempre più indispensabile per cercare
di capire almeno cosa non vogliamo essere. E andrebbe forse
notato che un segno non secondario di questo mutamento di prospettiva
può essere rintracciato osservando che l'edizione italiana
del Diario di Anna Frank, il libro che più di
ogni altro segna questa inversione di tendenza, venne pubblicata
con una dolente e partecipe introduzione proprio di Natalia
Ginzburg.
Ma all'interno di questo scenario generale hanno agito meccanismi
di rimozione che possono essere ricondotti al modo in cui il
mondo dello sport, del calcio soprattutto, pensa se stesso,
come completamente avulso dalle vicende della storia e della
politica. Con il paradosso di espungere anche dalla storia strettamente
calcistica figure di valore assoluto, senza le quali è
persino difficile comprendere l'evoluzione della disciplina.
Eppure, intrecciando i fili di queste storie legando tra di
loro persone, luoghi e circostanze, verrebbe alla luce una trama
che ci permetterebbe di guardare un periodo storico così
ben studiato da un angolo visuale del tutto inedito. Sia Weisz,
nel campionato 1931-32, che Erbstein, nei campionati 1928-29
e 1932-33, hanno allenato il Bari. Nel campionato di serie B
1934-35 si erano affrontati alla guida uno del Novara, l'altro
della Lucchese, sfiorando entrambi la promozione. Che arrivò
per le due squadre nel campionato successivo, anche se Weisz
era ormai approdato al Bologna. Ma tempo tre anni, le loro strade
si intersecarono ancora. Il 9 ottobre del 1938 il Torino di
Erbstein andò a vincere a Bologna per 3-0, segnando la
definitiva affermazione di quello che fino ad allora era uno
dei più promettenti tra i giovani allenatori. Infatti,
anche se tra i due c'erano solo due anni di differenza - Weisz
era nato nel 1896, Erbstein nel 1898 – Weisz era un maestro
riconosciuto, avendo già vinto tre scudetti e il Torneo
dell'Esposizione, mentre Erbstein era al suo primo campionato
alla guida di una squadra di punta. Cacciati dall'Italia in
forza delle leggi razziali, entrambi scelsero di rifugiarsi
in Olanda, anche se Erbstein non riuscì mai ad arrivarci.
Weisz incrociò per tre volte anche la strada di Sindelar
nella Mitropa Cup, uscendone sempre sconfitto, nel 1933 in finale
con l'Inter e nel 1936 e nel 1937, dopo una clamorosa sconfitta
in casa per 5-1, negli ottavi con il Bologna. E sia il padre
di Sindelar, sia Weisz, sudditi dell'Impero austro-ungarico,
si erano trovati a combattere contro l'esercito italiano durante
la prima guerra mondiale.
Un complesso di relazioni, dunque, niente affatto marginali,
ma organicamente inserite all'interno di uno dei luoghi centrali
della nascente società di massa.
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Erno “Ernest” Erbstein (Nagyvárad,13 maggio 1898 – Superga, 4 maggio 1949) |
Una storia anche italiana
Due di queste storie, come abbiamo accennato, e tratti significativi
di quella di Sindelar, passano dall'Italia. Ma da noi, nonostante
articoli, libri e ricerche che le hanno ricostruite nei tratti
principali, stentano a entrare stabilmente nel canone che ruota
intorno alla storia del calcio italiano. Alla tenacissima convinzione
di essere un mondo a parte - salvo, magari, poi sostenere che
le curve sono quello che sono, perché la società
è quella che è - si somma la difficoltà
con cui tuttora la società italiana nel suo complesso
fa i conti con il suo passato fascista. Si tratta di una miscela
micidiale.
Ricostruire queste storie, infatti, significa ricostruire quanto
il calcio italiano sia stato plasmato dal regime, quanto fin
dalla sua origine sia stato inestricabilmente avviluppato alle
dinamiche politiche della costruzione del consenso. Quanto due
delle stelle di cui si fregia la nazionale italiana siano servite
a veicolare l'immagine della giovane potenza in procinto di
schiantare le reni alle decadenti democrazie europee, così
come, in modo ancora più puntuale, la vittoria del Bologna
di Weisz contro il Chelsea a Parigi nel 1937. Bologna ancora
oggi ricordato senza alcun imbarazzo come lo squadrone “che
tremare il mondo fa”, rimuovendo con grande disinvoltura
il contenuto di violenza e paura così intimamente connaturato
all'estetica fascista che tale espressione rivela. E quanto
nella vittoria in casa del 1934 le pressioni politiche abbiano
interferito pesantemente con la regolarità del torneo.
Ma soprattutto quanto le leggi antiebraiche abbiano inciso nel
tessuto della società italiana, più di quanto
generalmente si voglia ammettere, anche quando ce se ne assume
responsabilmente il peso dell'eredità.
I Provvedimenti per la difesa della razza italiana vennero
adottati il 17 novembre 1938 e convertiti in legge con l'approvazione
della Camera dei deputati il 14 dicembre, all'unanimità,
e del Senato del Regno, dove per antica usanza vigeva il voto
segreto, il 20 dicembre, con solo dieci voti contrari. Vennero
anticipati da un decreto emanato il 7 settembre, poi integralmente
recepito nella legge, che imponeva ai cittadini ebrei di nazionalità
straniera di lasciare l'Italia entro sei mesi.
Il provvedimento ebbe ripercussioni profonde sullo svolgimento
del campionato italiano di serie A 1938-39, in quel momento
il più prestigioso tra i campionati europei, a parte
quello dei maestri inglesi. L'Italia si era, infatti, appena
riconfermata campione del mondo, vincendo proprio nella Parigi
degli odiati diritti dell'uomo e del cittadino, dove aveva trovato
rifugio la maggior parte dell'emigrazione antifascista. Nel
giro di due mesi tre allenatori, tutti e tre ebrei di nazionalità
ungherese, furono costretti a lasciare l'Italia. Insieme a Weisz,
allontanato dopo la quinta giornata di campionato, e a Erbstein,
allontanato dopo la sedicesima giornata, infatti, anche Jenö
Konrad, allenatore della Triestina, era stato costretto a lasciare
la guida della sua squadra dopo l'ottava giornata. Konrad era
arrivato in Italia dopo che una violenta campagna di stampa
antisemita, seguita alla sconfitta che aveva subito alla guida
del gran favorito Norimberga contro il Bayern di Monaco, l'aveva
costretto a lasciare la Germania nel 1932. Konrad, che nel campionato
1935-36 aveva allenato l'Austria Vienna di Sindelar, troverà
un ingaggio in Francia, nel Lille, e nella stagione successiva
in Portogallo, nello Sporting Lisbona. Emigrerà, quindi,
negli Stati Uniti, dove morirà nel 1978.
Tre allenatori costretti a lasciare il campionato da un odioso
provvedimento legislativo sono davvero tanti. Quel campionato
è stato, dunque, manomesso fino a togliergli qualsiasi
significato nei suoi contenuti umani, civili ed etici. E falsato
anche dal punto di vista strettamente sportivo, visto che Erbstein
e Weisz stavano guidando le due squadre che si contenderanno
il titolo sino alla fine. Come sia stato possibile che ad oggi
a nessuno sia venuto in mente di annullarlo, rendendo il titolo
vacante, o, quantomeno, di segnalare con un atto ufficiale della
Federazione che la catastrofe della storia si è abbattuta
sul suo regolare svolgimento dice molto di quanto il nostro
paese abbia cura del suo passato. E di quanta strada resta da
percorrere per venire a capo del groviglio di contraddizioni
che condizionano ancora oggi la nostra vita associata.
Giovanni A. Cerutti
Per
saperne di più
Simon
Martin, Football and Fascism. The National Game under
Mussolini, Bloomsbury Academic, London 2004
Stefano Pivato, Calcio, in Dizionario del fascismo,
a cura di V. De Grazia e S. Luzzatto, Einaudi, Torino
2002
Gianni Brera, Il più bel gioco del mondo,
in Id., Il mestiere del calciatore, Mondadori,
Milano 1972, ora in Id., Il più bel gioco del
mondo, a cura di M. Raffaelli, Rizzoli, Milano 2007,
pp. 405-419
Albert Camus, Ce que je dois au football, in ËFrance-FootballË,
17 décembre 1957
Pierre Lanfranchi, Bologna: “The Team that Shook
the World”, in “The International Journal
of the History of Sport”, 8 (1991), 3, pp. 336-346
Fabio Marri, Metodo, sistema e derivati nel linguaggio
calcistico, in “Lingua nostra”, XLIV (1983),
pp. 70-83
Jenö Konrad, in Le sport européen à
l'épreuve du nazisme, mostra a cura del Mémorial
de la Shoah de Paris
Alberto Cavaglion, 1938-1988: qualche considerazione
in ordine sparso, in Dalle leggi razziali alla
deportazione. Ebrei tra antisemitismo e solidarietà,
a cura di A. Lovatto, Istituto per la storia della Resistenza
e della società contemporanea in provincia di Vercelli
“Cino Moscatelli”, 1992, pp. 39-45
David Bidussa, Meno memoria, più storia,
in “Lettera internazionale”, 115 (2013), pp.
15-18
Michele Sarfatti, Le leggi antiebraiche spiegate agli
italiani di oggi, Einaudi, Torino 2002
Alessandro Pizzorno, Il potere dei giudici. Stato democratico
e controllo della virtù, Laterza, Roma-Bari
1998
Patrick Modiano, Fleurs de ruine, Éditions
du Seuil, Paris 1991. |
Nazismo
e calcio/
Un calcio al nazismo
“Storie
di persecuzione e di resistenza nel mondo del calcio sotto
il nazismo” è il sottotitolo del nostro nuovo
dossier La svastica allo stadio. Ne è autore Giovanni
A. Cerutti, direttore scientifico dell’Istituto
storico della Resistenza e della società contemporanea
nel Novarese e nel Verbano-Cusio-Ossola “Piero Fornara”.
Dopo l’introduzione (“La fragilità
dei campioni”) riprodotta in queste pagine, i quattro
capitoli sono dedicati alle vicende di Matthias Sindelar
(“I piedi di Mozart”), Arpad Weisz (“Un
maestro del calcio europeo inghiottito nel nulla”),
Ernest Erbstein (“L’uomo che fece grande il
Torino”) e della squadra dell’Ajax (“La
squadra del ghetto”).
Originariamente i quattro scritti sono stati pubblicati
nei numeri 374 / 377 di questa rivista, tra l’ottobre
2012 e il febbraio 2013.
Trentadue pagine, stampa in bicromia, il dossier costa
2,00 euro e può essere richiesto alla nostra redazione
come tutti i nostri numerosi “prodotti collaterali”.
Per richieste superiori alle 10 copie, il costo scende
a euro 1,50. Tutte le informazioni sul nostro sito arivista.org.
Entro breve il dossier sarà leggibile e scaricabile
gratis dal nostro sito.
Per organizzare iniziative pubbliche, conferenze, presentazioni
nelle scuole, ecc., con la presenza dell’autore,
contattate direttamente l’Istituto storico della
Resistenza sopra citato:
telefono 0321 392743 / fax 0321 399021 / sito www.isrn.it
/ info didattica@isrn.it.
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