dossier Storia
Cent'anni dopo
di Piero Brunello
Uno sguardo originale e critico sul primo massacro mondiale e un invito ad ascoltare le voci e le grida delle vittime di quella tragedia.
Dopo la guerra si leverà un vento di rivolta dolorosa
che si diffonderà in tutto il paese. Allora si griderà
ai carnefici tutto ciò che si è dovuto comprimere
in se stessi per anni.
(Considerazioni di Stefan Zweig, 1917, in R. Rolland, Diario
degli anni di guerra 1914-1919, trad. di Giovanna Bonchio,
II, Parenti, Milano-Firenze 1960, p. 354).
Quando abbiamo pensato a questo convegno c'erano molte guerre in tutto il mondo, esattamente come cent'anni fa, ma mai più avremmo immaginato una guerra in Europa. E adesso la guerra in Europa c'è: e come cent'anni fa governi e capi militari mostrano i muscoli, e si sente parlare di una terza guerra mondiale. C'è da aver paura: e ancora di più va ribadita l'invettiva scelta a titolo del convegno: Tu sei maledetta!
Nel 1918, ultimo anno della prima guerra mondiale, il regista
francese Abel Gance immagina questa scena: un uomo cammina nudo
tra due trincee, e ciascuna delle due parti che si fronteggiano
è incerta se sparargli o no perché non si vede
l'uniforme1. Solo se è
in divisa l'uomo uccide e viene ucciso senza esitazioni. Non
a caso nei monumenti di guerra l'uomo viene raffigurato in uniforme,
per ricordare che nelle guerre l'anima è rivendicata
dalla Chiesa (dalle Chiese) e il corpo dallo Stato. Ogni interferenza
viene bandita perché metterebbe in crisi quest'ordine.
È noto, anche per essere ripreso nelle antologie scolastiche
italiane, l'episodio descritto da Emilio Lussu nel romanzo Un
anno sull'altipiano. Lussu racconta di tenere nel mirino
un ufficiale austriaco a poca distanza, e di rinunciare a colpirlo
perché vede l'uomo prendere un caffè e accendersi
una sigaretta. Un dettaglio di vita quotidiana trattiene il
soldato dal premere il grilletto. “La mia coscienza di
uomo e di cittadino – commenta Lussu – non erano
in conflitto con i miei doveri militari. La guerra era, per
me una dura necessità, terribile certo, ma alla quale
ubbidivo”; e più avanti: “Fare la guerra
è una cosa, uccidere un uomo è un'altra cosa.
Uccidere un uomo, così, è assassinare un uomo”.2
Altri invece, a differenza di Lussu, pensavano che bisognasse
scegliere tra la coscienza di uomo e quella di cittadino, che
non fosse giusto obbedire agli ordini, e che fare la guerra
e uccidere fossero la stessa cosa: ed è per rivendicare
questa storia che abbiamo dato vita a questo convegno.
Nell'estate 1914 la guerra arrivò inaspettata. Tutti
ricordano la testimonianza dello scrittore Stephan Zweig. Alla
notizia dell'attentato, niente a Vienna lasciava trasparire
un'azione militare contro la Serbia, e nelle spiagge del Belgio
le vacanze balneari iniziarono come al solito; e all'improvviso,
dopo qualche settimana, tutto uno sventolare di bandiere, elmi
cinti di foglie di quercia e musiche di bande militari.3
Perfino i giornali antimilitaristi assicuravano che in Europa
non potevano esserci guerre perché “i mezzi di
distruzione” erano così “terribili, che gli
eserciti verrebbero annientati in una carneficina orrenda e
spaventevole”.4 Fu proprio
quello che accadde.
Viene in mente l'Histoire d'un soldat, un balletto composto da Stravinsky negli ultimi mesi di guerra, in cui un soldato in licenza, con un violino sotto braccio, incontra un tizio, un giocherellone con un retino per farfalle. L'uomo che va a farfalle propone al soldato: stai con me tre giorni, io ti insegnerò a leggere il libro misterioso che ho con me, e tu mi insegnerai a suonare il violino. Il soldato accetta ma, scaduti i tre giorni, sulla strada di casa si accorge che sono passati tre anni. La prima guerra mondiale ne durò quattro di anni: e all'inizio tutti erano convinti che sarebbe stata limitata e di brevissima durata, ciascuno Stato oltretutto convinto di vincere militarmente sul campo. Non è la prima guerra in cui il diavolo si presenta all'inizio come un giocherellone. Solo alla fine del balletto il diavolo si porta via il soldato al suono di una marcia trionfale.
“Ogni guerra è ironica – ha scritto Paul
Fussel – perché ogni guerra è peggiore di
quel che ci si aspettasse”, ma ancor più lo fu
la prima guerra mondiale, quando, se è vero quello che
ci è stato raccontato, molti milioni di persone morirono
perché erano stati uccisi l'arciduca Francesco Ferdinando
e sua moglie Sofia. Nessun inizio fu più innocente, con
file di ragazzi entusiasti in coda per l'arruolamento davanti
a uomini con retini per farfalle, donne che gettavano fiori,
e la convinzione che quella sarebbe stata l'ultima delle guerre.5
Una guerra offensiva
Mentre tutti gli Stati che entrarono in guerra nel 1914 dichiaravano
di averlo fatto per difendersi, l'anno dopo il governo italiano
iniziò una guerra offensiva. Lo fece contro i sentimenti
della stragrande maggioranza dei propri cittadini, e anzi proprio
per sventare il pericolo di una rivoluzione all'interno: entrò
in guerra dopo manovre diplomatiche segrete che ribaltarono
le alleanze, e grazie a un colpo di Stato.6
Il generale Cadorna, che nel luglio 1914 è pronto a schierare
un'armata sul Reno in aiuto alla Germania sulla base dei piani
studiati in funzione di un'alleanza trentennale con Germania
e Austria Ungheria, nel maggio 1915 ammassa viceversa le truppe
sull'Isonzo: poi comincia a ordinare una serie di attacchi frontali
suicidi, in ossequio ai manuali di strategia militare, quando
invece tutti gli eserciti europei erano immobilizzati da mesi
nelle trincee.7
Non si tratta naturalmente di rinfacciare ai tanti generali Cadorna l'ignoranza del futuro. Si tratta di maledire capi di Stato e comandanti di eserciti per aver scatenato i Cavalieri dell'Apocalisse obbligando milioni di uomini a fare da comparse, e con la pretesa oltretutto di saper dominare gli eventi.
Inutile cercare l'epica nelle memorie della prima guerra mondiale,
come per secoli si è fatto nei racconti di guerra. Quello
che vi si trova è al contrario un registro ironico, che
presenta l'individuo in balia di eventi che non capisce, in
un mondo affollato da pidocchi, topi, armi, rovine, caos, brutalità,
corpi a pezzi, cadaveri insepolti e sofferenza.8
Davanti a certa memorialistica sembra di leggere il resoconto
di un viaggio nei gironi infernali con il diavolo che fa da
guida, e con sofferenze che sembrano non aver mai fine. La guerra
continuava a chiamarsi guerra, come sempre, anzi “una
grande guerra”, ma era diventata una cosa completamente
nuova: uno sterminio di massa dominato dalla tecnologia, in
cui uomini e animali erano al servizio di macchine e di complesse
organizzazioni industriali, scientifiche e militari.
Per secoli il mestiere delle armi aveva richiesto coraggio individuale,
prestanza fisica e la spavalderia del miles gloriosus; dal Settecento
poteva combattere chiunque venisse addestrato a farlo; con la
prima guerra mondiale il soldato è un “pezzo della
macchina da guerra”, un elemento di una catena di montaggio:
da qui, come ha mostrato Antonio Gibelli, la retorica “dell'umile
fante contadino la cui qualità è l'obbedienza”
che così tanto piaceva ai vari generali Cadorna e ai
vari padri Gemelli, e che poi si è trasferita nelle celebrazioni
ufficiali fino ai nostri giorni.9
Ironia e umorismo nero, quindi, in una guerra interminabile
in cui governi e comandi militari non riuscirono a concordare
neppure un'ora di tregua in quattro anni: ma anche incredulità,
smarrimento, angoscia e delusione. Nelle Considerazioni attuali
sulla guerra e la morte pubblicate nella primavera del 1915,
Sigmund Freud si confessava “smarrito”, e concludeva
che l'errore era stato credere in un'Europa civilizzata10.
Legami emotivi e solidarietà
Di chi la colpa? In altre parole, per ricordare il titolo del
convegno, chi maledire? Nei primi anni Trenta, Albert Einstein
scrisse a Sigmund Freud che a volere la guerra era «un
piccolo ma deciso gruppo di coloro che [...] vedono nella guerra,
cioè nella fabbricazione e vendita di armi, soltanto
un'occasione per promuovere i loro interessi personali e ampliare
la loro personale autorità». (Negli anni Sessanta
il movimento per la nonviolenza avrebbe detto così: l'industria
non produce “armi per le guerre, ma guerre per le armi”).11
La “cosiddetta intellighenzia” poi, continua
Einstein pensando all'entusiasmo per la guerra in nome del patriottismo
nel 1914, “cede per prima a queste suggestioni collettive”.
Ma perché una minoranza riesce “ad asservire alle
proprie cupidigie la massa del popolo, che da una guerra ha
solo da soffrire e da perdere”? Freud rispose, come sappiamo,
che “non c'è speranza di poter sopprimere le tendenze
aggressive degli uomini”, e che l'unico modo di opporsi
alla guerra è la capacità di far sorgere “legami
emotivi” e “solidarietà significative”
tra gli individui.12 (Simone
Weil giunse alla stessa conclusione quando scrisse che «per
spingere gli uomini verso le catastrofi più assurde,
non c'è bisogno né di dèi né di
congiure segrete. La natura umana basta»).13
In quegli stessi anni Józef Wittlin, ebreo galiziano
di lingua polacca, pacifista e antimilitarista, si pose interrogativi
simili. Nel 1914 Wittlin aveva diciotto anni. Ripensando a quelle
vicende, e scrivendo il romanzo autobiografico Il sale della
terra, Wittlin affermò che la letteratura contro
la guerra “accusa l'intera natura umana, e l'accusatore
è nello stesso tempo l'accusato”14.
Forse pensava a quando lui e l'amico Joseph Roth si erano fatti
raccomandare per essere arruolati nell'esercito austroungarico,
da cui erano stati esclusi in quanto inabili. Wittlin confessava
di non sapere perché l'avevano fatto, dato che, diceva,
erano «entrambi pacifisti e un po' anarchici».15
Joseph Roth a sua volta spiegò la sua scelta in un modo
che potrebbe essere raccontato in un romanzo di Joseph Conrad:
«Gli avvocati si arruolavano, le donne diventavano di
cattivo umore, patriottiche, mostravano una chiara predilezione
per i feriti. Alla fine mi arruolai volontario nel 21º
battaglione di fanteria».16
”Non un tono, non un grido”
Al cuore della mobilitazione per la guerra stanno dunque, tra
le altre cose, i rapporti tra uomini e donne. Andreas Latzko,
ebreo ungherese, combatté sul fronte italiano dell'Isonzo.
Ricoverato in ospedale per shock da guerra, poté raggiungere
la Svizzera, dove nel 1917 pubblicò il libro Uomini
in guerra, i cui protagonisti sono soldati in cura per pazzia.
In uno dei racconti un tenente, che forse pensava alla Lisistrata
di Aristofane, dice che la scena più crudele di tutte
non era stato il fronte bensì la partenza per la guerra,
quando le donne sorridevano e gettavano rose. “Non uno
sarebbe andato al fronte, se le donne avessero giurato che nessuna
di loro sarebbe andata a letto con un uomo il quale abbia spaccato
crani, fucilato uomini, trafitti i suoi simili. Non uno, vi
dico”. E più avanti: “Non hai mai sentito
parlare delle suffragette che hanno schiaffeggiato ministri,
incendiato musei, che si son fatti incatenare alla lanterna
per avere il diritto al voto? Per il diritto al voto, comprendi?
E per i loro mariti, no? Non un tono, non un grido!”,
e così via.17 Quando il
tenente, strappandosi con rabbia un ciuffo di capelli, chiede
al medico di aprirgli la testa e di tirar fuori sua moglie,
arrivano dei soldati che lo immobilizzano e lo riportano nel
reparto dov'è ricoverato. E lui a protestare: io, matto?
malato, io?
Forse queste parole sono un modo per colpevolizzare le donne
e sgravare gli uomini delle proprie responsabilità. Ma
perché non cogliere la presa d'atto di un fallimento
della virilità e la richiesta di aiuto? A distanza di
anni Virginia Woolf ripensò a quella che chiamava la
“assurda agitazione dell'agosto del 1914”, per concludere,
come Latzko, che una delle cause di guerra consiste nella venerazione
degli uomini per le armi, le medaglie e la gloria militare,
e nell'atteggiamento protettivo e incoraggiante, e quindi complice,
delle donne. Le donne nel futuro – scrisse Virginia Woolf
ripensando al 1914 – non avrebbero più dovuto usare
“le loro inesauribili riserve di fascino e di simpatia
per convincere i giovani che combattere era eroico, e che i
feriti sul campo di battaglia erano degni di tutte le loro cure
e di tutto il loro encomio”, bensì aiutare gli
uomini a liberarsi dalla passione per la guerra di cui sono
prigionieri da secoli, aprendo loro “l'accesso ai sentimenti
creativi” e alla “felicità”18.
Le donne avrebbero dovuto in altre parole aiutare gli uomini
a emanciparsi: ed è quanto Virginia Woolf farà,
donando come sappiamo le famose tre ghinee.
Alla luce di queste riflessioni possiamo capire meglio quell'uomo in uniforme che simboleggia tuttora la memoria ufficiale della prima guerra mondiale: un monumento che esalta un'idea di virilità che è tra le cause stesse della guerra. Ma, per riprendere le parole di Virginia Woolf, non è mai troppo tardi per aiutare quest'uomo a emanciparsi, cominciando innanzitutto dal modo con cui ricordiamo quegli eventi.
Ricordare: ma come? È possibile uscire dalla tradizione
greca dell'epitaffio per i cittadini morti in battaglia? L'artista
tedesca Käthe Kollwitz perse in guerra il proprio figlio
Peter: voleva fare un monumento per ricordarlo ma non sapeva
come. Stava seduta ore e ore nella stanza del figlio, lo sentiva
vicino, gli parlava; di notte lo sognava. Scriveva nel suo diario
nell'ottobre 1916: “Manco di lealtà nei tuoi confronti,
Peter, se adesso nella guerra vedo solo follia?”. Piangeva
il figlio, ma non voleva che la fedeltà alla sua memoria
e il rispetto dovuto ai morti si trasformasse in un omaggio
a ciò che l'aveva mandato a morire. Dovettero passare
diciotto anni prima che Käthe Kollwitz, abbracciate le
idee internazionaliste, riuscisse a scolpire un monumento alla
memoria del figlio. L'opera non rappresentava il figlio caduto
in guerra, bensì lei e il marito inginocchiati davanti
alla tomba del figlio, a chiedere perdono per l'incapacità
“di impedire che la follia della guerra gli troncasse
la vita”.19
Come suggerisce il caso di Käthe Kollwitz, per molti anni
la presenza di milioni di morti in guerra rimase inquietante
e potenzialmente minacciosa.20
Nella scena finale del film J'accuse di Abel Gance, il
regista che ho già ricordato (il film è del 1919),
i cadaveri dei soldati francesi sepolti si alzano dalle tombe,
si mettono le croci addosso e si dirigono come spettri verso
le case del villaggio.
Bisognava placarli, i morti, per impedire che potessero tornare
sulla terra a chiedere conto. Nel film di Bernard Tavernier,
La vita e niente altro (1989) un maggiore medico commenta
che se alla parata della vittoria sotto l'Arco di Trionfo a
Parigi fossero sfilati tutti i soldati francesi morti in guerra,
la processione sarebbe durata undici giorni e undici notti:
ecco una fantasia da esorcizzare. Ci sono e ci sono stati molti
modi per ricordare i morti. Limitandoci alla memoria ufficiale
promossa dagli Stati, si sa come andarono le cose. Nelle battaglie
del 1916 si calcola che a Verdun – ma in altri fronti
come sul Carso la situazione non era molto diversa – morirono
mille soldati per metro quadrato. Dopo la guerra fu costruito
un ossario per mettervi, visibili sotto vetro, teschi e ossa
che si supponeva fossero appartenuti a soldati francesi, mentre
i probabili resti dei soldati tedeschi furono ricoperti di terra.21
Ogni Stato raccolse i propri morti separandoli dagli altri e
ricordandoli come uccisi, anzi eufemisticamente “caduti”.
Altre forme di ricordo vennero cancellate. Su una targa in un
paese del Mantovano si leggeva: “odio contro la guerra
/ maledizioni contro coloro / che la benedirono e la esaltarono”.22
Lapidi di questo tipo vennero distrutte; in Italia il fascismo
eliminò con la violenza tutte le versioni in disaccordo
con la propria. Le denunce nei confronti di chi si era arricchito
con la guerra – cioè di quelli che i socialisti
chiamavano “i pescecani” – vennero dimenticate.
Rimosso il ricordo delle vittime civili, il cui numero superò
quello dei soldati. Cancellati gli stupri, che “ebbero
un carattere di massa” e furono autorizzati “e incoraggiati
dalle gerarchie militari” come strumento di genocidio,
di snazionalizzazione e di persecuzione antisemita. Le donne
vittime di stupro, ha osservato Bruna Bianchi a cui dobbiamo
questi studi, non parlavano, se non talvolta con qualche altra
donna: il loro silenzio contrasta con “il chiasso della
propaganda”23. E infine,
a nessuno doveva venire in mente la seguente domanda: “chi
può dire che il milite ignoto nella Grande Guerra non
sia colui che ha sparato all'ignoto oppositore di quella guerra?”.24
Ogni anno la sfilata rituale dei soldati viventi riafferma le
gerarchie e riporta l'ordine minacciato da definizioni alternative
della realtà. Riti e cerimoniali simili accomunano sia
i paesi che avevano vinto la guerra sia quelli che l'avevano
persa: a testimonianza che a vincere fu la guerra.
Valori umani contro la guerra
Questo convegno intende attribuire agli eventi del 1914-18
un senso alternativo a quello ufficiale imposto dagli Stati,
partendo dal riconoscimento del rifiuto della guerra e ricostruendo,
come ha invitato a fare Anna Bravo, una genealogia differente
da quella delle guerre.25 In
questo modo il convegno propone una riflessione più in
generale sul rapporto tra politica e morale, potere e violenza,
cittadinanza e guerra, virilità e femminilità,
ragioni degli individui e ragioni degli Stati. Simone Weil paragonava
chi si oppone all'apparato amministrativo, poliziesco e militare
a “persone che si aggrappano alle rotelle e alle cinghie
di trasmissione per cercare di fermare la macchina, facendosi
a loro volta stritolare”. Bisognava scegliere: “o
ostacolare il funzionamento della macchina militare di cui ognuno
in sé costituisce un ingranaggio, o aiutare questa macchina
a stritolare ciecamente le vite umane”.26
Sulla scia di Tolstoj, Simone Weil si appellava così
alla coscienza individuale, alla forza morale e ai valori umani:
ed è qui che va colto il rifiuto della guerra. Non parliamo
naturalmente solo di gesti individuali, e neppure solo di gesti
di rifiuto e di modi di dire no, ma di tutti quei legami di
solidarietà che gli individui costruiscono quando rifiutano
di obbedire al comando, o si sottraggono alle sue logiche.
Il convegno prenderà in esame le vicende italiane. Le
direttive della BBC rispetto la propaganda britannica in Italia
durante la seconda guerra mondiale dicevano a un certo punto:
“Si ricorderà che nel corso dell'ultima guerra
le donne si buttavano sui binari ferroviari per impedire che
portassero via i loro uomini. Le donne italiane amano mariti
e figli molto più dello Stato”.27
Queste parole rivelano soprattutto la visione britannica di
un'Italia familista, però colgono la specificità
del caso italiano, in cui i mesi di neutralità, prima
dell'entrata in guerra nel maggio 1915, furono contraddistinti
in tutto il paese da forti mobilitazioni antimilitariste, aspri
conflitti sociali, manifestazioni di piazza e comizi per la
pace. Il mondo cattolico e larghissimi settori della classe
dirigente erano per la neutralità. Il partito socialista
italiano fu l'unico in Europa a non aderire alla guerra. Gaetano
Salvemini, storico ma prima di tutto testimone degli eventi
come interventista, scrisse anni dopo che la grande maggioranza
degli operai e dei contadini, uomini e donne, non volevano la
guerra e si sottomisero “poiché un potente meccanismo
amministrativo li afferrava e li gettava nella fornace”.
Salvemini continua subito dopo dicendo che operai e contadini
“non si rivoltarono in modo attivo”28.
Carlo Levi testimonia che gli abitanti di Agliano, il paese
lucano del suo confino, avevano subìto la guerra come
“una grande disgrazia”, sopportandola “come
le altre”.29 Scopo di questo
convegno è illuminare lo spazio che sta tra la sopportazione
di una disgrazia e la rivolta attiva, mettendo in discussione
il giudizio di Salvemini. Da anni la storiografia italiana analizza
infatti non solo le ribellioni aperte e collettive, ma anche
i gesti individuali, indagando le varie forme con cui si manifestano
e si mescolano l'antimilitarismo, il pacifismo, la paura, la
diserzione, la follia, gli episodi di fraternizzazione al fronte,
la fuga, le proteste popolari, la nevrosi di guerra, la disobbedienza,
l'espressività popolare attraverso le lettere, i diari
e le canzoni.
Dei conflitti sociali e delle proteste popolari ci parlerà
Stefano Musso. Soprattutto in alcune zone del paese –
si pensi alla Settimana rossa nel giugno 1914 – la presenza
anarchica, socialista rivoluzionaria e repubblicana era radicata:
dei punti di forza e dei motivi di fragilità di questi
movimenti ci parlerà Mimmo Franzinelli. L'attività
dei tribunali militari dimostra con quanta violenza dovette
essere represso il dissenso. Gli individui, quasi tutti soldati,
incorsi in procedimenti penali, furono circa 400mila, una cifra
enorme, anche se, come ha scritto Enzo Forcella, basterebbe
“una sola fucilazione per mettere a nudo la sostanza autoritaria
sulla quale poggia il preteso consenso delle masse combattenti”:30
sarà Bruna Bianchi a presentare il fenomeno della diserzione.
Ilaria La Fata illustrerà il fenomeno della nevrosi di
guerra, tra manicomi e tribunali militari. Del pacifismo ci
parlerà Alberto Cavaglion; Elena Iorio ci dirà
delle motivazioni etiche, di coscienza, del rifiuto non solo
nei confronti della guerra ma anche delle armi e del servizio
militare; Alessandro Portelli infine ci parlerà delle
canzoni. Dopo la guerra, come ci dirà John Foot, monumenti,
lapidi e targhe tennero in vita la memoria dell'opposizione
alla guerra, fin che non furono cancellate con la violenza,
e definitivamente, dal fascismo.
Lo spazio di rifiuto della guerra non è omogeneo, ma
segnato da divisioni e da fratture. Sono note le divisioni all'interno
del movimento socialista e anarchico nella prima guerra mondiale.
In Italia il mito della guerra rivoluzionaria, al suono della
Marsigliese, si unì alla tradizione risorgimentale dell'Inno
di Garibaldi. Kropotkin, tra i maggiori esponenti dell'anarchismo
e teorico del mutuo aiuto, si unì a quanti sostenevano
la guerra contro la Germania, mentre Errico Malatesta si mantenne
fedele all'internazionalismo. Il socialista Bissolati, pacifista
e antimilitarista, si arruolò volontario, mentre Fanny
dal Ry, socialista rivoluzionaria, fin che le fu possibile continuò
a propagandare l'appello “Lavoratori di tutto il mondo
uniamoci!”. Una memoria divisa, dunque, anche in questo
caso. E la memoria divisa, come ha scritto Alessandro Portelli,
invita a riconoscere non tanto “memorie separate e antagonistiche
di soggetti diversi”, ma “una memoria lacerata al
suo stesso interno, una doppia coscienza inconciliata all'interno
di ciascuno individuo, di ciascun gruppo”.31
I più famosi poeti antimilitaristi britannici, per fare
un esempio, si erano arruolati volontari nell'agosto 1914. Analizzare
le ideologie quindi non è sufficiente: mai come nella
guerra, credo, si devono indagare gli scarti e gli interstizi
tra l'agire concreto e i principi professati o le convenzioni
sociali.
Menzogne e propaganda
Quanto ai racconti di guerra, va colta la tensione tra l'esperienza
individuale e il discorso ufficiale, in altre parole l'ambiguità
con cui l'esperienza diretta si misura con trame narrative e
clausole metriche di un discorso bell'e pronto che può
contare sulla forte pressione sociale e sul conformismo, oltre
che sulle misure punitive per chi se ne discosta. Lev Tolstoj
spiega bene come i reduci dalle battaglie modellino il racconto
delle propria esperienza ai cliché narrativi e alle aspettative
dell'uditorio: pena non essere ascoltati e non essere capiti.
Questa situazione fu comune tra i soldati della prima guerra
mondiale. L'esperienza al fronte fu ripugnante al punto da non
essere dicibile se non adattata alla retorica ufficiale.32
Il protagonista del romanzo di Remarque, Niente di nuovo
sul fronte occidentale, torna in licenza nel suo paese e
capisce che è inutile parlare con interlocutori che ripetono
e capiscono solo le frasi della propaganda: «Dunque, Lei
viene dal fronte? Bravo! Com'è lo spirito delle truppe?
Eccellente, nevvero? Eccellente».33
Le lettere spedite dai soldati a Romain Rolland confermano che
al soldato che torna in congedo si chiede di avvalorare le opinioni
delle retrovie, pena essere guardato con sospetto “come
un cattivo soldato”. Le madrine di guerra, commenta Rolland,
avevano “una parte notevole nel mantenere in piedi la
menzogna”; per non parlare dei soldati degenti in ospedale,
che “devono subire un duplice o triplice attacco: dalla
dama di Croce Rossa, dalla monaca, dal cappellano, ecc.”.34
Céline ha descritto bene la condizione del soldato tenuto
sotto osservazione perché non sanno se metterlo al muro
come anarchico o rinchiuderlo come pazzo in manicomio: quando
dice chiaramente all'infermiera americana di non voler morire
in guerra, lei lo abbandona, non riuscendo ad ammettere, come
commenta Céline, “che un condannato a morte non
avesse anche la vocazione”.35
Del resto il personale delle retrovie – la memorialistica
è piena di esempi – può mantenere il proprio
privilegio solo se ricaccia i soldati al fronte.
Una memoria ufficiale piena di bugie
Uno dei modi per celebrare un centenario sarebbe stato quello
di chiudere con il passato e di guardare al futuro. Non mi sarebbe
dispiaciuto fare un discorso per dire che cento anni sono più
che sufficienti per voltare finalmente pagina. Ho deciso però
che troppe cose ci legano a quegli anni di guerra. Mi è
capitato in questo intervento di citare nomi di uomini e di
donne che, avendo vissuto la prima guerra mondiale, hanno cercato
in tutti i modi di impedire il ripetersi di simili tragedie,
consapevoli che la memoria ufficiale che si andava costruendo
era piena di bugie. Se malediamo la guerra in nome dell'umanità
offesa non lo facciamo in altre parole per una sensibilità
dei giorni nostri, accentuata dal fatto di vivere in un'Europa
unita, o perché abbiamo ascoltato Joan Baez, letto Capitini
e don Milani, e partecipato alle grandi manifestazioni contro
la guerra in Iraq: certo, anche per questo, ma non solo. Il
rifiuto della guerra ci fu per davvero, durante il conflitto
e nella riflessione successiva dei sopravvissuti, tanto da stabilire
tradizioni culturali e politiche che ci chiamano tuttora in
causa e ci chiedono di prendere posizione tra diversi progetti
politici e differenti tonalità sentimentali. Sono state
semmai le interpretazioni ufficiali – nazionaliste e militariste
– a sminuire e cancellare tutte le altre, o a relegarle
nella sfera, considerata prepolitica, dei sentimenti o della
morale, soprattutto se le protagoniste sono donne. Limitarsi
a decostruire semplicemente il mito ufficiale significherebbe
rimanerne prigionieri.
Nel 1920 Karl Tucholski, autore di pamphlet antimilitaristi,
scriveva da Berlino: “Dignitosi arriviamo alla posterità,
talmente ritoccati che già oggi non ci riconosciamo più”.
In una lettera indirizzata a un futuro storico del 1991 egli
scrisse, a proposito del 1914: “Non presti fede all'archivio
del Reich! Le cose non sono andate così” eccetera.
In un altro articolo si rivolse ai giovani che sarebbero stati
“la Germania del 1940” per dire loro: “gli
ideali che vi hanno insegnato sono sbagliati!”.36
Queste donne e questi uomini di cui ho parlato non hanno potuto
cambiare il corso degli eventi, né evitare che la guerra
del 1914 fosse la prima delle guerre mondiali, ma fecero tutto
quanto poterono per scongiurare i posteri di non commettere
gli stessi errori. Sono passati cent'anni, i posteri siamo noi:
ascoltiamo le loro voci, le loro grida.
Piero Brunello
Questa è la relazione introduttiva al convegno “Tu
sei maledetta.Uomini e donne contro la guerra: Italia, 1914-1918”,
promosso dall'Ateneo degli imperfetti. Laboratorio di culture
libertarie (Marghera) e dal Centro studi libertari / archivio
G. Pinelli (Milano), Venezia 20-21 settembre 2014. Ringrazio
Filippo Benfante per quotidiane discussioni su questi temi;
brani staccati l'uno dall'altro sono diventati un intervento
per merito di Giannarosa Vivian. (p.b.)
Note
- Jay Winter, Il lutto e la memoria. La Grande Guerra nella
storia culturale europea [1995], il Mulino, Bologna 1998,
p. 191.
- Emilio Lussu, Un anno sull'altipiano (1945), introduzione
di Mario Rigoni Stern, Einaudi, Torino 2000, pp. 136-138;
la scena, con finale diverso, è ripresa nel film La
grande guerra di Monicelli. Un episodio simile, in cui
l'A. inquadra nel mirino un soldato nemico che sta facendo
il bagno e rinuncia a sparare (lo farà un commilitone
vicino), in Robert Graves, Addio a tutto questo (1929),
tr. di Annalisa Carena, Piemme, Casale Monferrato 2005, pp.
154-155.
- Stefan Zweig, Il mondo di ieri. Ricordi di un europeo,
cura e traduzione di Silvia Montis, Newton Compton, Roma 2013,
p. 190.
- Così l'opuscolo Coscritto, ascolta!, pubblicato
dalla Libreria editrice de L'Avanguardia di Roma, p.
71, cit. in Ruggero Giacomini, Antimilitarismo e pacifismo
nel primo Novecento. Ezio Bartalini e “La Pace”
1903-1915, Angeli, Milano 1990, p. 206 nota.
- Paul Fussel, La grande guerra e la memoria moderna,
il Mulino, Bologna 1984, pp. 12, 26-30, 40.
- Gaetano Salvemini, Le origini del fascismo in Italia.
Lezioni di Harvard, a cura di Roberto Vivarelli, Feltrinelli,
Milano 1966, pp. 97-121 (cap. Il colpo di Stato del maggio
1915).
- Gian Enrico Rusconi, L'azzardo del 1915. Come l'Italia
decide la sua guerra, il Mulino, Bologna 2009 (1 ed. 2005),
pp. 8-9; cfr. il paragrafo “Se l'Italia fosse entrata
in guerra nell'agosto 1914 a fianco delle politiche centrali”,
pp. 177-180.
- Fussel, La grande guerra cit., pp. 397-399.
- Antonio Gibelli, L'officina della guerra. La grande guerra
e le trasformazioni del mondo mentale, Bollati Boringhieri,
Torino 1991.
- Lo scritto di Freud in Sigmund Freud e Albert Einstein,
Perché la guerra (1932)? Considerazioni attuali
sulla guerra e la morte (1915). Caducità (1915),
trad. di Cesare L. Musatti, Silvano Daniele, Sandro Candreva
ed Ermanno Sagittario, Bollati Boringhieri, Torino 1975, pp.
15-51.
- Günther Anders, Opinioni di un eretico. Presentazione
di Stefano Velotti, trad. di Ranieri Callori, Theoria, Roma
1991 [1979], p. 78.
- Sigmund Freud, Perché la guerra? La risposta di
Freud (1932), in Freud - Einstein, Perché la
guerra? cit., pp. 64-80.
- Simone Weil, Non ricominciamo la guerra di Troia. (Potere
delle parole), 1937, in Ead., Sulla guerra. Scritti
1933-1943, Pratiche editrice, Milano 1998, p. 57 (lo scritto
alle pp. 55-74).
- Silvano De Fanti, Introduzione, in Józef Wittlin,
Il sale della terra, Marsilio, Venezia 2014, p. 19.
- L'autore e l'opera, ibid., p. 44.
- Frase originale e traduzione in http://it.wikipedia.org/wiki/Joseph_Roth.
- Andrea Latzko, Uomini in guerra (1917), trad. di
Amalia Sacerdote, Società editrice “Avanti!”,
Milano 1921, pp. 31-32.
- Virginia Woolf, Le tre ghinee, introduzione di Luisa
Muraro, trad. di Adriana Bottini, Feltrinelli, Milano 1979,
p. 64; Ead., Pensieri di pace durante un'incursione aerea,
in Per le strade di Londra, introduzione di Attilio
Bertolucci, trad. di Livio Bacchi Wilcock e J. Rodolfo Wilcock,
Il Saggiatore, Milano 1981 (seconda ed.), pp. 158-162.
- Winter, Il lutto cit., pp. 150-155. Cfr. Adriana
Lotto, Dal diario di Käthe Kollwitz 1914-1922,
“D.E.P. Deportate, esuli, profughe. Rivista telematica
di studi sulla memoria femminile”, 13-14 (2010), pp.
179-188.
- Molti esempi di ritorno dei soldati morti per invitare i
vivi a comportarsi degnamente, in George L. Mosse, Le guerre
mondiali. Dalla tragedia al mito dei caduti, Laterza,
Roma - Bari 2005, p. 88.
- Ibid., pp. 103-104.
- John Foot, Fratture d'Italia, Rizzoli, Milano 2009,
p. 69.
- Bruna Bianchi, “Militarismo versus femminismo”.
La violenza alle donne negli scritti e nei discorsi pubblici
delle pacifiste durante la Prima guerra mondiale, “D.E.P.
Deportate, esuli, profughe. Rivista telematica di studi sulla
memoria femminile”, 10 (2009), pp. 96-97, 106.
- Winter, Il lutto cit., p. 41.
- Anna Bravo, La conta dei salvati. Dalla Grande Guerra
a Tibet: storie di sangue risparmiato, Laterza, Roma -
Bari 2013.
- Simone Weil, Riflessioni sulla guerra (1933), in
Ead., Sulla guerra cit., pp. 38-39.
- Lucio Sponza, La BBC “in bianco” e “in
nero”. La propaganda britannica per l'Italia nella seconda
guerra mondiale, autunno 2013, in http://storiamestre.it/2013/12/bbcbiancoenero/.
- Salvemini, Le origini del fascismo cit., p. 113.
- Carlo Levi, Cristo si è fermato a Eboli, Mondadori
Editore, Milano 1968, p.119.
- Enzo Forcella, Apologia della paura, in Enzo Forcella
- Alberto Monticone, Plotone d'esecuzione. I processi della
prima guerra mondiale, Laterza, Bari 1968, p. XVI.
- Alessandro Portelli, Storie orali: racconto, immaginazione,
dialogo, Donzelli, Roma 2007, pp. 184-185.
- Fussel, La grande guerra cit., pp. 215-216.
- Erich M. Remarque, Niente di nuovo sul fronte occidentale
(1929), trad. di Stefano Jacini, Mondadori [collana Oscar],
Milano 1965, p. 138.
- Romain Rolland, Diario degli anni di guerra 1914-1919,
trad. di Giovanna Bonchio, Parenti, Milano-Firenze 1960, II,
p. 69.
- Louis-Fernand Céline, Viaggio al termine della
notte (1932), trad. di Ernesto Ferrero, Corbaccio, Milano
1992, p. 43.
- I testi di Kurt Tucholsky, in Susanna Böhme-Kuby, Non
più, non ancora. Kurt Tucholsky e la Repubblica di
Weimar, il melangolo, Genova 2002, pp. 10-12; Susanna
Böhme-Kuby, Kurt Tucholsky ai posteri, “L'ospite
ingrato”, VII (2004), 2, pp. 167-183; Alessandra Luise
e Susanna Böhme-Kuby, in Kurt Tucholsky. Quattro testi,
ibid., pp. 247-261.
continua
la lettura del dossier Abbasso la guerra
|