“Oltre noi dilegua”
Le canzoni e i percorsi
di Max Manfredi, visionario e giullare
Uno potrebbe pensare che, in tutto questo sfacelo, le canzoni
siano una cosa poco importante, ma non è vero: è
tutto così poco importante, che tutto è importante
in modo uguale, anche le canzoni.
Dice giustamente Giovanni Pascoli nella poesia Alexandros:
Alessandro Magno il conquistatore, colui che incide pesantemente
sulla Storia, si trova, dopo aver vinto e traversato ogni terra,
di fronte al mare, di fronte al nulla. Lì si chiede «tutto
qui?». E Pascoli gli fa dire «io non so perché
ho fatto tutto questo... c'era una canzone, un canto che intonava
Timoteo sul flauto»
“[...] Io non sapea di meta
che mossi. Un nomo di tra le are
Timotheo, l'auleta:
soffio possente d'un fatale andare,
la morte; e m'è nel cuor, presente
in conchiglia murmure di mare.
O squillo acuto, o spirito possente,
passi in alto e gridi, che ti segua!
questo è il Fine, è l'Oceano, il Niente...
e il canto passa ed oltre noi dilegua”.
Appunto, il canto resiste... la canzone è eterna e
ci oltrepassa, finché ci sarà memoria.
Chi parla è Max Manfredi. Cercare di intervistare Max
è un'esperienza disperante e avvincente. Sono vent'anni
che lo considero uno dei massimi scrittori di versi, i suoi
dischi li ho ascoltati uno dopo l'altro, man mano che uscivano,
con una selvaggia fame di parole, di ritmi, di immagini. La
sua lingua è vorticosa, acuta, aguzza, provocatoria.
La cura musicale, la ricerca di soluzioni armoniche e timbriche
inusuali per la canzone italiana, il canto sospeso fra la grazia
distante e impostata di toni quasi lirici e l'aggrovigliarsi
beffardo della dizione, in certe tirate più satiriche,
ne fanno un artista dalle tante sfaccettature, imprendibile.
Ha conquistato un bel pubblico di fedeli sostenitori, che lo
seguono nell'incessante attività live e che comprano
i suoi dischi a scatola chiusa, ma trattandosi di uno dei migliori,
o - come sosteneva de André - del migliore in assoluto,
penso che ci siano tanti che potrebbero ancora fare l'incontro
illuminante con le sue canzoni.
Da una diecina d'anni godo del privilegio di essergli amico
oltre che collega, mi è capitato di fare dei concerti
in comune, e di parlarci per nottate intere, ma non m'era mai
capitato di provare a indirizzare il suo discorso allo scopo
di tirar fuori dalle sue parole un articolo. È un mestiere
quasi impossibile: Max è un fiume in piena di visioni,
di intemperanze, di citazioni, di riflessioni filosofiche, battute
acide, improvvise cadute depressive... poi, se cerchi di portarlo
su un argomento che non gli interessa, si congela su un monosillabo.
A trascrivervi degli stralci di questa, a tratti folle, chiacchierata
che partiva dall'intenzione di presentare ai lettori di “A”
l'ultimo disco di Max dal titolo “Dremong” (è
il nome di un raro orso tibetano, probabilmente l'ispiratore
della leggenda dello Yeti, l'uomo delle nevi). È un disco
bellissimo, ricco di canzoni, immagini, viaggi in molti mondi
poetici e musicali, un'escursione fuori dall'ovvio o forse contro
l'ovvio, giacché «Accetto una sola etica»
dice Max «quella della bellezza, e quella la inseguo ossessivamente
brano per brano».
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Max
Manfredi |
Alessio. Eppure, proprio a concludere il tuo nuovo disco,
troviamo una canzone “etica”, un canto che fa esplicito
riferimento alla resistenza antifascista.
Max. Lo spunto per scriverla mi arrivò da un racconto
dell'amico Mario Mantovani, che mi suggerì il titolo
del brano Le castagne matte. Io avevo ideato una melodia,
che ho associato a quell'atmosfera, arrivando così alla
mia canzone. Contemporaneamente, l'allora presidente dell'ANPI,
aveva lanciato l'idea di scrivere una sorta di nuovo inno della
resistenza. Assieme a Claudio Roncone e Cristiano Angelini abbiamo
rielaborato il mio spunto, che è diventato Futuro
bella sposa (la si può ascoltare online). La canzone
che ne uscì ebbe un grande sostenitore in Don Andrea
Gallo, ma nonostante il suo entusiasmo non attecchì per
quello che si proponeva di essere. Mi è rimasta l'altra
versione, nata dalle stesse “cellule staminali”,
che mi somiglia e mi piace di più, e infatti ho messo
questa nel disco, e testimonia certo la mia simpatia per la
storia della resistenza, ma in modo non didascalico: una favola
eroica, che parla della sconfitta oltre che della vittoria della
resistenza.
“Sicuri che bruciare noi non si voleva più
le castagne matte la bella gioventù
il vento tra ponte e ferrovia
una “paloma” o un canto di anarchia
in tanti a resistere lassù
è normale quando non resisti più
bella sposa promesse che mi fai
non ti lascio tu non lasciarmi mai
traditora, sorride per un po'
sputa e si allontana con l'ultimo kapò”
A. Questo tuo “Dremong” è a suo modo
un disco già atteso dai suoi compratori, nel senso che
i costi sono stati finanziati attraverso una piattaforma di
crowdfunding online, che tu hai seguito capillarmente presentando
i brani del disco con una sorta di tournée preventiva.
Quest'esperienza - che nel tuo caso ha avuto un buon successo
- ti ha convinto? Trovi che sia un modo significativamente diverso
di procedere al finanziamento delle spese di un disco?
M. Direi, meno trionfalisticamente, che è solo una delle
strade possibili da percorrere, in assenza della strada maestra,
quella che troverei ancora la più auspicabile: l'etichetta/editore
che si fa carico di una scelta e produce un disco in cui crede.
Dal momento che questo è impensabile, tutte le altre
strade sono possibili: questa è una, il problema è
che - ad onta delle apparenze - non è molto democratica,
perché se non hai le persone che ti appoggiano non ricevi
il finanziamento che ti serve. Non a caso quelli che hanno cominciato
erano gruppi già famosi.
In rapporto diretto con il pubblico
A. Comunque è una sorta di produzione dal basso.
M. Non la chiamerei così: è una produzione che
non è né dall'alto né dal basso. È
un tentativo di avere un rapporto diretto con la committenza
(sempre sperando di allargare la clientela). Ormai il pubblico
finisce che lo conosci quasi individualmente, sia attraverso
la rete sia nei concerti, in un rapporto personalizzato che
si amplia in modo artigianale. D'altra parte è difficile
in questo paese allargare il proprio pubblico senza essere in
TV tutti i giorni, cosa che non mi càpita. Siamo tutti
costretti a prendere una strada picaresca, da giullare, fatta
di centinaia di concerti “porta a porta”, così,
lentamente, un consenso si condensa attorno a un prodotto -
questa volta davvero dal basso. Gli appassionati si condensano
lentamente intorno ai cantanti più resistenti convogliando
le loro magre risorse... ce ne sarà per tutti? Per parafrasare
John Belushi “quando il gioco non c'è più,
i duri cominciano a giocare...”.
A. La traiettoria di quello che scrivi è complessa
e difficile da vedere, tanto più che i tuoi dischi sono
composti come antologie che mettono assieme canzoni scritte
in tempi molto diversi, l'impressione è di trovarsi di
fronte a un caleidoscopio tanto bello quanto indecifrabile.
Come componi la scaletta di un disco?
M. I dischi sono sempre antologie: mazzi di fiori, magari con
la spina o l'insetto velenoso. Non è mai stato il mio
caso quello di concentrarmi su un tema per fare un disco. Un
mio disco è sempre una lotta contro il tempo, e non lo
dico nel senso “thriller” degli agenti segreti:
non dico “lotta contro il tempo” nel senso di fare
in fretta, fare prima, ma proprio di ingaggiare una battaglia
contro il concetto stesso di tempo ridefinendolo, vedendo quanti
e quali tipi di tempo ci sono oggi. I greci distinguevano il
tempo in Aion, Kronos e Kairos. Ecco, ora il Kronos è
certamente andato a male, è tornato a essere solo la
pendola, il capello che imbianca... “le mamme imbiancano”,
come dicevano le vecchie . Si è sfasciato tutto, sfaldato
tutto, non è più possibile ragionare in termini
lineari, il nostro tempo non è più leggibile,
non è che poi arriverà uno figo a dire «le
cose stanno così». Non c'è null'altro che
l'esperienza personale, che può diventare storica solo
nel momento in cui l'esperienza storica sia così tragica
da incidere sull'esperienza personale.
I miei dischi sono una lotta contro il tempo, che vorrei, come
si dice, ammazzare e quindi mi tocca riconoscerne le varie modalità,
così come il killer deve riconoscere le abitudini della
sua vittima.
A. Ci sono delle tue canzoni che, per quanto visionarie,
raccontano una storia. Penso in particolare a Luna
persa che dava il titolo al tuo precedente album. In questo
“Dremong” mi pare che le storie, quando ci sono,
sono più indecifrabili e che soprattutto le canzoni siano
qui paesaggistiche, che non abbiano un tema preciso, come Diadema,
o che parlino del tempo in senso proprio atmosferico come Piogge.
M. Le storie nelle mie canzoni, anche quando ci sono, hanno
un montaggio estremamente frammentato, un non-tempo. Una delle
mie più vecchie canzoni presenti in “Dremong”
è appunto Piogge,che è proprio il casoprincipe
del concetto ciclico del tempo che torna su se stesso.
A. È una canzone che si iscrive benissimo in una
tradizione, rinascimentale in senso letterario, ma anche della
canzone d'autore: a me fa pensare alla Canzone dei
dodici mesi di Guccini.
M. Perché a sua volta la Canzone dei dodici mesi si
riferisce proprio al rinascimento. Guccini è venuto prima
di me, e forse la sua canzone mi ha anche invogliato a fare
una cosa di quel tenore... non so più. Mi interessava
soprattutto le impressioni lungo l'anno, con questo segnalibro
della piogge, mese per mese, perché sempre, almeno una
volta al mese, piove.
Allargando il campo del linguaggio
A. Se già il linguaggio di Guccini è letterario
il tuo appare ancora più colto, più sorvegliato.
M. Sorvegliato e libero, certamente: la libertà vigilata
del linguaggio.
A. Brassens aveva coniato per la canzone la definizione
di “Poesia per tutte le tasche” tu però non
scrivi affatto “poesia per tutte le tasche”, nelle
tue canzoni c'è un linguaggio a triplo, quadruplo fondo,
che sembra più avere un rapporto con la letteratura che
con la canzone.
M. Direi più che altro un rapporto con la vita. Il che
non significa che siano canzoni autobiografiche, ma che hanno
rapporto con la mia vita: ciò che ho visto, di cui ho
sentito parlare, ciò che ho provato, che ho letto, che
ho visto in televisione, che ho sognato, che ho mangiato...
Io, diversamente da te, credo che le mie canzoni siano poco
letterarie, nel senso che non è più possibile
un riferimento alle letterature precedenti, che le rendeva più
mediate, e quindi più leggibili. Le mie sono canzoni
dove si allarga il campo del linguaggio comprendendo la vita
intera, e quando non c'è neppure l'apparenza di una storia
è il linguaggio stesso a farsi l'oggetto della canzone.
Ovviamente poi c'è il paradosso che più lo allarghi,
questo linguaggio, più lo devi sorvegliare.
C'è il racconto - in canzoni come Luna persa o
Jan di Leyda - il linguaggio deve starsene buono in nome
dell'esigenza epica (che poi non se ne sta buono lo stesso).
Dal momento in cui non c'è più quest'esigenza
- come in certe canzoni di “Dremong” - il linguaggio
fa un po' quello che gli pare. Del resto è in casa sua.
Alessio Lega
alessiolegaconcerti@gmail.com
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