Sobrietà
nell'abbondanza
Il
libro di Pierre Rabhi La sobrietà felice (Add
Editore, Torino, 2013, p. 192, € 15,00) ben si sposa con
quello di Maurizio Pallante, Monasteri del terzo millennio,
recensito lo scorso numero. Addirittura direi che i due si completano
a vicenda avendo entrambi a cuore il comune denominatore di
favorire tutte quelle azioni che aiutino la comprensione della
necessità impellente di smetterla di “crescere”,
ma fondare nuovi paradigmi di pensiero che colleghino passato
e futuro creando nel presente una vita sostenibile per tutti.
Pierre Rabhi è di origini algerine e vive in Francia,
nella zona dell'Ardèche, facendo l'agricoltore, da quando
aveva poco più di vent'anni. Da allora insieme a sua
moglie e alla sua famiglia ha pian piano trasformato un luogo
spoglio e austero, come dice lui stesso, in una modesta oasi,
in un piccolo regno di pazienza che offre loro da vivere e dove
hanno costruito la loro vita legata a quella della natura. È
risaputo che il “miracolo economico” che ha avvantaggiato
- e chissà se continua ad avvantaggiare - solo un quinto
dell'umanità, è potuto avvenire perché
i Paesi del Sud hanno fornito materie prime e manodopera a buon
mercato. Oggi i risultati di questo squilibrio planetario sono
divenuti macroscopici, così «non avendo costruito
il mondo con umanità, si è costretti a fare azioni
umanitarie». Per cercare di limitare proprio questo tipo
di interventi, fra le molte sue attività, Rabhi insegna
tecniche d'agro-ecologia in parecchi Paesi del Sahel (Burkina
Faso, Niger, Mali) e anche nel Maghreb, in modo tale che i contadini
poveri possano fertilizzare una terra difficile senza dover
ricorrere ai concimi chimici per i quali, oltretutto, dovrebbero
indebitarsi.
Nel pensiero di questo “poeta della terra” c'è
l'idea che l'unica cosa veramente utile da fare sia cambiare
l'essere umano, cominciando con l'insegnargli, fin dalla più
tenera età, a essere solidale con il suo prossimo e non
entrare nel circolo vizioso della competizione. Come molti,
anche lui è convinto che l'azione politica sia ovunque,
in ogni atto della vita quotidiana e nel comportamento di ogni
consumatore. Anche coltivare il proprio giardino è un
atto politico, un atto di resistenza che ci riporta al senso
dell'umano. Sull'onda di questi pensieri, dalla sua esperienza
personale e dagli incontri intessuti con altre persone sono
nate diverse e interessanti esperienze collettive di cui si
può avere notizia sul web (vedi: www.lesamanins.com
– www.colibris-lemouvement.org
– www.la-ferme-des-enfants.com
– www.oasisentouslieux.org).
Ma torniamo al libro e all'idea di sobrietà felice. Per
essere chiaro e far comprendere a fondo l'idea di vita sottesa
a queste due parole Rabhi si avvale di racconti e metafore,
confronta antichità e modernità, cercando di non
mitizzare, tantomeno demonizzare, nessuna delle due. Racconta,
e per farlo parte dalla sua storia e da quelle altrui. Non è
un teorico ma un uomo legato alla terra e il suo parlare ha
la stessa risonanza delle fiabe, un linguaggio semplice ma,
proprio per questo, estremamente efficace. Partendo dall'odierna
contingenza chiarisce e rende evidente ciò di cui da
sempre abbiamo bisogno, ciò che è importante perché
costruisce fondamenta nell'animo in subbuglio.
Mi spiego meglio e, come esempio, riporto alcune righe da un
articolo comparso su Il manifesto (del 14/5/14, a proposito
del libro di Hessel Esigete! Un disarmo nucleare): «Il
budget del nucleare militare nel mondo per i prossimi dieci
anni è previsto in mille miliardi di euro. Una cifra
che non include il grande comparto di spesa che finanzia l'intersezione
fra nucleare militare e civile...». Proseguo, citando
dal libro di Rabhi: «Ogni sperpero è proibito dalla
morale sacra in quanto offesa alla natura e ai principi che
la animano [...]Questa sobrietà nell'abbondanza è
una lezione di nobiltà. Pensiamo al magnifico discorso
che il capo indiano Seattle ha indirizzato al presidente degli
Stati Uniti, il quale gli proponeva di acquistare il territorio
del suo popolo [...]: “Io sono un selvaggio e non conosco
altro modo di vivere. Ho visto un migliaio di bisonti marcire
nella prateria, abbandonati dall'uomo bianco che li aveva abbattuti
sparando da un treno di passaggio”».
Trovo questa immagine emblematica di tutto ciò che ci
ha portato alla condizione in cui siamo, e siamo ancora lì,
soltanto con strumenti molto più pericolosi dei fucili
(vedi il nucleare di cui sopra). L'inutile sterminio della vita
(inquinamento del suolo e dei mari, sfruttamento delle risorse
fossili, deforestazione, guerre su guerre e poi, come ciliegina
sulla torta, il nucleare, civile e militare) sembra non aver
fine. Una parte potente dell'umanità è assolutamente
folle e la nostra specie, insieme a tante altre, è a
rischio d'estinzione.
È una lotta impari e tanto vale arrendersi, verrebbe
da dire. Invece sono proprio figure come quella di Pierre Rabhi
– e molte altre affini, anche in ambiti diversi, magari
poco conosciute, ma che esistono e lavorano – che ci sostengono
nello sforzo di opposizione. Sono loro a costituire lo zoccolo
duro che rema al contrario, che alla distruzione oppone costruzione
di realtà vitali e pensiero intelligente, che permette
all'umanità intera di non precipitare completamente nel
baratro. Esempi di persone normali che hanno iniziato ad agire
partendo dalla propria vita, scegliendo di non rinunciare alla
propria libertà in cambio di denaro, inventori di strategie
della sopravvivenza.
«La sobrietà felice non può ridursi ad un'attitudine
individuale, ripiegata su se stessa. Partendo da uno stile di
vita personale, siamo tassativamente invitati a lavorare per
la sobrietà nel mondo. Passare dalla logica del profitto
senza limiti a quella della vita è una questione di cambiare
paradigma, come dicono gli scienziati. [...] Rifondare il futuro
sulla logica della vita implica innanzitutto rinunciare ai miti
fondatori della modernità, incompatibili con tale proposito.
[...] Cambiare paradigma significa, secondo le nostre aspirazioni,
mettere l'uomo e la natura al centro delle nostre preoccupazioni
e mettere tutti i mezzi di cui disponiamo al loro servizio.
[...]”Solo dopo che l'ultimo albero sarà stato
tagliato, che l'ultimo fiume sarà stato avvelenato, che
l'ultimo pesce sarà stato catturato, solo allora scoprirete
che il denaro non si mangia”. Questa profezia è
pura intelligenza, quella delle popolazioni autoctone, primitive,
tradizionali, poco importano gli aggettivi».
Sarebbe utile che ognuno di noi invece che vivere “come
sempre” facesse della propria quotidianità il campo
di sperimentazione, sarebbe utile ricavare le teorie dal confronto
delle pratiche, sono molti quelli che ci stanno provando e anche
su queste pagine sono comparse diverse testimonianze in tal
senso, ma ciò che un libro come questo sollecita è
l'estensione a macchia d'olio, qualcosa che abbia la forza di
allargarsi e allargarsi. La forza dei piccoli che fanno la loro
parte.
Silvia Papi
Rudolf
Rocker,
ovvero l'importanza della cultura per la liberazione
David
Bernardini, l'autore del libro Contro le ombre della notte.
Storia e pensiero dell'anarchico tedesco Rudolf Rocker (Zero
in condotta, Milano, 2014, pp. 148, € 12,00) che scrive
di aver incontrato Rocker per caso, ha colmato una lacuna nel
panorama storiografico italiano relativo al rivoluzionario tedesco,
che fu protagonista delle principali vicende dell'800 e della
prima metà del 900. Trattare di Rocker vuol dire trattare
di un vasto periodo storico, che si snoda dalla presenza di
Bismark in Germania, all'avvento del secondo dopoguerra. Il
libro di Bernardini è prevalentemente rivolto agli aspetti
biografici del pensatore e militante, ma non esclude la descrizione
del più maturo pensiero di Rocker, quale emerge dall'opera
maggiore Nazionalismo e Cultura.
La biografia di Rocker consente al lettore di comprendere come,
in Rocker, si sia sviluppato il concetto, profondamente caratterizzante
la sua teoria dell'anarchismo, della cultura, intesa come valore,
che ha una funzione emancipatrice, antitetica al potere. Il
libro individua le basi della formazione di Rocker nella Germania
bismarckiana, percorsa dalla prime scissioni a sinistra di gruppi
consistenti di giovani socialdemocratici, mentre nella clandestinità
sono diffuse le letture degli scritti di Bakunin, che suscitano
entusiasmi nell'ambiente politico nel quale Rocker muove i suoi
primi passi. A 19 anni Rocker, per le sue idee politiche, è
costretto ad emigrare prima a Parigi, nel periodo tempestoso
della propaganda del fatto e successivamente a Londra, dove
vive e milita, diventando il portavoce dei lavoratori ebrei,
avendo studiato l'yiddish a Parigi e votandosi alla loro causa.
Massimo Ortalli nel libro Ritratti in piedi, dialoghi tra
storia e letteratura, Imola, 2013, in Un giovedì
da anarchici. Attorno all'uomo che fu Giovedi di Gilbert
Keith Chesterton (1908 pag 434), scrive che nei primi anni del
900 “a Londra vivevano ed operavano personaggi quali ad
es. Kropotkin, Malatesta, Rocker, Malato, Tcherkesow, Shapiro,
Tarrida del Marmol”, ... ossia a dire gli esponenti più
noti dell'anarchismo internazionale.
Max Nettlau in Histoire de l'anarchie Paris (p. 235)
scrive che negli ultimi anni dell'800 “uno dei movimenti
anarchici europei fra i più intensi e diffusi fu quello
degli ebrei dell'antica Russia e della Galizia austriaca, che
parlavano l'yiddish, cioè un tedesco mischiato a numerose
parole ebree e slave. Gli emigrati ebrei hanno creato dei forti
movimenti operai, soprattutto a Londra e negli Stati Uniti;
socialisti dal 1885 circa, in gran parte anarchici dal 1890,
provvisti di giornali di lunga durata, di opuscoli, di traduzioni.
La Rivista Germinal fu redatta da Rudof Rocker che, attirato
da questo movimento, seppe dominare la lingua parlata e scritta”.
Sono anni fondamentali nella formazione di Rocker, inserito
nel mondo cosmopolita della immigrazione, bruscamente interrotti
dallo scoppio della I guerra mondiale. L'ondata di sciovinismo,
che si abbatte su tutti quei cittadini che, anche naturalizzati
inglesi da generazioni, provengono dai Paesi belligeranti con
l'Inghilterra, e la Germania è fra questi, non risparmia
Rocker e la sua famiglia, dividendola per la durata della guerra
e imprigionando Rocker, con i suoi connazionali, nei campi di
concentramento allestiti dal governo inglese per i nemici interni.
La cura dettagliata con la quale Bernardini descrive il periodo
londinese, le traversie che seguono all'internamento e la successiva
esperienza, una volta rientrato Rocker in Germania nel primo
dopoguerra, del sorgere e dell'avvento del nazismo mette in
grado il lettore di capire perché Rocker attribuirà,
nella sua opera maggiore, prioritaria importanza alla cultura
per l'emancipazione degli individui e dei popoli.
Cultura della libertà, intesa come strumento forgiato
per opporsi al fanatismo ideologico, dalle caratteristiche populiste,
promosso dal potere, che Rocker riscontrerà di nuovo
operativo sia nella marcia di conquista del nazismo in Germania
che nel suo suggello elettorale. Alla opposizione in linea di
principio, se non all'ostilità di Rocker nei riguardi
della democrazia, e nello specifico delle democrazie occidentali,
impotenti per anni di fronte al sorgere del fascismo e del nazismo,
fa riscontro un vero entusiasmo per il classico pensiero liberale,
del quale Rocker ha illustrato la variante nord-americana nel
libro I pionieri della libertà.
Con la precisazione però che, come scrive Cesare Zaccaria,
nella introduzione al primo volume di Nazionalismo e Cultura
nell'edizione del 1960, “È ovvio che quando Rocker
parla di “liberalismo” come di un movimento che
si separa dalla democrazia e che solo fino ad un certo punto
trova sede nei movimenti socialisti, egli ha in mente i liberali
delle società anglosassoni, non certo i conservatori
nostrani che per noi si mascherano con tale nome”.
L'autore ci mostra come, arrivato dopo il periodo inglese nella
Germania della rivoluzione dei consigli, sorta nel vuoto di
potere seguito alla sconfitta bellica, Rocker contribuisce,
nel congresso tenuto tra il 27 e 30 dicembre 1919 a Berlino,
dalla Libera Unione dei Sindacati tedeschi, all'importante dichiarazione
dei Principi dell'anarcosindacalismo, che si richiama esplicitamente
ai postulati di Saint-Imier. Rocker resta attivissimo durante
la Repubblica di Weimar, battendosi contro il bolscevismo e
le sue persecuzioni antianarchiche e contro il sorgente nazismo,
finchè in circostanze drammatiche, appena insediatosi
Hitler, riesce a sfuggire al nazismo e giungere negli Stati
Uniti, con la compagna ed i figli.
La biografia di Rocker, come scritta dall'autore, non trascura
la personalità di Milly e non la appiattisce nella funzione
di compagna devota, ma la descrive nelle sue relazioni con il
compagno e con il movimento nord-americano ed internazionale,
nonché nella sua autentica personalità e nella
sua tenacia nelle idee condivise con il compagno.
Il rifugio americano è l'ultima tappa dell'esistenza
di Rocker. Con la sua morte il 10/9/1958 non termina la vita
delle sue idee, racchiuse soprattutto nella sua opera maggiore,
che è stata tradotta nella maggior parte delle lingue
del mondo. Senza doversi chiedere ancora se l'anarchismo di
Rocker sia di derivazione liberale o bakuninista, perché
in effetti deriva da ambedue le fonti, è da sottolineare
il suo messaggio universale di condivisione delle sorti dei
più oppressi, come Rocker testimoniò con tutta
la sua vita. Nelle sue memorie Rocker ricorda “gli anarchici
di origine tedesca e francese dei quartieri occidentali di Londra”
che, durante la prima guerra mondiale allestiscono le cucine
economiche “per aiutarsi e soccorrersi vicendevolmente,
mentre nel continente migliaia di proletari, eseguendo gli ordini
dei loro governi, cercavano di togliersi l'un l'altro la luce
della vita” (p. 65, Contro le ombre della notte).
La capacità di pensare per vasti orizzonti, che Rocker
ebbe in sommo grado, pur essendo allo stesso tempo ben radicato
nelle lotte quotidiane di base, a Londra come in Germania, a
Parigi come negli Stati Uniti, venne colta con acutezza e lungimiranza
da Aurelio Chessa nella sua introduzione al libro di Rocker
“Artisti e Ribelli Scritti letterari e sociali”.
Aurelio Chessa, che pubblicò questo libro nel 1996 scrisse,
fra l'altro che; “la lettura di questo testo offre l'occasione
di conoscere alcune delle caratteristiche fondamentali e originarie
dell'anarchismo internazionale a cavallo tra 800 e 900. In particolare
gli scritti di Rocker rappresentano una critica stringente e
puntuale delle correnti socialdemocratiche e autoritarie presenti
nel movimento operaio. Esse, in un periodo storico come quello
attuale, in cui un imperante conformismo tende a distruggere
ogni sana aspirazione all'uguaglianza e alla libertà,
possono rappresentare un importante riferimento ideale per le
giovani generazioni”.
Enrico Calandri
Una
storia mondiale
dell'anarchia
Quasi trecento pagine per raccontare e documentare un'appassionante
e coinvolgente storia mondiale dell'anarchia. Lo fa Gaetano
Manfredonia in un libro fresco di stampa (Histoire mondiale
de l'anarchie, Arte Editions/ Editions Textuel, Parigi,
2014, pp. 288, € 45,00). In un'elegante veste tipografica
il volume, con centinaia di foto e immagini di grande qualità
a colori e in bianco e nero, ripercorre la storia dell'anarchia
dalle origini ai giorni nostri.
Dal 1789, l'anno della rivoluzione francese che l'autore considera
la maggiore rottura rivoluzionaria nella storia contemporanea
e un ponte tra le idee e la pratica anarchica, fino alla caduta
del muro di Berlino, Manfredonia ci offre - con una straordinaria
e intelligente capacità di sintesi - l'essenziale dei
valori, delle idee e delle lotte degli anarchici. Dall'Italia
alla Francia, dalla Spagna alla Russia, dall'Argentina gli Stati
Uniti, dall'Egitto a Israele, dalla Cina al Giappone nel volume
si trova per la prima volta insieme la storia mondiale degli
anarchici e dell'anarchia, attraverso storie e vicende di uomini
e di donne, attraverso le copertine dei libri e le prime pagine
dei giornali in ogni lingua, compreso un periodico anarchico
in lingua yiddis, Arbeter fraynt, pubblicato a Londra
dal 1885 al 1914. Una storia di passione e di partecipazione
disinteressata, che si intreccia con persecuzioni e sacrifici,
che non ha eguali nelle altre storie del pensiero politico,
in quanto l'anarchico, in qualunque latitudine e longitudine,
non ha mai lottato per conquistare un qualsiasi potere o per
interessi personali, ma esclusivamente per la libertà
di tutta l'umanità.
|
Gaetano Manfredonia |
La qualità e la varietà dell'iconografia conferisce
a questo volume, del quale si auspica anche un'edizione italiana,
un carattere speciale di tensione politica e di documentazione
storica ed archivistica: le foto, le riproduzioni di lettere
e di manoscritti, di canzoni e di caricature, che provengono
da vari archivi anarchici, sparsi nel mondo, testimoniano in
maniera eloquente come l'anarchismo ha contributo a fare evolvere
e a far migliore la società e la vita, rivendicando e
difendendo i valori dell'autonomia, della libertà e della
solidarietà tra tutti gli uomini. Documenti inediti e
vivi, perché parlanti nel loro silenzio, rimettono in
scena uomini e donne che, nel loro contesto sociale e politico,
hanno costruito con coerenza le tappe storiche di un cammino
di libertà. Il volume affronta anche tematiche di grande
interesse e ancora oggi dibattute, come l'individualismo e l'insurrezionalismo,
il collettivismo e l'illegalismo, il sindacalismo, la geografia,
la morale, la solidarietà, il femminismo, ecc.
Il volume è diviso in tre parti. Nella prima parte, dalle
origini al 1914, si parla dell'anarchia e dell'anarchismo, delle
rivolte individuali e delle azioni collettive e di come cambiare
l'individuo per cambiare la società. La seconda parte
riguarda gli anarchici tra guerra e rivoluzione nella morsa
delle due guerre mondiali, la loro opposizione alla guerra e
il loro pacifismo al di sopra delle frontiere, la loro opposizione
concreta al fascismo, al nazismo, al franchismo e al bolscevismo.
La terza parte è dedicata alla continuità della
lotta anarchica, per costruire un mondo nuovo e libero, soffermandosi
sulla difficile ricostruzione del movimento anarchico, sul dopo
franchismo, su Cuba libera, sui kibboutz israeliani, sulle lotte
anticoloniali, sulle lotte per l'obiezione di coscienza al militarismo
fino al maggio 68 e all'ecologia sociale. Una panoramica quanto
mai interessante, nel corso della quale incontriamo - giusto
per citare qualche nome tra i tanti - Charles Fourier, Joseph
Produdhon, Michele Bakunin, Eliseo Reclus, John Most, Max Nettlau,
Errico Malatesta, Nestor Makhno, Rudolf Rocker, Francisco Ferrer,
Pietro Kropotkin, Pietro Gori, Louis Leçoin, Luisa Michel,
Emma Goldman, Voltairine De Cleyre, Leda Rafanelli, Giovanni
Rossi, Giuseppe Pinelli, Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti.
Anche se pubblicato da due case editrici francesi, il libro
è stato stampato da una tipografia italiana e Gaetano
Manfredonia è un anarchico italiano di origini foggiane,
che da molti anni vive e lavora in Francia come professore di
scienze economiche e direttore delle biblioteche territoriali
e della Biblioteca de la Corrèze e, oltre a collaborare
alla stampa anarchica, ha pubblicato in lingua francese ricerche
su Luigi Fabbri, sulle canzoni anarchiche e nel 2001 il volume
L'anarchismo in Europa.
Per le richieste, www.arteboutique.com
oppure www.editionstextuel.com.
Giuseppe Galzerano
Dalla
parte
dei contadini di Biancavilla
Quella di Antonio Bruno è stata una delle più
singolari e originali delle esperienze letterarie siciliane
del secolo scorso, iniziata ormai più di cento anni fa,
nel 1913, con la pubblicazione dei suoi due primi libri: il
saggio Come amò e non fu riamato Giacomo Leopardi
e la raccolta di poesie dal titolo More di macchia.
|
Antonio Bruno |
Nato a Biancavilla, in provincia di Catania, il 1891, unico
figlio di una famiglia nobile e agiata, Bruno, dopo un'approfondìta
formazione scolastica ricevuta al Convitto Cutelli di Catania,
sotto il magistero del docente e scrittore Francesco Guglielmino,
vivifica i suoi interessi letterari, che poggiano sulla solida
e ben assimilata conoscenza dei classici, guardando al suo tempo
e appassionandosi alle poetiche, ai proclami e ai poemi dei
futuristi che sembrano infiammare, con la loro diffusa presenza,
città e paesi della Sicilia intera; che sono attivi nella
Catania colta e aperta al nuovo che lui frequenta e finanche
nella più vicina e piccola cittadina di Regalbuto, distante
pochi chilometri da Biancavilla, dove proprio nel 1913 si reca
Filippo Marinetti e vi trova un circolo di poeti futuristi che
lo meravigliano per vivacità e creatività, tanto
che, preannunciando in una lettera ad Aldo Palazzeschi che gli
parlerà di loro, lo informa, intanto, che 'fanno cose
da pazzi'. Approdato, quindi, con convinzione e fervore, al
futurismo, Bruno ne diventerà ben presto uno dei migliori
e più partecipi esponenti. Contribuerà a fondare,
a Catania, la rivista Pickwick, il prodotto più raffinato
dell'avanguardia letteraria della città; poi, lasciata
la sua terra odiata-amata e stabilitosi a Firenze, parteciperà
alla redazione de L'Italia futurista, la rivista diretta da
Emilio Settimelli, e nel 1917, scriverà Fuochi di bengala,
uno dei suoi libri migliori - un originalissimo collage di poesie
visive, di pagine di diario, di lamentazioni e provocazioni
e di canti che esaltano l'amore-passione contro le limitazioni
della morale piccolo-borghese, perbenista e provinciale del
suo tempo - che accrediterà il suo genio letterario,
non solo nell'ambiente degli scrittori futuristi ma in generale
nel più vasto mondo della cultura e della critica letteraria
italiana.
A testimoniare gli auguri, gli apprezzamenti e i commenti entusiastici
di scrittori e intellettuali, di vario orientamento culturale,
per questa sua opera e in generale per la sua raggiunta eccellenza
poetica - che rimase però allora, e lo è ancora
oggi, poco conosciuta e valorizzata - sono le carte d'archivio
di Antonio Bruno, recuperate qualche anno fa e adesso conservate
(e messe a disposizione del pubblico e degli studiosi) alla
Biblioteca Comunale di Biancavilla. Artefice dell'operazione
di ritorno al luogo d'origine dei documenti di Bruno, è
stato il cultore di storia locale Placido Sangiorgio, che si
è adoperato affinchè un parente dello scrittore,
Alfio Fiorentino, donasse, nel 2011, al Comune di Biancavilla,
il prezioso tesoro cartaceo che suo nonno aveva ereditato, settantanove
anni prima, dallo scrittore. Lo stesso Sangiorgio ha curato,
sempre nel 2011, la pubblicazione di un bel volume che riproduce
buona parte delle 'carte segrete' che testimoniano della suggestiva
'avventura futurista' di Antonio Bruno e che svelano quanto
ampio e variegato fu il coro di giudizi positivi nei confronti
del suo libro Fuochi di bengala, espressi, in accorate lettere,
da Ada Negri ('vi è una vellutata delicatezza nelle pagine
che lei scrive, vi sento il tocco di un'arte fine, il palpito
di un cuore ancora bambino, gli accenti di una meravigliata
sensibilità'), da Giuseppe Borgese ('le sue pagine sono
piene d'ingegno'), da Dino Campana ('il vostro libro mi piace
perché c'è la saldezza della tempra aristocratica
che è necessaria per salvare il carattere nella letteratura'),
da Giovanni Verga ('ancora molto lei potrebbe darci, anche senza
gli astrattismi futuristici perché il futuro è
in lei') e da tanti altri.
Ma le carte inedite del poeta di Biancavilla offrono la possibilità
di 'leggere' tutto il suo articolato e difficile percorso umano
e poetico. Vi si trovano, infatti, le tracce del suo rapporto
problematico con il paese natio (dove, come gli scrisse, sapendo
di compiacerlo, il suo amico Filippo Leocata 'le anime d 'eccezione
vengono torturate da un' intellettualità grottesca, da
un' imbecillità diffusa e da una delinquenza imperante')
che lo portò per tutta la sua breve vita a fughe disperate
e liberatorie (a Firenze, a Parigi) e a nostalgici ritorni,
quasi sempre deludenti; i numerosi abbozzi di trame e spunti
narrativi; le lettere a donne amate a lungo e follemente e ad
altre che gli furono compagne di poche ore (e quelle, sempre
affettuose indirizzate ai suoi genitori); i disegni e gli schizzi
di futuristiche parole in libertà; tanti fogli di diario;
le diverse testimonianze sulla sua produzione letteraria migliore
(Un poeta di provincia, 50 lettere d'amore alla signorina Dolly
Ferretti, etc.) e sulla sua attività di traduttore (di
un' opera del francese Pierre Louys e del celebre racconto Il
corvo di Edgar Allan Poe); le corrispondenze importanti con
l'artista Giacomo Balla, con Giuseppe Ungaretti etc., ed anche
i reperti grafici e testuali del suo degli ultimi anni della
sua vita (a cui deciderà di porre fine con il suicidio,
avvenuto nel 1932 nella stanza di un modestissimo albergo di
Catania) quando proverà a scrivere un poema dai versi
visionari, utopici e anarchici che intitolò Canti Nuziali
di Maria d'Albaville ad Antonio il Bruno all'alba della Terra
Nuova,, firmandolo con lo pseudonimo di Conte d'Alberville.
Inoltre, il volume, tra tanto e interessante materiale documentario,
riporta anche gli scritti del giovanissimo Bruno, dove l'entusiasmo
per le lettere e le arti si coniugava con la passione politica
e la difesa degli umili e degli oppressi che lo scrittore vedeva
concretamente nei contadini delle campagne di Biancavilla, ai
quali, mostrando la sua sensibilità umana e i suoi convincimenti
egualitari, rivolgeva così le sue parole in un manifestino
pubblico scritto a difesa dei loro diritti e fatto stampare
a sue spese: 'Voi mi piacete quando soggiorno nel luogo dove
sono nato, perché solo in Voi, nei vostri cuori semplici,
vivono per istinto il senso della giustizia e della bontà
che l'uomo porta con sè dalla nascita, e che la società
coi suoi ordinamenti stabiliti dai più potenti e dai
più crudeli rende inutili e dannosi, in una necessità
immorale di lotta per l'esistenza, non dell'uomo contro la natura
inclemente e avara dei suoi beni, ma dell'uomo contro l'altro
uomo, al fine di sopraffarlo e di godere del lavoro di lui e
della sua sopraffazione'.
A più di cent'anni dal suo inizo, l'avventura poetica
di Bruno meriterebbe sicuramente maggiore fama e diffusione
e lo studio ulteriore delle sue carte, consultabili nella sede
della biblioteca di Biancavilla, potrebbe ben servire allo scopo.
Silvestro Livolsi
Poesie
dal profondo carcerario
La narrazione in forma poetica della realtà carceraria
è la proposta di questo breve, ma intenso contributo
di Maria Grazia Greco (Matricola n. 20478. Il carcere che
si prende la vita, Sensibili alle Foglie, Cuneo, 2014, pp.
96, € 14,00).
Interessi
su tematiche dell'emarginazione, del disagio sociale e attività
di impegno civile hanno portato di recente l'autrice a decidere
di lavorare come docente a Rebibbia, nel reparto G12-Alta Sicurezza.
Il reparto speciale per mafiosi, camorristi, narcotrafficanti,
per chi è condannato a “fine pena mai”. E
nel reparto G9, quello dei pedofili e stupratori dove chi ci
arriva è emarginato anche dal codice non scritto dagli
stessi carcerati.
“Perché mi avete messo qua
nel reparto speciale
il reparto degli infami
dei paria
degli 'intoccabili'
quelli scansati schifati da tutti
pederasti spie stupratori guardie infedeli
Superiore, te l'ho detto!
Non sono un pederasta, io!
Sì che lo sei.
Se c'è scritto qui è vero.”
Un'esigenza di riflessione e di denuncia, un'altra voce che
decide di restituire attraverso parole in versi la non-vita
del carcere. La lettura, la cantabilità, l'accostamento
più intimo dei versi liberi contribuiscono ad elaborare
nell'immaginario la realtà dei reietti umani.
Uno spiraglio, la scelta di sedersi tra i banchi di scuola in
un carcere. Volontà di elevazione culturale e intellettuale,
e insieme aspirazione al reinserimento nella società.
Un'altra possibilità di vita, una volta scontata la pena:
“la scuola in carcere è un'opportunità
che non si può,
che non si deve perdere
un possibile orizzonte d'umanità,
di elevazione
per chi impara e per chi insegna,
per voi che apprendete da noi
per noi
Sì, anche per noi”
Una pena che suona come una vendetta. Senza speranza. Senza
appello. Ogni istante là, sottratti alla vista, in celle
3x4, si muore di carcere.
“Superiore, se mi lasciate qui con i pederasti...
Io...IO M'IMPICCO
E Impiccati!
Sai che perdita?
Solo uno dei tanti
Solo un rifiuto di meno
Un rifiuto puzzolente di meno!”
Una scrittura immediata e profonda, ricca di forza che costringe
a pensare. Parole per un teatro civile, capace di smuovere le
coscienze e svelare allo sguardo pubblico la disumanizzazione
in atto.
Claudia Piccinelli
Alle
origini
dell'anarcha-feminism
Nel suo libro La donna più pericolosa d'America (La
Fiaccola, Ragusa, 2014, pp. 112, € 12,00), Pamela Galassi
spiega le motivazioni che la portano a considerare l'anarchica
Emma Goldman come la “epioniera del femminismo contemporaneo”.
Ritenuta una delle prime militanti femministe, durante l'arco
della propria vita si prodigò affinché la questione
dell'emancipazione della donna potesse considerarsi argomento
di assoluta importanza, soprattutto all'interno dei movimenti
radicali.
In forte e aperto contrasto con i movimenti suffragisti dell'epoca,
concentrati principalmente sull'acquisizione del diritto di
voto e da lei giudicati “da salotto”, promulgò
la necessità per le donne di un'emancipazione dagli agenti
esterni (patriarcato, restrizioni economiche, restrizioni politiche)
e interni (moralismi), ma anche dalla stessa idea di emancipazione
proposta dalle aderenti al movimento suffragista.
“Goldman,
partendo dalla convinzione che l'indipendenza delle donne prenderà
il via da una rigenerazione dell'individuo-donna non solo a
livello esteriore, attraverso miglioramenti economici e politici,
ma anche, anzi soprattutto, interiore, da una trasformazione
del modo di pensare, afferma che per liberarsi dagli ostacoli
esteriori e interiori è necessario opporsi al dominio
che le istituzioni esercitano sui corpi e le menti, un dominio
che distorce la personalità, che porta alla passività,
all'omologazione. All'interno del processo di rottura da questa
dipendenza economica e psicologica, il tema della sessualità
diviene centrale soprattutto per l'individuo-donna, secolarmente
oppressa dal patriarcato e dalla morale puritana”.
L'autrice sottolinea come il femminismo di Goldman sia diretta
espressione della tipologia di anarchismo di cui si faceva promotrice
e che poneva l'individuo al centro della società. Per
lei, ogni singolo doveva liberarsi da coercizioni di qualsiasi
natura poiché solo in questo modo la rivoluzione avrebbe
potuto compiersi. “L'individuo [...] necessita di operare
una profonda liberazione personale, in quanto mutamento personale
e mutamento sociale sono due elementi inscindibili di un unico
processo rivoluzionario”.
Affinché una rivoluzione potesse avvenire, era indispensabile
il verificarsi dell'affrancamento da tutte le imposizioni che
non permettevano a uomini e donne di vivere liberamente. Per
Goldman, quindi, la questione femminile era elemento indispensabile
per una rivoluzione sociale. Questa sua convinzione la portò
a scontrarsi con molti compagni anarchici e appartenenti a movimenti
radicali convinti che, una volta sovvertito l'ordine sociale
e politico, l'emancipazione della donna sarebbe avvenuta naturalmente.
Per loro era un errore porre la questione femminile al centro
delle battaglie; tutti gli sforzi sarebbero dovuti essere riposti
nella causa dei lavoratori, mettendo da parte, temporaneamente,
il femminismo.
Impegnatissima in campagne di informazione e propaganda, i temi
di cui si trovò a dibattere furono la prostituzione,
l'amore libero, il matrimonio, la libertà sessuale, la
maternità, il controllo delle nascite e i metodi contraccettivi.
Convinta che non potesse esserci progresso senza educazione,
il suo impegno in campo informativo e divulgativo fu molto forte.
Il volume di Pamela Galassi fornisce un quadro delle idee di
Emma Goldman in ambito femminista; dalle idee che l'hanno influenzata,
fino allo sviluppo del suo pensiero, alle battaglie combattute
e ai temi affrontati che hanno fatto di Goldman una delle anarcha-feminists
più combattive del suo tempo.
Carlotta Pedrazzini
Al di qua e al di là
della pena di morte
Abbraccia un albero per me di Christine Kaufmann (Effigie
edizioni, Milano, 2014, pp. 127, € 15,00), non è
solo un libro di accusa sull'atrocità e assurdità
della pena di morte, ma è anche e soprattutto la storia
di un rapporto intenso e molto intimo.
L'autrice
è una donna tedesca che, dopo aver vissuto nelle isole
greche, in Messico, alle Canarie e in Costa Rica (dove conosce
un italiano che sarà il compagno della sua vita), si
stabilisce nell'entroterra framurese, in una casa di pietra
che ha più di mille anni. È una scelta drastica
ma coerente con il loro modo di sentire la vita. Tanti animali,
galline, cavalli e cani, il tutto immerso nella quiete di un
bosco meraviglioso. Nessuna televisione. Il luogo ideale per
far nascere e crescere i loro tre figli.
Nel dicembre 1999, in seguito alla lettura dei racconti per
bambini scritti da Running Bear ai propri figli, e sollecitata
da un'associazione che si occupa di diritti umani, Christine
dà il via a una fitta corrispondenza con lo stesso Running
Bear, un indiano Cherokee rinchiuso nella prigione di San Quentin
dal 1976.
Non è uno stinco di santo. Questo va detto subito. Per
quanto a lui piacesse descriversi come un Robin Hood Cherokee,
si trova in prigione perché ha commesso diverse rapine.
Ma non ha mai ammazzato nessuno pertanto sta scontando “solo”
l'ergastolo, e non è nel braccio della morte. Quando
uno dei suoi figli sarà arrestato per omicidio, verrà
convinto di indicare il padre come mandante per evitare a se
stesso la pena di morte. Tanto lui è già in
prigione, gli dicono. Peccato che la deposizione del figlio
farà sì che il padre venga trasferito tout court
nel braccio della morte e a nulla varranno i tentativi del figlio
di ritrattare per evitare un'ingiustizia del genere.
Sin dall'inizio le lettere tra Christine e Running Bear (già
nel braccio della morte) sono intense, profonde e intime, e
tra i due si cementa un'amicizia memorabile. Credo che la scelta
di vita di lei le consentano di entrare in sintonia con lo spirito
di lui. Entrambi capiscono visceralmente il senso di libertà
che può dare il vento tra i capelli durante una passeggiata
a cavallo, il piacere del contatto dei piedi nudi con la madre
terra, l'energia che si sente ad abbracciare un albero.
Comunque, sebbene il linguaggio usato per scrivere le lettere
da parte di entrambi sia essenziale, senza fronzoli ed espedienti
letterari, si ha l'impressione di essere ora sulla spalla dell'uno
ora su quella dell'altra, ad ascoltare i racconti della vita
di entrambi.
Lui con la propria vita in prigione, gli scherzi strafottenti
delle guardie e le privazioni, gli acciacchi della vecchiaia,
i consigli fraterni, la sua vita famigliare fatta di lettere
e visite dei figli, la paura di legarsi a qualcuno nel braccio
della morte perché poi te lo strappano via, i riti con
la salvia e le tradizioni Cherokee.
Lei con i suoi sfoghi sui figli che crescono, sugli alti e bassi
con il proprio compagno, le iniziative affinché si parli
della pena di morte, i disegni sui sassi raccolti in spiaggia
per raccogliere soldi.
Poi la decisione di andare a trovarlo. E il fluire delle lettere,
dei segnali di fumo, come li chiama lui, si interrompe per lasciare
posto al racconto di questo primo viaggio e dell'intenso loro
primo incontro in prigione, cui seguono ancora lettere, sempre
più numerose e più intime. Parrebbe uno scambio
di corrispondenza tra un padre e una figlia. Lui sicuramente
andrà a trovarla non appena uscirà di prigione.
Lei non ha mai creduto neanche per un attimo che lui potesse
davvero essere ammazzato. In fondo è anziano e poi ci
sono i ricorsi, devono essere almeno tre prima che si possa
eseguire una sentenza di morte negli Stati Uniti.
E ancora un altro viaggio, e la sfortuna che lui sia in ospedale
per un infarto. Christine è molto contrariata per non
essere stata avvisata, ma forse, per via della sua salute precaria,
davvero l'esecuzione non avverrà mai. Purtroppo non sarà
così, e l'ottimismo lascerà il posto all'amarezza
di constatare che l'avvocato d'ufficio non ha combinato praticamente
nulla, all'impotenza e alla consapevolezza che un povero indiano
non ha possibilità di difendersi nel paese che si vanta
di essere la più grande democrazia al mondo. Viene stabilito
il giorno dell'esecuzione.
A questo punto Christine deve fare i conti con lo sgomento.
È arrivato il momento di tenere fede a una promessa fatta
quando l'esecuzione pareva essere un'ipotesi remotissima. Tutti
le diranno che è pazza. Che è una follia. Ma lei
ha deciso: presenzierà all'esecuzione. All'assurda realtà
dell'esecuzione. La crudeltà delle guardie, la forza
di Running Bear che accetta di compiere quell'ultimo passo sulle
sue gambe, i dimostranti nativi che cantano davanti all'ingresso
del carcere per salutare un fratello.
Ed è qui che Christine decide di scrivere la sua personalissima
condanna della pena di morte riuscendo ad esprimerne l'assurda
inumanità.
Eugenia Lentini
Anarchico,
fabbro,
proletario
Un libro di Claudio Venza e Clara Germani, L'anarchico triestino,
edito da Odradek nel 2011, ci aveva fatto conoscere la vita
del fabbro Umberto Tommasini (Vivaro del Friuli, 1896/1980),
militante “di base” costretto dalle circostanze
– il fascismo, la guerra di Spagna, lo stalinismo –
alla prigione e al confino (a contatto con Gramsci e con Bordiga),
all'esilio in Francia, e alla partecipazione convinta e dalla
parte giusta alla guerra civile spagnola, dove era stato vicino
a Durruti al tempo della breve estate dell'anarchia,
(titolo del libro più bello di Enzensberger) e soprattutto
a Berneri (di qui la sua motivata ostilità, protratta
nel tempo, verso il comunista triestino Vidali, emissario del
Pcus e repressore degli anarchici, a lungo considerato dai comunisti
italiani e russi come un eroe). Nel film di Bormann e Toich
(Ivan Bormann, Fabio Toich, An anarchist life) che torna
sulla vita di Tommasini e ne mostra o ricostruisce le vicissitudini,
le immagini di Berneri contrapposte a quelle di Vidali sono
molto eloquenti, i loro sono volti che dicono, che sembrano
corrispondere alle loro anime...
Vita da anarchico, quella di Tommasini, ma anche da fabbro,
da proletario, come risulta dal bel documentario a lungo metraggio
composto con materiali diversi da due giovani triestini, Ivan
Bormann e Fabio Toich, mentre un altro giovane triestino, Fabio
Bobich, commenta la vita spesso sé malgrado avventurosa
di Tommasini con agili disegni animati di “linea chiara”,
dal segno vivo ed essenziale.
I registi hanno giocato sulla diversità e disparità
tra i materiali recuperabili e le riprese ad hoc. Tra
i primi molte foto e una lunga intervista con Tommasini di qualche
anno fa, che ce lo rende vicino e simpatico con la sua faccia
vissuta e pulita, e molte immagini rubate a film e documentari
sulla guerra civile e ad altri, scegliendo tra le meno viste
e le più adeguate. Tra i secondi i commenti di chi l'ha
conosciuto, asciutti ed emozionanti, e quelli veloci e forse
superflui di tre dei non molti artisti che oggi si dichiarano
più o meno anarchici (Celestini, Cristicchi e Cacucci),
lievemente retorici. Nell'incontro conviviale programmato tra
amici conoscenti parenti di Tommasini e ripreso dai due registi
spicca per intima somiglianza un giovane nipote, una maestra
triestina, alcuni vecchi compagni di Umberto, e tra loro c'è
Elis, un fabbro anarchico di oggi che molti lettori di questa
rivista conoscono e apprezzano e che è anche animatore
culturale di rilievo dalle parti di Marghera e di Mestre. L'insieme
è caloroso e simpatico, un degno omaggio alla vita di
un “militante di base” vissuta con pudore e con
coerenza, e per questo esemplare, un modello per tutti e soprattutto
per certi militanti di oggi che amano considerarsi più
di quel che sono e ignorano la virtù (rivoluzionaria)
del sapersi giudicare, in un'idea di militanza piuttosto esteriore,
recitata. Non sembra proprio che Ivan e i due Fabio e il giovane
Tommasini e gli amici del vecchio appartengano a questa categoria
di persone, ed è anche questo uno dei pregi del film.
A esso, se vogliamo trovare dei limiti, possiamo rimproverare
soltanto il titolo inglese, anche se ne capiamo le ragioni in
vista di una possibile circolazione fuori d'Italia, e –
come succede per la maggioranza dei film a impianto documentario
che ci capita di vedere – un montaggio non abbastanza
“stretto”, una tensione che a volte si allenta.
(Ma questo non riguarda il film di cui paliamo, che è
tutt'altro che noioso e la cui visione è sempre appassionante.
Lo diciamo in generale: c'è una sorta di obbligo non
scritto a far durare un film un'ora e mezza di media, per ragioni
di circolazione, e ci sono film che sarebbero molto migliori
se durassero un'ora o mezz'ora e altri che hanno bisogno di
molto più tempo per approfondire il loro progetto. Perché
non devono esserci dei film-poema o dei film-racconto invece
che, sempre, dei film-romanzo, o al massimo dei film-saggio?
È questo un ricatto o una moda di questi anni, che fa
perdere di forza a molte opere degne. La misura di Anarchist
life è però quella giusta.).
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Umberto Tommasini |
Un motivo invece di grande interesse, oltre a quello della documentazione
e del racconto di storie taciute o censurate del Novecento proletario
e rivoluzionario, è che il film racconti la vitalità
di una storia complessa di un'Italia di più confini,
che come tante storie “di provincia” e di margini
non vengono considerate quanto meritano dai padroni del mercato
della cultura, che stanno a Roma e a Milano.
Goffredo Fofi
Brassens
tra Lucania e Francia
Una rilettura e una riscoperta del cantautore Georges Brassens
attraverso le sue origini lucane (Mimmo Mastrangelo, Georges
Brassens - il francese lucano, Valentina Porfidio editore,
2013, pp. 90, € 10,00): al già noto profilo biografico
del chansonnier d'oltralpe, scandito e accompagnato da
citazioni delle sue canzoni e corredato da un memoriale degli
autori italiani che a lui si sono ispirati, viene aggiunto un
nuovo “Brassens su misura”, questa volta quasi a
voler rovesciare la prospettiva e rivendicare in poche righe
la natura del suo stile sobrio, delle sue idee anarchiche e
della sua innata musicalità.
Elisa Sciuto
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A Georges Brassens abbiamo dedicato un dossier
in “A” 371 (maggio 2012) con contributi di Alberto
Patrucco, Alessio Lega, Allain Leprest, André Sève,
Elisa Sciuto, Fabio Wolf, Fausto Amodei, Francesco Cannito,
François-Réne Cristiani, Giangilberto Monti,
Gianni Mura, Giuseppe Ciarallo, Jean-Pierre Leloir, Laila Sage,
Laura Monferdini, Lorenzo Valera, Margherita Zorzi, Mariano
Brustio, Nanni Svampa, Paolo Capodacqua |
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