Totu sa beridadi
Totu sa beridadi (Edizioni Strade Bianche/ Stampa
Alternativa) è l'autobiografia di Mario Trudu, ergastolano
ostativo, condannato per due sequestri di persona, in carcere
da 35 anni, attualmente nella casa di reclusione di San Gimignano.
Mario Trudu, nato ad Arzana (Nuoro) l'11 marzo 1950, pastore,
nel 1979 viene arrestato con l'accusa di sequestro di persona
a scopo di estorsione. Condannato per un delitto del quale da
sempre si dichiara innocente, durante una breve latitanza è
responsabile del sequestro dell'ingegner Gazzotti.
Nel racconto Trudu ripercorre la sua vita dal tempo in cui
era pastore, sui monti dell'Ogliastra, poi le vicende dei sequestri
e i lunghi anni di carcere spesso “duro”, decenni
passati nelle prigioni fra la Sardegna e “il continente”,
in quel regime “eccezionale” e parallelo che fa
di 1200 persone nella sua condizione quelli “della morte
viva”, perché non collaboratori di giustizia. “Totu
sa beridadi” apre uno squarcio sulla storia, ancora piena
di ombre, della Sardegna dei sequestri, il processo all'Anonima,
che tanto hanno occupato le cronache a cavallo degli anni '70
e '80, e la figura del “giudice sceriffo”, il giudice
Lombardini, suicidatosi dopo l'inchiesta aperta dalla magistratura
su sue presunte poco chiare iniziative. Il libro è anche
un atto d'accusa che tutti ci coinvolge sul nostro sistema-carcere.
Tessuti nella narrazione, i disegni che illustrano alcune
tappe della vicenda, autore lo stesso Trudu che in carcere si
è diplomato in Istituto d'Arte.
Ecco uno stralcio dalla postfazione di Francesca de Carolis:
L'autobiografia
di Mario Trudu mi è arrivata per posta, che era già
un volumetto con tanto di titolo e copertina, stampato e rilegato,
con cuciture a mano, come solo si può fare in carcere.
Accompagnato da una lettera quasi di scuse: “Non è
certamente rilegato alla perfezione, qui le cose si possono
ottenere solo se uno s'ingegna a usare le unghie e i denti.
A nessuno rimarrà il dubbio che questo non sia un lavoro
artigianale...”. E dopo l'augurio di buona lettura, l'invito
a dare un parere, “senza che si cerchi di addolcire verità
negative, sono un uomo forte, se non fosse così non sarei
ancora tra i vivi, le uniche cose in grado di abbattermi potrebbero
essere le notizie favorevoli. Non sono abituato ad affrontarle”.
Così ho conosciuto Mario Trudu, che mi ha scritto dalla
Presone 'e Ispoleto. E la Sardegna già inonda
dell'eco della sua lingua. Avventurarmi nella lettura del libro
è stato come attraversare i monti aspri di quella terra,
guardare la vita alla luce delle sue lune, ritrovare, seguendo
sentieri fra arbusti di lentisco e alberi di leccio, pagine
inquiete che compongono le cronache della stagione dei sequestri,
anni forse ancora da ben capire. Un racconto che ci svela, in
filigrana e a mio parere meglio di molti saggi, i meccanismi
e le “regole” in vigore in un passato ancora molto
recente nella Sardegna più profonda. Ma non solo.
La prima cosa che mi ha conquistata è l'immagine potente
della natura di cui trabocca la prima parte del libro, nella
narrazione puntigliosa, a momenti quasi un trattato di botanica,
a tratti di pastorizia, che è pure racconto delle sue
leggi, a volte spietate, come lo sa essere la vita, e molto
spiega della forza e durezza dell'autore: una sorta di roccia
del Gennargentu, che pure svela momenti di inaspettata
dolcezza e nascoste fragilità. Questo ho pensato ogni
volta che per parlare del libro ho in seguito incontrato, nel
carcere di Spoleto, Mario Trudu: pastore, due condanne per sequestro
di persona, e del primo da sempre si dichiara innocente, fine
pena mai, ma proprio mai. Che dopo 35 anni di carcere ancora
aspetta almeno un permesso, per avvicinarsi ai suoi, almeno
per Natale. Ma questo è il destino degli ostativi. E
non c'è pentimento, in senso morale, che valga.
I nostri incontri si sono svolti nella biblioteca del carcere
e ogni volta, in questi mesi, Mario è comparso con un
gran sorriso e una borsa da cui tirava fuori biscotti, cioccolata
e caffè. Così posso testimoniare che il caffè
in carcere, almeno quello, è davvero molto buono, come
vuole la leggenda. E fra un caffè e l'altro, rileggendo
insieme le pagine dell'autobiografia, mi è capitato di
voler suggerire, confesso, di ammorbidire passaggi particolarmente
duri. Mario (dopo sei mesi, a fatica e con molto timore, siamo
passati al tu) ha accettato qualche compromesso solo per le
parole riservate a coloro dai quali ritiene, e in queste pagine
dimostra, di aver subito grande ingiustizia… ma al pensiero
ancora la rabbia, dice, “consuma le mie viscere”.
Per il resto, mi ha risposto con il garbo ma anche la fermezza
di chi ha a che fare con qualcuno che si ostina a non voler
capire…: “Voglio che resti così, che si
sappia esattamente come sono andate le cose, anche quello che
ero, perché si deve capire la differenza con quello che
sono ora”. Insomma il pastore pronto anche a uccidere
per un'offesa e la persona che adesso è, che adesso sa.
Per parlare a tutti noi, fuori, che vogliamo il condannato inchiodato
per sempre al momento del reato. E che levi il fastidio! Così,
quando qualcuno viene inghiottito dalle porte di un carcere,
la sua vicenda sembra finire lì. Mentre è proprio
da quel momento che iniziano storie altre…
Davvero ce ne è voluto di tempo, e di pazienza da parte
sua, con me che ancora ho provato a forzare qualche modifica
forse di troppo del linguaggio, della scrittura. Ma il Gennargentu
è fatto di pietra dura: “Questo è il mio
primo libro, e non credo proprio che ne scriverò altri,
non sono uno scrittore. Ma voglio che resti di me qualcosa che
mi sia fedele, voglio parole che siano le mie parole”.
Ora penso abbia ragione lui. Se scrivere è anche trovare
il filo che spieghi la propria vicenda esistenziale, è
cosa che non si può camuffare truccando le parole. Dai
monti della vita libera, agli incontri da maledire, all'odore
del ferro delle prigioni, passando per la cronaca del sequestro,
il pensiero oggi sofferto alle vittime e le ambiguità
di una giustizia che sa essere feroce anch'essa… In queste
pagine le parole scavano nella vita che è stata, giorno
per giorno, ora per ora. Parole che nulla risparmiano, né
a sé, né agli altri. Per farlo Mario Trudu aveva
bisogno delle sonorità della propria terra. Il libro
ne è tutto un rimando.
Gavino Ledda ha recentemente detto che quando ha scritto il
suo “Padre padrone”, come pastore ha cantato la
letizia della terra usando una lingua, quella italiana, che
pure, sostiene, non era del tutto in grado di esprimere questa
gioia. Così adesso sta rielaborando quel poema con uno
spirito e un linguaggio diversi, più liberi. Ecco: nel
continuo ritornare della lingua sarda è il ritorno al
tempo libero, all'identità profonda, all'appartenenza
mai persa. Trentacinque anni di carcere non hanno fatto di Mario
Trudu il “fascicolo” che la struttura avrebbe voluto.
Come si sopravvive a 35 di anni di carcere? La risposta è
qui. In totu sa beridadi, di queste pagine.
Francesca de Carolis
Il libro è liberamente scaricabile su: http://stradebianchelibri.weebly.com/uploads/3/0/4/4/30440538/trudu_mario_-_totu_sa_beridadi.pdf
.
Per richiedere copie cartacee scrivere a: stradebianchelibri@gmail.com. |