No Expo
Le ragioni del dissenso
Il 1° maggio si apre l'Expo. Dal 2007 una rete di comitati, associazioni, centri sociali e singoli militanti si batte per denunciarne la pericolosità in termini economici, sociali e ambientali. Proponendo pratiche virtuose e alternative.
L'avversione nei confronti delle
grandi opere non è, come alcuni credono, dettata da idealismo
bensì da un profondo pragmatismo. Chi si batte per affermare
la dannosità di mega-progetti e mega-eventi lo fa a fronte
di un'analisi ponderata delle conseguenze che le grandi opere
possono avere in termini ambientali, economici e sociali. E
proprio una valutazione costi/benefici ha portato nel 2007 alcuni
cittadini milanesi a mobilitarsi per impedire l'assegnazione
dell'organizzazione di Expo, da parte dell'Ufficio Internazionale
delle Esposizioni (Bureau international des expositions, BIE),
alla città di Milano.
In seguito alla nomina del capoluogo lombardo quale sede di
Expo 2015, il numero di partecipanti alle mobilitazioni è
cresciuto; sono nati diversi comitati, associazioni e una rete,
la Rete No Expo, impegnata a coordinare tutte le soggettività
implicate nella lotta contro il mega-evento tra cui centri sociali,
attivisti del sindacalismo di base e singoli militanti. Fino
ad ora sono state diverse le manifestazioni, i presidi, gli
scioperi, i climate camp (campeggi di azione climatica)
organizzati per esprimere il forte dissenso nei confronti dell'evento,
della gestione dei lavori ad esso connessi e per proporre una
visione alternativa e antagonista di sviluppo e valorizzazione
del territorio.
Quella condotta dalla Rete
No Expo è una battaglia volta a smascherare le illusioni
in seno all'ormai imminente esposizione universale e le sue
contraddizioni, a partire dal tema. Nutrire il pianeta. Energia
per la vita stride infatti con la realtà di una regione
che negli ultimi anni non ha eccelso nella salvaguardia del
proprio patrimonio agricolo o nella valorizzazione delle produzioni
locali; da decenni in Lombardia si dissolvono annualmente migliaia
di ettari di aree agricole a cui, dal 2008, si aggiungono quelle
irrimediabilmente compromesse per dare spazio al sito Expo e
alle infrastrutture ad esso collegate quali TEM (tangenziale
est esterna di Milano) e il collegamento autostradale Brescia-Bergamo-Milano
(Brebemi).
In lotta contro il cemento
Gli appartenenti alla Rete No Expo sottolineano come il progetto
di sviluppo legato all'esposizione universale, costituito principalmente
da cemento, asfalto e mega-costruzioni, non si avvicini in alcun
modo a quella sostenibilità ambientale ampiamente propagandata
e conclamata. I membri della rete affermano che il modello eco-sostenibile
a cui l'intero evento intende ispirarsi non sia compatibile
né con gli attori coinvolti (grandi aziende e grandi
marchi) né con il generale svolgimento dei lavori di
preparazione: cementificazione di aree verdi e agricole, costruzione
ex-novo preferita alla valorizzazione delle strutture esistenti,
a cui sono seguiti diminuzione e deturpamento del capitale naturale
di quella zona.
Ma le critiche non si fermano solo al modello di sviluppo; anche
i contenuti dell'evento sono stati posti sotto accusa, ossia
il modo di guardare all'alimentazione e al cibo principalmente
attraverso l'ottica di industrializzazione, che tiene maggiormente
conto di mercati e profitti, mettendo da parte qualità,
cultura e soprattutto i piccoli produttori.
A fronte dell'aumento della popolazione mondiale, dei consumi
alimentari ed energetici, il tema Nutrire il pianeta. Energia
per la vita risulta calzante; ma le proposte che saranno
presentate tra i padiglioni di Expo 2015 a soluzione di questi
problemi (come, ad esempio, innovazione Ogm-biotech e catena
alimentare industriale) sono fonte di un aspro disaccordo da
parte della Rete No Expo, per la quale Ogm e industria non costituirebbero
affatto una soluzione alle difficoltà agro-alimentari
mondiali, ma un'ulteriore fonte di preoccupazione.
Non è tutto. Da tempo i comitati mettono in guardia dall'illusoria
credenza che effetti positivi possano essere generati dall'evento;
effetti che sarebbero in grado, secondo gli estimatori dell'esposizione,
di risollevare l'economia milanese e quella lombarda, con ricadute
benefiche per l'intero paese. Ma la storia recente delle esposizioni
universali (Siviglia 1992, Lisbona 1998, Hannover 2000 e Saragozza
2008) ci insegna qualcosa di diverso. Nonostante i copiosi investimenti,
questi appuntamenti non hanno goduto della partecipazione di
pubblico prevista cosicché non solo l'obiettivo di guadagno
prefissato non è stato raggiunto, ma è stato addirittura
ingenerato un debito di cui la collettività ha dovuto
farsi carico. Il loro fallimento va ricercato nell'anacronismo
di una fiera campionaria di enormi proporzioni al tempo dell'iper-connessione
e della velocità di movimento. L'esposizione è
infatti figlia di un modo di pensare che risultava vincente
alle porte del XX secolo, epoca di incipiente industrializzazione,
ma che non può più essere considerato di successo
soprattutto oggi, in periodo di piena crisi economica.
Inoltre, i comitati No Expo hanno espresso più volte
la loro paura riguardo la possibilità che l'organizzazione
dell'esposizione a Milano potesse trasformarsi in un abissale
debito e con il passare dei mesi questo timore sembra concretizzarsi
sempre di più. L'ombra della manovra speculativa volta
a drenare soldi pubblici per l'arricchimento di privati era
stata denunciata dai comitati già all'avvio delle pratiche
di acquisizione dei terreni sopra i quali il sito Expo sarebbe
stato costruito. In seguito alla nomina di Milano quale sede
di Expo 2015, comune e regione decisero che l'esposizione avrebbe
dovuto avere luogo su terreni di proprietà di soggetti
privati, ma da acquistare, va da sé, con soldi pubblici;
la società Arexpo Spa (partecipata a maggioranza dalla
regione Lombardia e dal comune di Milano) ha così acquistato
i terreni da privati, per la precisione da Fondazione Fiera
Milano e dalla società Belgioioso (gruppo Cabassi).
Per poter rientrare dell'investimento iniziale, da qualche tempo
si sta cercando un compratore disposto ad acquistare il lotto
di un milione di metri quadrati per 315,4 milioni di euro (soglia
minima per un rientro dell'investimento). Ma alla gara per la
vendita dei terreni con scadenza il 15 novembre non si è
presentato nessuno. La faccenda sta iniziando a farsi molto
seria e dimostra che le perplessità avanzate dagli appartenenti
alla rete No Expo non erano infondate; se nessun compratore
sarà disposto ad acquistare i terreni, o se ci sarà
una “svendita”, si aprirà letteralmente una
voragine nei conti pubblici che porterà ad un possibile
intervento della Corte dei Conti oltre alla generazione di un
debito a cui i cittadini dovranno far fronte, che lo vogliano
o meno. L'orizzonte economico non si dimostra roseo: nessun
guadagno per gli enti pubblici che stanno lottando per non ritrovarsi
in perdita, tantomeno per la collettività che rischia
di doversi accollare un debito che non ha contribuito a creare.
Lavoro gratuito? No, grazie
Un punto sul quale la mobilitazione della Rete No Expo si è
dimostrata molto incisiva riguarda i contratti di lavoro. Un
accordo in materia, pensato specificamente per Expo 2015 e sottoscritto
il 23 luglio 2013 da Expo Spa e dai sindacati confederali e
di categoria, prevede il ricorso massiccio all'apprendistato
e, in modo ancor più sorprendente, al lavoro gratuito.
18500 è il numero di contratti disponibili per chiunque
volesse prestare la propria manodopera a Expo senza ottenere
alcuna retribuzione in cambio. Al fine di boicottare le previste
assunzioni senza retribuzione, i comitati hanno lanciato la
campagna “Io
non lavoro gratis per Expo” a cui molti giovani hanno
deciso di aderire con l'intento di procurare all'esposizione
un deficit di manodopera. Al momento, il numero di volontari
dichiaratisi disponibili a prestare la propria opera a partire
dal 1 maggio 2015 sembra attestarsi a meno della metà
di quelli richiesti dagli organizzatori.
L'incompiuto raggiungimento del numero di lavoratori non è
l'unico obiettivo mancato. I lavori all'interno dei cantieri,
infatti, proseguono molto a rilento, complici non solo le mobilitazioni
ed i presidi, ma anche le diverse indagini aperte a causa di
sospette infiltrazioni mafiose, corruzione e irregolarità.
Tra i progetti ancora lontani dalla realizzazione, una “via
d'acqua” lunga circa 20 chilometri che dovrebbe collegare
il Canale Villoresi al Naviglio Grande, passando dal sito espositivo.
Durante il corteo svoltosi a Milano lo scorso 22 novembre, la
Rete No Expo, insieme ai comitati No Canal che da tempo si battono
per la cancellazione di questo specifico progetto, ha proposto
alla società organizzatrice di stornare i 45 milioni
di euro stanziati per un'opera che quasi sicuramente non sarà
costruita in tempo, e di restituirli alla cittadinanza. Una
richiesta che acquista ancora più senso se si considerano
i danni provocati recentemente dalle esondazioni di Seveso,
Lambro, Olona e l'emergenza di dissesto geologico riscontrata
in alcune zone della città.
Il blocco dei lavori di costruzione della cosiddetta “via
d'acqua”, opera che dovrebbe attraversare l'intero polmone
verde di Milano, ossia quattro parchi ad ovest della città,
sarebbe una vittoria per i comitati No Canal che per diverso
tempo, ad ogni ora del giorno e con ogni clima, hanno sfidato
le ruspe intralciando lo svolgimento dei lavori.
Ad oggi le varie soggettività implicate nella Rete No
Expo continuano la loro lotta, consci della necessità
di estendere dissenso e resistenza al mega-evento ad una cerchia
molto più ampia di persone. Non si tratta infatti di
una lotta di quartiere, ma di uno scontro aperto con tutte le
pratiche economiche e politiche che Expo incarna e di cui è
diretta emanazione. Non riguarda in prima persona solo i cittadini
di Milano, ma l'intera collettività. Sì perché
il “sistema Expo” risulta essere uno strumento nelle
mani di grandi attori economici e finanziari, i quali stanno
in tutti i modi tentando, tramite il drenaggio di capitali pubblici,
il consolidamento a livello locale di logiche di accumulazione
che beneficiano pochi grandi circuiti e che impediscono la distribuzione
della ricchezza prodotta localmente.
Un altro modo è possibile
Durante la manifestazione tenutasi l'11 e il 12 ottobre organizzata
dalla Rete No Expo, è stato redatto un documento politico
in cui i futuri intenti dei membri attivi nelle mobilitazioni
sono stati esplicitati. Non solo ostruzionismo nei confronti
di Expo, non solo denuncia delle sue caratteristiche devastanti
per l'assetto sociale-economico-ecologico di Milano e dintorni,
ma anche una riaffermazione del Diritto alla Città.
Perché la Rete No Expo non vuole limitarsi a dissentire,
ma propone di rilanciare pratiche virtuose e costruttive, alternative
a quelle egemoni. Pratiche di riappropriazione degli spazi cittadini
che fungano da laboratorio per esperimenti di autoproduzione
e autogestione e che veicolino il messaggio che un altro modo
di gestione territoriale è possibile. Un'altra via che
non contempli speculazione finanziaria, imposizioni dall'alto,
ma che faccia leva e incentivi la partecipazione e l'inclusione;
che non preveda mega-costruzioni e cementificazione, ma che
avvenga nel rispetto dell'ambiente.
L'opposizione a Expo non vuole essere fenomeno temporaneo,
ma banco di prova per tutti gli attori sociali impegnati nella
costruzione di alternative socio-economiche e politiche. Le
lotte alla precarizzazione, al consumo di suolo, alla finanziarizzazione,
alla corruzione, all'industria agro-alimentare basata su biotecnologie
e Ogm, la volontà di riappropriazione del potere decisionale
in materia di gestione dei territori non riguardano solo l'esposizione
universale di Milano e non svaniranno con la chiusura dei padiglioni
il 31 ottobre 2015; continueranno ad alimentarsi e a concepire
nuove pratiche di gestione inclusiva dei territori. Nell'assoluta
certezza che un altro sistema è possibile. Sempre che
lo si voglia trovare.
Carlotta Pedrazzini
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