Chi ci guarda
C'è una cosa che mi sono
stufata di sentirmi dire: gli studenti non capiscono niente.
È un mantra che certi docenti ripetono ossessivamente,
spesso trascinando il finale della frase in un rap inconsapevole
e sempre scuotendo la testa come i cagnolini col capo snodato
che una volta si mettevano sul retro delle macchine.
Gli studenti non capiscono niente.
Ora,
nei primi anni della mia ormai lunga carriera di insegnante,
consideravo questa affermazione con perplessità incuriosita,
domandandomi come mai a me capitassero, per strani giochi della
sorte, studenti che invece non erano poi male. Anzi, in alcuni
casi, risultavano strepitosi, a dispetto delle mie ingenuità
giovanili e nonostante i mille errori che sempre fa chi, come
me, viene catapultato in cattedra senza sapere bene che cosa
ci si aspetti da lui/lei.
Gli studenti non capiscono niente.
Poi c'è stato un momento in cui ho cominciato a chiedermi
cos'è esattamente che gli studenti non capiscono, e com'è
che sono arrivati mostrarsi, in alcune circostanze e con certi
docenti, come creature disinteressate e passive, concentrate
sostanzialmente solo sul loro telefonino. Allora ho capovolto
la mia prospettiva. Cosa vedono questi studenti che non capiscono
niente quando guardano noi, i “maestri”?
L'altro giorno sono andata a sentire la lezione di un collega
di gran fama. Non era una conferenza, ma una lezione normale,
dentro un corso per studenti del triennio. Il collega non mi
conosceva, dunque ero in incognito: la posizione privilegiata
della mosca sul muro. Mi sono seduta e ho provato ad ascoltare
con attenzione. Seduto, con davanti alcuni fogli, un tono di
voce piatto e cantilenante, un disinteresse palese per quel
che stava facendo e il disprezzo dipinto sul volto, il collega
impartiva nozioni snocciolate nello spazio vuoto tra la cattedra
e la prima fila di studenti, con un entusiasmo che avrebbe addormentato
un ipercinetico, steso un pugile al primo incontro, annichilito
l'idea stessa di interazione educativa, e probabilmente condotto
persino Martin Luther King a imbracciare un fucile e sparargli,
solo per porre termine a quella tortura. Dopo 35 minuti, cercavo
affannosamente il telefonino, senza neanche rendermene conto,
ma per puro desiderio di sopravvivenza. Dopo 47 minuti, volevo
morire, mi scappava pipì, avevo urgenza di interrompere
la cantilena in qualunque modo e volevo socializzare col ragazzino
di fianco a me, che in tutta evidenza stava dormendo. Alla fine
della lezione, mi sarei volentieri iscritta a un corso di step,
giusto per fare un po' di movimento, dato che il cervello era
definitivamente spappolato.
Dunque, sì, gli studenti non capiscono niente.
E tuttavia forse c'è un problema. L'istruzione è
un dialogo formativo. DIALOGO: appunto. Il dialogo, tecnicamente,
implica un'interazione, e, come dice Foucault, è di necessità
un discorso, ovvero un processo basato sulla definizione
di una relazione di potere. In questa relazione di potere, qui
e ora nell'università italiana, la posizione one up
spetta al docente, ed essa non viene mai messa in discussione.
Non solo dagli studenti, che l'unico difetto che hanno è
di sentirsi sconfitti in partenza e dunque di rinunciare preliminarmente
a costruire uno scheletro culturale per comprendere il mondo,
ma neanche dai professori medesimi. In questo universo variegato
che va sotto l'etichetta di categoria docente, le forme di vita
sono diversificate, e c'è la tipologia di cui sopra,
ma anche l'idealista inaffondabile, l'entusiasta appassionato,
il trascinatore di folle, e il docente invisibile (ovvero quello
che non va quasi mai in aula). In quest'ultimo caso, ci va qualcun
altro, di norma più bravo, ma non retribuito. Anni fa,
ho chiesto a una giovane studiosa, ora esule oltreoceano (dove
le hanno riconosciuto quel che vale) come mai gli studenti non
si lamentassero per il fatto che in aula ci andava sempre lei
al posto del docente titolare. Saggiamente, la ragazza mi ha
risposto: “E perché dovrebbero lamentarsi? Io mi
preparo, mi piace quello che faccio e mi prendo cura di loro”.
Non fa una grinza, almeno finché ti va bene lavorare
gratis al posto di qualcun altro che invece è pagato.
Gli studenti non capiscono niente.
Non sono particolarmente carismatica e neanche faccio di più
di quel che dovrei. Mediamente, essendo una che conta poco o
nulla nella gerarchia, ho corsi di circa 300 studenti, che sono
ritenuti i più pesanti. Non ho mai avuto problemi di
attenzione (se non mia, nel senso che normalmente arrivo alla
fine dei corsi stremata) e devo confessare, senza troppa benevolenza,
che da quei 300 occhi tondi, dall'interesse che ci vedo dentro,
dalla scintilla della scoperta che si accende nel tempo, cambiando
per alcuni di loro la direzione stessa della loro vita, ho imparato
di certo molto di più di quello che loro hanno imparato
da me. Non faccio di più di quello che dovrei, né
sono più brava dei miei colleghi. Semplicemente, sono
consapevole di quello che sto facendo: sto cambiando il mondo
mentre dimostro ai ragazzi che credo in quel che faccio.
Ecco, se questa è fuffa, è vero: gli studenti
non capiscono niente.
E probabilmente neanch'io.
Nicoletta Vallorani
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