Botta.../Ma
lo Stato che cosa farà?
Il mio amico Andrea Papi propone (Anarchismo
in divenire, in “A” 394, dicembre 2014/gennaio
2015) un percorso di liberazione sociale che superi la concezione
della lotta contro un nemico identificabile, sconfitto
il quale il mondo sarà più vivibile.
Al posto di una donchisciottesca guerra permanente e suicida
contro falsi bersagli, Andrea indica un nuovo anarchismo costruttivo
e sperimentale. Direi che la sua formula si può sintetizzare
così: non aspettiamo un'impossibile palingenesi universale
frutto della fata rivoluzione: facciamo, qui e ora, quanta più
anarchia possibile: democrazia diretta, rifiuto di gerarchia,
solidarietà, ecc.
Andrea invita al dibattito, ed io vi partecipo, con una domanda.
Premetto che concordo pienamente con Andrea quando scrive che
non è più tempo di nemici facili: se una volta,
nelle pagine dei gloriosi giornali anarchici, si poteva fare
la caricatura del potere (il grasso banchiere, il prete osceno,
il generale con lo sciabolone), oggi che faccia ha il potere?
Oggi il potere - quello vero, che conta, che decide - è
invisibile come i nugoli di elettroni che guidano e regolano
tutta la vita delle nazioni “tecnologicamente avanzate”.
Allora, evitiamo una lotta fallimentare contro questo fantasma,
questo idolo e viviamo come se non esistesse. Creiamo strutture
sociali, partendo dal rapporto tra individui che si conoscono
per nome e si riconoscono reciprocamente dignità e valore;
creiamo isole di libertà in un oceano di servitù.
Creiamo esempi e ricette di una vita alternativa, migliore,
libera.
Bellissimo. Giusto. Ora la domanda: ma quando questo arcipelago
sarà abbastanza esteso (come Andrea auspica, ed io con
lui), cosa farà il potere?
Ora il progetto può anche funzionare, perché coinvolge
relativamente poca gente; non se ne parla, se non nell'ambito
libertario. Tutto è sotto osservazione e controllo dei
poteri costituiti.
Ma se la cosa continua, arriverà inevitabilmente un momento
in cui la società sperimentale dovrà misurarsi
con il potere, con la legge, con l'autorità, insomma
con lo stato.
Quando la costellazione di esperienze sociali autogestite raggiungerà
quello che lo stato riterrà un livello critico (cioè
una minaccia alla sua integrità, al suo dominio, alla
sua legislazione), cosa accadrà? Lo stato cosa farà?
Accetterà serenamente la propria estinzione? Muterà
senza convulsioni violente? Rispetterà la libera decisione
della gente non più minuscola minoranza? Rispetterà,
cioè, l'istanza che tende alla sua eliminazione? O forse
Andrea prevede che si creeranno due corsie sociali? Due società?
Una libera e una statale? Prevede la creazione di libere comuni,
tipo ashram? E sarà lo stato a garantire/consentire/regolamentare
l'esistenza delle comunità anti-statali?
Probabilmente, Andrea indica la necessità del radicale
mutamento dei codici culturali che può avvenire solo
con la pratica. Concordo del tutto.
Ma ritengo - e ammetto che sono molto pessimista - che tale
diffuso mutamento sia lungo, difficile, doloroso. E che sia,
questo mutamento, il nemico mortale del potere, qualunque esso
sia, e che non risparmierà nessuna vita, non eviterà
nessuna atrocità pur di impedirlo.
Paolo Cortesi
Forlì
...e risposta/La maniera giusta di non essere sopraffatti
Carissimo Paolo, grazie di essere intervenuto e d'incalzarmi
con domande che hanno l'intento di aiutare a definire meglio
le questioni.
Le domande che poni me le sono poste anch'io tutte le volte
che ho pensato e scritto ciò di cui stiamo ragionando.
Ma siccome sono tutte rivolte a ciò che sarà,
anzi che supponiamo dovrà essere, a un certo punto ho
smesso sia di pormele sia di tentare di rispondere, perché
sono giunto alla conclusione che è praticamente inutile
muoversi su supposizioni riferite a un futuro che si deve ancora
definire in toto o quasi. A cosa serve?
Siccome però l'esercizio immaginario, pur essendo totalmente
suppositivo, può invero aiutare a prefigurare, quindi
a trovare, i modi più consoni per muoversi, allora ti
dirò in breve come secondo me è probabile che
il potere si muoverà nel caso che... ecc. ecc.
Innanzitutto una precisazione che chiarifica meglio il senso.
Ciò a cui bisognerebbe tendere non sono tanto isole,
che la parola indica luoghi delimitati separati, isolati appunto,
da qualsiasi contesto. No! Io intendo proprio una società
dentro la società esistente, che si muove al suo interno
facendone parte con intenti e qualità d'azione capaci
di modificarla profondamente proprio nel tessuto delle relazioni.
Non quindi una cosa o più cose a parte, facilmente identificabili
e isolabili, ma un bubbone che si espande e contamina, che contagia
a poco a poco i gangli vitali dell'esistente oppressore fino
a renderli inefficienti e repellenti.
Ma, è la tua domanda, il dominio esistente si lascerà
corrodere e annichilire più o meno lentamente? Certamente
no, ti rispondo sapendo di essere facile profeta. E lo farà
in vari modi, reprimendo, calunniando, infiltrandosi e sabotando,
mistificando, procurando molta infelicità e dolore. È
quello che ha sempre fatto, che sa fare meglio e che gli funziona
praticamente sempre, esclusa qualche rarissima eccezione.
Dal modo in cui hai posto le domande penso che siamo d'accordo.
Adesso ti chiedo io: e allora? Anche se sarà così,
come indubitabilmente penso che sarà, ragion per cui
dovremmo prepararci ad affrontare gli eventi che ci attenderanno,
può incidere questa terribile repressione sulle nostre
scelte e la loro ragionevolezza? Il fatto che il potere tenterà
d'impedire con ogni mezzo ciò che presumibilmente lo
metterà seriamente in discussione può servire
a modificare i nostri tentativi di emanciparsi? Credo proprio
di no. Se la paura di essere repressi fosse una ragione sufficientemente
sufficiente per astenersi dal muoversi saremmo ancora ai supplizi
del medioevo nelle pubbliche piazze, vissuti interiormente come
monito a non essere irregolari rispetto ai feudatari. Il fatto
che il potere ci reprimerà, come del resto ha sempre
fatto, deve solo diventare un monito per trovare la maniera
giusta di non essere sopraffatti, come è quasi sempre
successo, per proseguire il cammino verso la liberazione e la
libertà autogestita, fino a quando non riusciremo a raggiungerla.
Andrea Papi
Forlimpopoli (Fc)
Forza del pacifismo, debolezza della violenza
Le seguenti riflessioni muovono dai contributi di Andrea Staid
e Stefano Boni (Per
una diversità delle pratiche) e di Rosellina
“Rosy” Escalar (Metodi
adeguati allo scopo) pubblicati entrambi in “A”
392 (ottobre 2014) nell'ambito del dibattito “Movimenti
e Potere”.
Nel primo si legge: “Un movimento anarchico assolutamente
pacifista ci suona contraddittorio e inefficace: rivendicare
un cambiamento radicale dell'ordine costituito (con relativo
abbattimento delle strutture istituzionali, finanziarie, repressive
ed economiche che lo sorreggono) è difficilmente pensabile
senza una dose di utilizzo della forza” e “pensiamo
che l'azione diretta e non solo la pubblicistica e i convegni,
siano ingredienti imprescindibili per immaginare la trasformazione”
mentre nel n° 13 (Rosellina “Rosy” Escalar) “pratiche
o azioni rivolte contro cose, simboli, strutture, merci, ecc.
rientrano perfettamente nella metodologia non violenta (lo stesso
Gandhi propagandava il sabotaggio)”.
Ho scelto questi momenti del dibattito perché a mio avviso
tendenti all'approccio ideologico davanti a problemi d'ordine
squisitamente politico. Nessuno può pensare alla esclusione
a priori del ricorso alla forza nel corso di un momento rivoluzionario,
ma è indiscutibile che la violenza non è più
quello strumento ritenuto per lungo tempo decisivo per il suo
successo visti i risultati controproducenti ottenuti dal suo
impiego. Come ha ampiamente evidenziato il corso recente della
storia.
Inoltre non si può parlare genericamente di violenza
e potere (e di pacifismo) senza considerare che esse sono, concretamente,
espressioni di un momento politico che una società vive
in un determinato momento storico e quindi devono essere, di
volta in volta, ridefiniti partendo dalla loro contingente realtà
per essere tempestivamente affrontati con iniziative (politiche)
specifiche inscritte in una strategia che non sarà mai,
alla luce dell'attuale situazione, un “immaginare la trasformazione”
(attraverso l'azione diretta) sopra proposta perché il
potere oggi è forte soprattutto per aver assunto una
dimensione mondiale immateriale e conseguentemente aspetti difficilmente
decifrabili e difficilmente identificabili per cui la violenza
propugnata sarebbe (è) rivolta solo ad alcuni suoi aspetti
secondari. Il suo impiego - oltretutto - attualmente fornisce
ai mass media (strumenti decisivi che il potere ampiamente controlla)
l'opportunità di “legalizzare” sia la repressione
sui compagni arrestati, sia per gettare ombre negative sui movimenti
alternativi. A questo proposito basta vedere come giornali e
TV si gettino famelici su tutte quelle notizie cavalcando le
quali tendono ad attualizzare gli “anni di piombo”
dimenticando che l'altra faccia della medaglia che celebra quel
periodo vede incisi gli “anni della dinamite” dei
servizi segreti collegati con le destre fasciste che dettero
vita alle stragi di stato che oggi nessuno più ricorda.
Queste precisazioni vanno unicamente intese a beneficio della
precisione storica, quanto lontane da ogni accenno giustificazionista.
Una volta intrapresa la strada della non violenza essa non rinuncerà
- se ritenuto necessario - al sabotaggio contro cose, simboli,
strutture, merci, ecc. come giustamente propagandava Gandhi,
sabotaggio da considerare però solo come eventuale strumento
aggiuntivo di una strategia pacifista in atto portata avanti
da una massa di persone fisiche, da un popolo in lotta; niente
a che vedere - dal punto di vista della valenza politica - con
quelle affermazioni di principio cui sopra abbiamo fatto riferimento.
La concezione anarchica pacifista, come strategia per inverare
un processo rivoluzionario nasce dalla consapevolezza dei reali,
attuali rapporti di forza materiali, da ragioni d'ordine morale
e di coerenza con i principi anarchici libertari e trova la
sua forza nella inattaccabilità di un atteggiamento pacifista
di massa che sfugge alla logica di un potere che storicamente
ha nella violenza, in tutte le sue accezioni, la sua arma a
tutt'oggi vincente. Inoltre, alla fine del secolo scorso, a
partire da Seattle, una nuova coscienza sta attraversando i
popoli di tutto il mondo. È una coscienza che varca monti
e oceani e, seppure in maniera instabile, magmatica, carsica
investe nazioni diverse e lontane tra loro, riempie le piazze
di milioni di uomini, donne, giovani senza distinzione di cultura,
credo religioso o altro uniti solo dall'aspirazione a un mondo
nuovo, giusto, migliore.
L'elenco dei paesi attraversati da massicce mobilitazioni è
molto lungo, Turchia, Brasile, Egitto, Spagna, Grecia, Tunisia,
Bulgaria, India, Cile, Stati Uniti, Romania e vede impegnati
anche paesi in crescita economica come Brasile e India. È
un mondo che vuole togliere di mano alle vecchie lobby, alle
caste e consorterie varie il potere sulla società per
porre al centro di essa l'Uomo con la sua umanità e con
la libertà (e responsabilità) per ciascuno di
contribuire in prima persona alla definizione di un comune futuro!
È un mondo che si caratterizza per essere “disarmato”
in quanto armato solo della propria determinazione, che non
persegue conquiste violente (anche perché la storia qualcosa
ha insegnato); è un mondo che sa - o forse solo intuisce
- che la sua rivoluzione sarà vincente solo se rivoluzionari
saranno le sue finalità e le sue modalità.
Esso ci dice che il pacifismo, non la violenza, è il
valore irrinunciabile per una umanità sulla strada della
sua completa/definitiva (?) umanizzazione che è la stessa
strada sulla quale marcia chi lotta per realizzare una società
anarchica libertaria. Io ritengo che queste conclusioni rappresentino
un fatto molto positivo ma è ancora niente se a quanto
prospettato mancano quelle gambe che solo un grande e vasto
sforzo politico-organizzativo può sperare di realizzare;
uno sforzo che vada oltre l'attuale frammentazione del nostro
movimento. Problema questo cui il documento della Federazione
Anarchica Empolese Anarchismo
e XXI secolo (“A” 391, estate 2014) prospetta
una soluzione.
Ettore Pippi
della Federazione Anarchica Empolese
Occhio alla proprietà privata del denaro
Parigi. Milioni di persone hanno manifestato per protestare
contro un delitto esecrabile. Ma forse quella non era solo volontà
di protesta. C'era la felicità di realizzare qualcosa
da cui da troppo tempo, i sospetti che il potere induce tra
i cittadini, aveva tenuto lontani e separati gli uni dagli altri.
Finalmente si era tutti insieme, tutti anche quelli che
materialmente quel giorno non erano a Parigi.
Intanto tronfi personaggi nelle e delle prime file sfilavano
plaudendo a se stessi convinti che quella folla appartenesse
loro, fosse il segno tangibile di quanto quegli uomini e quelle
donne sentivano di poter contare su di loro. E tutta la stampa
ad intonare peana agli illustri rappresentanti dei valori della
democrazia e della unità europea.
E allora: no! Gli slogan che assumono che i valori dell'occidente
siano patrimonio comune degli europei, degli americani, ecc.
sono falsi. È necessario che qualcuno lo ricordi. I fondamenti
della democrazia non sono affatto unici in occidente. Max Weber
in “L'etica protestante e lo spirito del capitalismo”
precisò abbastanza puntualmente una differenza non minima.
In estrema sintesi l'etica protestante e particolarmente calvinista,
interpretava il successo economico, la ricchezza, come segnale
dell'approvazione divina e degli austeri comportamenti terreni.
Conseguentemente negativo era il vivere tra e per i debiti o
aspettarsi assoluzioni o indulgenze divine e terrene tanto care
(nel senso che effettivamente si pagavano fior di quattrini
per ottenerle) alle gerarchie della Chiesa cattolica. Quando
si stabilirono i patti europei, ci fu un tenue tentativo di
mettere in risalto i valori del cattolicesimo, tentativo respinto
con la scusa del laicismo, laicismo che ha permesso, comunque
di inserire o ispirare norme orientate dal calvinismo. E la
teoria calvinista e protestante la troviamo introdotta oggi
in ogni decisione “democratica” dell'Europa che
ha espunto i valori del 1789 pur da ciascuno ritenuti fondanti.
La democrazia oggi da mezzo si è trasformato in fine
attribuendo a se stessa il diritto autonomo di governare in
base alla espressione della volontà politica della maggioranza
contata però solo tra i voti espressi, rifiutandosi di
considerare gli astenuti, le schede bianche o altro anch'esse
espressione di volontà politica.
La pretesa della maggioranza di governare fino a nuove elezioni,
al di sopra del Parlamento, che ne dovrebbe valutare via via
le decisioni, è comprovata dalla serie di leggi in cui
il termine stabilità la fa da padrone, impedendo così
la individuazione di nuovi problemi o aggiustamenti delle soluzioni
già definite e senza alcuna partecipazione.
Gli stessi, inoltre propongono ai cittadini di essere presenti
sulla scena politica, presenza che sarebbe certamente auspicabile,
ma che è dominata, invece, dall'ipocrisia dell'obbligo
di accettare la possibilità del voto ogni 5 anni e l'accettazione
acritica delle scelte dei candidati delle segreterie dei partiti.
Ma avere gli stessi valori non comporta avere automaticamente
gli stessi interessi. La dinamica della produzione e i suoi
sviluppi industriali poneva e pone problemi strettamente legati
alla evoluzione (o involuzione) degli stessi fattori della produzione:
Terra, Capitale e Lavoro. Il capitale, che in principio consisteva
nel possesso di beni materiali e finanziari, ben presto si è
reso conto, a mio parere, di due fatti strettamente collegati:
il primo che man mano che cresceva la produzione in progressione
superiore cresceva la popolazione e i suoi desideri; secondo:
promuovere o andar dietro a queste crescite, che in un primo
tempo avevano aumentato i profitti, a poco a poco finivano
con rendere minimi i profitti stessi per via delle quote destinate
a bonificare quanto veniva inquinato o distrutto, mentre l'aumento
delle popolazioni la loro sindacalizzazione e l'aumento dell'istruzione,
tendeva a rendere precario, per decisioni politiche, (rivoluzioni,
colpi di stato ecc.), per eventi di mercato (crisi ecc.) per
eventi naturali: terremoti, inquinamenti da loro stessi provocati,
la proprietà privata di quei beni materiali che
avevano loro garantito il potere. Soluzione: relativo
disinteresse verso il “Capitale beni reali privati”
e massima attenzione al potenziamento del “Capitale bene
finanziario”.
Per mettere a posto le cose, il controllo dei valori monetari
era la prima mossa da compiersi. Questo fu facile da realizzare
promuovendo l'acquisto di beni e finanziandoli in termini così
convenienti che una società abituata all'indebitamento
e al consumismo non ha esitato a buttarvisi allegramente a capofitto.
Ma i debiti sono debiti ed i creditori sono lì a condizionare
profondamente la società e la crisi che ne consegue.
A questo punto si è quasi realizzata la proprietà
privata della moneta. Ora non restava che unificare in un'unica
moneta quelle di un territorio, con caratteristiche omologhe
sia in termini di religione, di governi, di cultura e sindacalmente
abituati o orientati a difendere salari piuttosto che diritti
dei lavoratori.
L'Europa sembrava fatta apposta. Aveva messo in comune alcune
cose tra cui quelle più interessanti e cioè le
forze militari strette in un alleanza che, comunque, facendo
capo proprio al paese in cui le scuole di economia avevano messo
a punto il piano stesso, fornivano la massima garanzia insieme
alla pratica di corruzione che coinvolgeva quasi tutti i governi,
le istituzioni se non addirittura i cittadini. Inoltre la proprietà
privata del danaro comporta che un governo che volesse tentare
di sfuggire alle crisi con progetti di sviluppo e di investimenti
per realizzarli poteva contare solo sul danaro “privato”
che sarebbe stato reso disponibile solo alle condizioni di coloro
che ne sono i proprietari. (Grecia insegna).
E l'Italia? In Italia i proprietari della moneta si trovavano
di fronte ad una popolazione che aveva si un grandissimo debito
pubblico, cosa senz'altro da loro fondamentalmente apprezzata
in quanto forniva sostanziali margini di ricatto verso i governi
in carica (vedi ancora Grecia) ma possedeva un altrettanto consistente
risparmio privato. L'Italia, dunque, doveva, al più presto,
essere resa malleabile attraverso l'introduzione di vincoli
destabilizzanti fondati su una austerità capace, in breve,
di promuovere povertà, disoccupazione, fragilità
assistenziale ecc.
Niente è stato più iconograficamente descrittivo
della volontà calvinista dell'Europa dell'austero
Prof. Monti, nominato Presidente del Consiglio Italiano ma
presto non sopportato dal suo popolo abituato a leader più
“espansivi”, “allegri” e con grande
facilità di affabulazione. Un Capo dello stato, fedelissimo
all'Europa, immaginò una sostituzione con un democristiano,
Letta, che venne sbrigativamente messo da parte in favore del
vero soggetto sponsorizzato dall'Europa che vedeva in lui il
giovane rampante, capace di mostrarsi, a parole, come contrarissimo
all'austerità nord europea, ma di fatto deciso
a non distaccarsi da tutto ciò che era stato messo felicemente
in pratica e soprattutto di concludere ciò che era rimasto
in sospeso.
Che resta da fare?
Accettare ciò che il potere ci permette di fare: chiedere
lavoro, per lasciar loro, con prosopopea seria ed infame affermare
che il lavoro dobbiamo crearcelo da noi (come se non ce ne fosse
già tanto da fare?)
Considerare giusti e disinteressati gli interventi diretti a
ridurre il welfare? (Senza accorgerci che tanto i ricchi se
ne fregano perchè hanno i loro ospedali e le loro scuole)?
Sottoscrivere entusiasticamente l'abolizione di ogni diritto
dei lavoratori in cambio di flessibilità (devastante
pratica che separa dal proprio presente dal
proprio passato, dai propri valori e dai propri territori nonché
dalla solidarietà delle persone che si e ci amano con
relativa e devastante perdita di identità, oltre che
spesso di parte dei salari?
Goderci l'infinita giustizia che hanno realizzato sulle pensioni
eliminando quelle legate agli ultimi salari e sostituendoli
con calcoli sui contributi versati, come se l'ammontare
di questi dipendesse dal lavoratore e non dai padroni che fissano
quando assumere, quanto essere pagato e soprattutto se e quando
interrompere il tuo lavoro...
Ma il passo decisivo dei proprietari privati del denaro è
quello di avere individuato nella miseria e l'ignoranza, la
risorsa per arricchirsi di più e capace, per se stessa,
di scongiurare ogni possibilità di rovesciamento del
potere. Sanno che le rivoluzioni possono essere realizzate,
con speranza di successo, solo se hanno alle spalle una forte
preparazione culturale e tecnica che deve, per prima cosa sostituire
tutte le strutture di potere esistenti con proprie forme organizzative.
Ogni altra rivoluzione se non è impregnata da questa
volontà creativa, sarà costretta, nel tentativo
di rafforzarsi, di sostituire i capi delle strutture istituzionali
sperando di poterle orientare verso i propri fini. Ma così
facendo è probabile si realizzi solo un colpo di stato.
Angelo Tirrito
Palermo
Cosenza/La Fucina anarchica compie un anno
Domenica 14 dicembre, in uno dei capannoni delle ex officine
Calabro-Lucane di Cosenza, la Fucina anarchica ha festeggiato
il primo anno di attività, di autogestione, lotte, antispecismo,
anarcosindacalismo e pratiche libertarie.
Questo complesso di edifici è situato quasi in centro,
tra via Popilia e viale Parco, a pochi minuti da corso Mazzini,
la strada pedonale nel cuore della città nuova. Le Calabro-Lucane
un tempo erano le littorine e le corriere che, sulla rete ferrata
e quella stradale, percorrevano le due regioni dell'estremo
stivale italico. In questo complesso di capannoni si effettuavano
le manutenzioni meccaniche fino a quando, negli anni Novanta,
allorché in Italia avvenne la svolta neoliberista e delle
privatizzazioni, le officine vennero dismesse e le strutture
furono occupate in autogestione da diverse realtà di
Cosenza, tutte fortemente impegnate nel discorso politico, culturale
e sociale della città, ma squattrinate e senza santi
in paradiso. L'intero complesso edilizio meriterebbe una riqualificazione,
vista anche la posizione strategica che occupa nel nucleo urbano,
ma le istituzioni non sono disposte a investirci un centesimo.
Ovviamente, per gli interessi dei palazzinari, di tanto in tanto
spunta la minaccia dello sgombero dell'area. Intanto, le diverse
realtà presenti vanno avanti.
La Fucina anarchica la si ritrova sistemata alla meno peggio,
in un magazzino di circa cento metri quadri. In un angolo sono
collocati i libri, le riviste e quant'altro per la propaganda
anarchica; le copie di Umanità Nova risaltano in evidenza,
con un grande salvadanaio per la campagna di sottoscrizione
straordinaria necessaria a impedire la chiusura del giornale.
Dalla parte opposta, in una stufa sistemata sopra la vecchia
fucina dell'officina, bruciano ciocchi di legna. Tira bene la
stufa e il fumo sale indisturbato verso l'alto, mentre il calore
si propaga nell'ambiente lasciando dietro la grande porta in
ferro il primo gelo portato dai monti della Sila.
Il musicista Migliuzzo Manuzio suona qualche pezzo del suo repertorio
Reggae&Roll e Pop. Gira del vino locale proveniente dalle
generose uve di Donnici, le colline sopra Cosenza. Verso le
18.30, come da programma, inizia la presentazione del libro
Calabria ti odio di Francesco Cirillo. Breve saluto di
Maria Fortino, che spiega anche il senso dell'agire politico
e dell'iniziativa intercalata nel primo anniversario della Fucina
anarchica. Subito dopo è Oreste Cozza che dialoga con
l'autore sui contenuti del testo. Oreste è un po' l'anima
della Fucina; dopo aver inserito qualche riflessione sulla ricorrenza
della struttura, inizia a conversare e a porgli delle domande.
Francesco Cirillo è una figura storica dell'antagonismo
politico calabrese, ambientalista, scrittore e giornalista.
Calabria ti odio, pubblicato per i tipi di Coessenza,
è una raccolta di cinquanta storie che raccontano della
Calabria, una terra di forti contraddizioni che riesce a farsi
amare e, allo stesso tempo, odiare. È facile capire che
il libro di Cirillo scatena l'indignazione, apre visuali d'osservazione
nella Calabria violentata, saccheggiata, avvelenata da criminali
rimasti impuniti, e dove tutto è controllato dalla politica
e dalla massoneria. Allo stesso modo, con maggiore significato
simbolico, si percepiscono figure forti e delicate, guerriglieri
delle utopie, figure minori di un popolo mai domo. Questa dicotomia,
questi frammenti contrastanti caratterizzano i contenuti di
questo testo, consentendo al lettore di alternare differenti
stati d'animo e forti riflessioni.
Ai dubbi di Oreste sul “Che fare?”, Francesco Cirillo
non vede altre soluzioni: cercare di integrare il movimento
nel territorio, andando per le strade e tirare dentro gli artigiani,
i giovani, il popolo in generale, per discutere sui problemi
e sulle vertenze in corso, per creare delle zone cuscinetto,
per creare dinamiche sociali.
Al termine della presentazione è stato proiettato un
video appositamente montato per raccontare dell'occupazione
e dei lavori di ristrutturazione della Fucina. La serata è
proseguita con la musica dei Cantori della Fucina e una cena
rigorosamente vegana e a chilometri zero.
Pino Fabiano
Cotronei (Kr)
I
nostri fondi neri
|
Sottoscrizioni. Milena Morniroli (Clermont-Ferrand
– Francia) in ricordo di Paolo Soldati, 100,00;
Giuseppe Ideni (Forcoli – Pi) 10,00; Filippo
Della Fazia (San Vito Chietino – Ch) 15,00;
Vincenzo Argenio (San Nazzaro – Bn) 10,00; Paolo
Facen (Feltre – Bl) 10,00; Danilo Vallauri (Dronero
– Cn) 10,00; Marino Frau e Nicola Pisu (Serrenti)
50,00; Benedetto Valdesalici (Villa Minozzo –
Re) 10,00; Antonio Pedone (Perugia) 30,00; Diego Zandel
(Roma) 10,00; Giuseppe Galzerano (Casalvelino Scalo
– Sa) 40,00; Marco Castaldi (Colle Val d'Elsa
– Fi) 60,00; Salvo Vaccaro (Palermo) 10,00;
Gudo Bozak (Treviso) 260,00; Federico Zenoni (Milano)
40,00; Marco Parente (Venezia Mestre) 25,00; Roberto
Caselli (Parma) 10,00; Fausta Saglia (Ghiare di Berceto
– Pr) 60,00; Fondazione Gaber (Milano) contributo
per la collaborazione nell'organizzazione della serata
“La fiaccola dell'anarchia” a Rosignano
l'8 gennaio 2015, nel 150° anniversario della
nascita di Pietro Gori, 1.250,00; Alessandro Sancamillo
(Latina) 10,00; Aurora e Paolo (Milano) ricordando
Franco Pasello e Paolo Soldati, 500,00; Giampaolo
Pastore (Milano) 20,00; Silvio Gori (Bergamo) ricordando
Egisto, Marina e Minos Gori, 80,00; Helga Bernardini
(Milano) 20,00; Mauro Pappagallo (Torino) 10,00;
Massimiliano Bonacci (Bologna) 15,00; Davide Giovine
(Torre Pellice – To) 15,00; Renato Sacco (Alba
– Cn) 25,00; Luigi Vivian (San Bonifacio –
Vr) 10,00; Maria Teresa Giorgi Pierdiluca (Senigallia
– An) 10,00; Fulvio Casara (Venasca –
Cn) 10,00; Valerio Pignatta (Semproniano – Gr)
10,00; Stefano Piovanelli (Vicchio – Fi) 20,00;
Giovanni Maletta (Bergamo) 10,00; Rocco Tannoia (Settimo
Milanese – Mi) 10,00; Mario Alberto Dotta (Aymavilles
- Ao) 10,00; Franco Melandri e Rosanna Ambrogetti
(Forlì) 25,00; Sergio Pozzo (Arignano) 10,00;
Pietro Busalacchi (Napoli) 10,00; Daniele Ferro (Voghera
– Pv) 6,00; Libreria San Benedetto (Genova)
3,20. Totale € 2.849,20.
Abbonamenti sostenitori. (quando non altrimenti
specificato, trattasi di euro 100,00). Antonio
Orlando (Cittanova – Rc); Manuele Rampazzo (Padova);
Nicola Farina (Lugo – Ra); Vittorio Golinelli
(Bussero – Mi); Antonella Trifoglio (Alassio
– Sv); Gudo Bozak (Treviso); Carlo Carrera e
Yvonne Pastori (indirizzo non identificato: se leggete,
fatecelo sapere!) 150,00; Davide e Selva (Lugano –
Svizzera); Francesco Barba (Frankfurt a/M –
Germania); Liana Borghi (Firenze); Maurizio Guastini
(Carrara) 150,00; Fiorella Mastandrea e Amedeo Pedrini
(Brindisi); Lucio Brunetti (Campobasso); Stefano Quinto
(Maserada sul Piave – Tv); Luca Gini (Villa
Guardia – Co); Tiziano Viganò (Casatenovo
– Lc) ricordando Franco Pasello e Pierluigi
Magni; Oreste Roseo (Savona) ricordando Giovanna Caleffi
Berneri, Aurelio Chessa, Mario Mariani ed Elio Fiori,
150,00; Massimo Locatelli (Inverigo – Co) 115,00;
Giacomo Ajmone (Milano). Totale €
2.065,00.
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