Siria/
Sulla via di Damasco
Atterrare a Damasco di notte: le luci verdi dei minareti dal
finestrino dell'aeroplano. La prima volta che l'ho fatto è
stato nel settembre del 2003. C'era una certa tensione tra i
passeggeri, non tanto per la memoria ancora fresca delle Torri
Gemelle, quanto piuttosto per via dell'onda lunga del conflitto
iracheno, formalmente cessato – si pensava – con
la caduta di Hussein nella primavera di quello stesso anno,
ma di fatto ancora in corso. Insomma, a duecento chilometri,
mezzora di volo, ci sono i caccia. La cosa fa una certa impressione.
La Siria era governata, da circa tre anni, da un uomo che la
stampa chiama Assad. Il suo nome completo è Bashar Afiz
al-Assad. È un esponente di un partito che si chiama
Ba'th, comunemente definito Partito Arabo Socialista, per distinguerlo
dalla sua costola irachena, pure chiamata Ba'th, ma frutto di
una scissione avvenuta nel 1966.
Il Ba'th nasce nel 1947, fondato da al-Bitar, un intellettuale
siriano che, nato nel 1912, era cresciuto nel contesto culturale
della grande delusione che aveva seguito la fallita rivoluzione
siriana del 1925, una rivolta contro il dominio coloniale francese
che aveva tentato di ottenere l'indipendenza, senza riuscirci.
Come anche l'altro fondatore, 'Aflaq, al-Bitar era damasceno
e i loro ricordi della prima adolescenza si legavano alla difesa
militare della città contro le truppe francesi, poi fallita.
Cercare di comprendere le categorie politiche del mondo mediorientale
attraverso le nostre definizioni di destra e di sinistra è
un esercizio sterile e al contempo molto complesso. Questa precisazione
vale per l'epoca in cui viviamo, e vale anche per le epoche
che l'hanno preceduta. Vi sono, chiaramente, forti fattori economici
e questioni di assi internazionali, e tutti questi fattori sono
variabili nel tempo in base a contesti più ampi.
La storia del Medio Oriente è, in gran parte, e nei decenni
del dopoguerra quasi per intero, legata al partito del Ba'th.
E il partito del Ba'th fu, prima di tutto e prima di qualsiasi
asse di pensiero ideologico o socio-economico, una forza anticoloniale.
Leggiamo i romanzi di Agatha Christie. Ci sono inglesi e francesi
dappertutto. Leggiamo la storia delle scoperte archeologiche
nel primo Novecento: inglesi, e francesi, dappertutto. Nel 1925,
la Siria non era riuscita a scacciarli, ottenendo solo una ridiscussione
dei termini dei mandati. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, l'esigenza
di un nuovo tentativo era imprescindibile.
Il dominio francese in Siria datava al 1920. Il regno indipendente
aveva avuto storia breve. Era nato nel 1918 con la caduta dell'impero
ottomano, era stato smantellato dalle forze coloniali nel giro
di un paio d'anni. La battaglia finale che portò alla
conquista francese, avvenuta a Maysalun, a una decina di chilometri
da Damasco, fu uno dei più vili massacri della storia
coloniale nel Medio Oriente. 3000 soldati della resistenza,
che appoggiavano la sovranità del re, vennero massacrati
da un'armata di 9000 europei, meglio armati e meglio equipaggiati.
E dalla dominazione francese, dopo la seconda guerra mondiale,
la Siria non si era ancora liberata. Lo fece nel 1946. A una
serie di manifestazioni da parte della società civile,
cui la Francia rispose a suon di bombe, seguì un deciso
intervento degli inglesi, che erano molto attenti a ridurre
le influenze di altri europei nella regione: se non lo avessero
fatto, forse, le prime battute della Guerra Fredda avrebbero
preso una piega differente.
Il Ba'th nacque l'anno successivo. Era una forza anti-colonialista
che dal Libano e dalla Siria si diffuse in altri paesi dello
scacchiere. All'epoca, la nascita di Israele costituiva un nodo
cruciale del pensiero politico mediorientale. Era un aribitrato
europeo, che prendeva forma in un momento in cui la regione
spingeva in direzione di una forte autodeterminazione delle
nazioni, e, in certe sue forme, di una macronazione araba. Ma
non c'è religione forte abbastanza da tenere uniti i
sentieri di realtà e nazioni differenti. Dopo “il
disastro” (al-nakba), ovvero la rovinosa guerra arabo-israeliana
del 1948, la Siria conobbe una catena di colpi di stato e cambi
di governo e un breve periodo di unione con l'Egitto di Nasser.
Fu solo dopo lo scioglimento della Repubblica Araba Unita che
il Ba'th prese il potere a Damasco, nel 1963, ma l'etichetta
socialista non era destinata a produrre un programma politico
coerente nei diversi stati in cui il partito andava affermandosi.
Nel 1966, all'alba della Guerra dei Sei Giorni, un nuovo conflitto
incentrato sulla questione israeliana, il Ba'th siriano ebbe
una svolta autoritaria, che portò alla scissione dal
Ba'th iracheno (allineato alla cosiddetta “sinistra”
araba), e alla presa di potere, nel 1971, da parte di un militare,
Hafiz al-Assad, il padre dell'attuale presidente. Assad Sr.
dovette far fronte a gravi problemi di stabilità interna
al paese, che lo portarono a sviluppare una dittatura monopartitica
con forte esercizio dell'autorità di polizia, e per perseguire
questa stabilità percorse la via dell'uniformazione religiosa
islamica: represse minoranze curde privandole della cittadinanza,
ma la sua appartenenza alla setta alauita dell'islam sciita
lo portò ad affrontare severe opposizioni dei sunniti
conservatori, in particolare in seguito al suo sempre maggior
allineamento al blocco sovietico.
La crescita del movimento dei Fratelli Musulmani si colloca
in questo contesto. Una delle prime sanguinose battaglie civili
che opposero il movimento estremista sunnita alle politiche
del dittatore prende il nome di Massacro di Hama. Avvenne nel
1982, e vi persero la vita un migliaio di soldati dell'esercito
regolare e dai seimila ai trentamila civili. Nel frattempo,
mentre il Ba'th siriano inseguiva al tempo stesso una secolarizzazione
delle istituzioni della cosiddetta repubblica e una generalizzazione
del culto islamico nel paese, il Ba'th iracheno aveva preso
il potere, prima con il colpo di stato di Hasan al-Bakr e poi
con la successione del suo braccio destro Saddam Hussein, la
cui politica interna mirava pure a una laicizzazione dello stato
(l'Iraq abolì presto la Sharia in favore di un sistema
di codice civile di stampo europeo), e la cui politica estera
mirava alla supremazia politica ed economica sull'Iran, altra
grande potenza sciita della regione. Per far questo, ottenne
il sostegno degli Stati Uniti, che avrebbe perduto nel 1990
quando invase il Kuwait.
La Siria di Assad Sr. fu costantemente segnata da un forte interesse
nei confronti del problema palestinese; tuttavia, occorre considerare
il bilancio propagandistico della questione e la formazione
di Yasir Arafat, per comprendere i motivi del mancato appoggio
siriano alle organizzazioni locali palestinesi. Arafat si era
formato nel movimento dei Fratelli Musulmani, i cui rapporti
col Ba'th erano difficili. Assad preferì dunque sostenere
altri tipi di gruppi anti-israeliani, come il libanese Hezbollah
e, ovviamente, Hamas. Lo faceva con una mano, mentre con l'altra
aderiva alle indicazioni delle Nazioni Unite. Sul fronte del
Kuwait, Assad Sr. appoggiò gli americani nelle operazioni
anti-irachene. Probabilmente, la memoria storica è breve
nella campagne della jazirah, o forse l'unione culturale supera
i confini dei disastri passati quando si affrontano quelli futuri,
perché nel 2003, per le persone che ho conosciuto a Deir-ez-Zawr,
Saddam Hussein era invece un martire e un eroe.
Assad Sr. morì nel 2000, e dopo un breve interregno istituzionale
fu succeduto, secondo il meccanismo monopartitico e plebiscitario
della repubblica islamica, da suo figlio Bashar-al-Assad. Il
suo tempo entra nella piccola storia della mia vita in Siria,
durata circa cinque mesi, due e mezzo nell'autunno del 2003,
due e mezzo nell'autunno del 2005. Bashar-al-Assad ha tentato
un processo di graduale liberalizzazione della vita civile nel
paese. Ad esempio, nel 2003, quando lasciai la Siria, in aeroporto
dovetti consegnare le SIM del cellulare locale, che venne tagliata
dai poliziotti davanti ai miei occhi. Nel 2005, questo fenomeno
era cessato. Ma la liberalizzazione che aveva avviato Assad
Jr. non se la poteva permettere, e lo capì molto presto.
I tempi cambiavano, e si rendeva necessario un traumatico cambio
di rotta.
Quanto sia stato traumatico, non è difficile immaginarlo.
Io ho lasciato la Siria per l'ultima volta ai primi di novembre
del 2005. Era un paese in cui, sebbene da un po' di tempo l'accesso
a internet fosse aperto, sebbene le donne, soprattutto a Damasco
e Aleppo, mostrassero visi e persino gambe in maniera sorprendentemente
libera, a seconda dei credi di adesione – resta inteso
-, e sebbene nelle città gli uomini istruiti almeno al
punto di saper leggere il giornale di moglie ne avevano una
sola, le periferie iniziavano a dare segnali strani.
Nel 2003, le barbe venivano tagliate. Nel 2003, Hussein era
un martire, l'America un aggressore, ma si respirava ancora
un senso di liberazione, per l'allentamento della morsa sulle
libertà civili dopo la morte di Assad Sr. Gli italiani,
gli europei, erano visti con simpatia. Nel 2005, le minacce
occidentali e l'aumento della tensione erano vissute, dagli
uomini della regione un po' sperduta in cui ho abitato, come
delle gravi minacce alla sovranità della Siria. Le barbe
si allungavano, le donne avevano il viso coperto. Voi state
con Israele. Noi stiamo con Assad. (Non dite mai “Israele”,
si raccomandavano i capi dello scavo archeologico. Dite “Disneyland”.)
Il tema portante della politica estera di Assad Jr. era, infatti,
rimasto più o meno quello che aveva caratterizzato quella
di suo padre. Ma il contesto del conflitto palestinese, negli
anni recenti, è cambiato. Il sostegno nei confronti di
organizzazioni estremiste come Hezbollah comporta, dopo la crescita
di visibilità di movimenti come quello dei Fratelli Musulmani
nel contesto della cosiddetta Primavera Araba del 2010-2011,
la nascita di una forte opposizione interna, che è stata
una dei motori principali dello scoppio, anche in Siria, di
una guerra civile. A questo punto, potrei prendere un tono patetico.
Elencare i nomi di città e cittadine dove ho conosciuto
delle persone, e che ora, stando alle ultime notizie che ho
avuto, sono state devastate. O parlare della storia di un ragazzo
siriano di 25 anni, rapito col suo taxi qualche mese fa, ad
Aleppo. E dire che, ad Aleppo, il padre per riavere il figlio
ha dovuto pagare 5000$ (lo abbiamo aiutato noi, i vecchi amici),
ma per riavere il taxi ne avrebbe dovuti pagare 20'000. Ma queste
forse sono le cose che accadono in ogni guerra.
Mi accontento invece di aver raccontato una storia che mi appassiona,
su un paese che ho, per un po' anche se per poco, vissuto in
prima persona. Un pezzo di me, però, è rimasto
a Damasco, nell'ufficio di un falsario “legale”,
un artista che crea riproduzioni di antichità e le vende
(repliche di tavolette cuneiformi, oggetti in metallo, in legno),
un pomeriggio di novembre del 2005. C'era appesa una foto al
muro, una foto che da noi, credo, farebbe fatica ad arrivare.
Ritraeva un bambino di dieci anni, un musulmano palestinese,
con una divisa verde. Il bambino guardava in camera, nell'istante
in cui sulla sua fronte si apriva un terzo occhio, rosso, il
foro di un proiettile. Ecco, io là ci ho lasciato qualcosa,
in quella stanza, di fronte a un'immagine che rappresenta alla
perfezione la complessità di un mondo che a volte l'Occidente
osserva con occhio troppo distratto, finché non sono
i suoni delle bombe a ricordarci quanto è piccolo il
mare che lo separa dalle nostre vite.
Federico Giusfredi
Ricordando Antonia Fontanillas/
Una compagna instancabile e solidale
L'affetto che Antonia ha regalato, anche a me e a diversi compagni
e compagne italiane, era forte come le sue convinzioni libertarie.
Ci conoscemmo nel 1983, alle Giornate Culturali del Congresso
della CNT che si svolgeva a Barcellona, e mi aiutò subito
nelle ricerche storiche con puntualità e precisione.
Le piaceva ricorrere alla sua vasta biblioteca, eredità
di una famiglia di storica militanza, per fornirmi fotocopie
di articoli di difficile reperimento. E accompagnava questi
regali preziosi con una serie di considerazioni di più
ampio respiro. Conversare con lei era un piacere che ci guidava
dentro i problemi di ieri e di oggi dell'anarchismo (e non solo
in Spagna), delle sue lotte, dei suoi principi e dei suoi inevitabili
limiti e contraddizioni.
Provava una particolare soddisfazione nel far visitare, purtroppo
solo dall'esterno, gli edifici nei quali si realizzarono i passi
avanti sulla strada della rivoluzione antiautoritaria nella
Barcellona del 1936. Qui c'era la sede delle Juventudes Libertarias,
lì dell'Ateneo Libertario e non molto lontano del cruciale
Sindacato della CNT della Madera. E non trascurò, con
un ritorno al passato più remoto, la modesta abitazione
della famiglia Fontanillas Borras nella cupa Calle Robador del
povero (e malfamato per i borghesi) Barrio Chino. Oggi quest'ultimo
edificio non esiste più, vittima dello sventramento “modernizzatore”
e “bonificatore” di qualche anno fa. Non poteva
poi mancare la famosa ed enorme Casa della Regional della CNT,
già Casa Cambò e al momento della nostra visita
ormai sede del potente Fomento, struttura economica legata al
franchismo.
Di sicuro Antonia era assai sensibile ai valori delle organizzazioni
libertarie che hanno costituito la costante di tutta la sua
vita, ma disponeva, come ácrata coerente, di un'ottica
individuale e non temeva di assumere talvolta posizioni critiche
nei confronti di certe scelte, passate e presenti, dell'anarcosindacalismo
e del movimento specifico. Più volte rievocò la
sua personale scelta, condivisa da altre compagne, di non partecipare
al movimento delle Mujeres Libres alle cui militanti peraltro
attribuiva un grande significato. Su questo tema sorprendeva
compagne e compagni stranieri abbeverati alle numerose pubblicazioni
che esaltavano ML come l'avanguardia nella battaglia per la
liberazione del genere femminile. La spiegazione di questa distanza
risiedeva sia in un'evidente differenza generazionale (più
mature le ML, più adolescenti lei e le altre delle Juventudes
Libertarias) sia in una valutazione classica: la lotta delle
anarchiche non poteva scindersi da quella più ampia che
coinvolgeva tutte e tutti. L'ideale e l'obiettivo della totale
emancipazione degli esseri umani dall'oppressione capitalista
e statale costituivano un impegno comune. Secondo quanto ci
comunicava Antonia, le compagne avrebbero dato un migliore contributo
allo sforzo sovrumano del 1936-39 collaborando strettamente
con i compagni dentro la CNT e la FAI.
Questa presa di posizione poteva sembrare poco sensibile al
nuovo clima diffuso anche in Spagna dopo la fine di Franco (che
non significava la fine del franchismo, ci teneva a precisare).
Ma non le impediva di dedicarsi a scrivere una biografia di
Lucía Sánchez Saornil, una delle principali esponenti
di ML. Antonia era affascinata dalla sua personalità
controcorrente e dalla sua sensibilità poetica e letteraria
e negli ultimi anni volle concretizzare questo sforzo di redazione
storica.
Un'altra valutazione poco scontata era la sua riserva sulla
efficacia della lotta armata clandestina condotta dall'anarchismo
spagnolo. Secondo lei, nel tracciare un bilancio complessivo
dell'esperienza, alla quale aveva comunque partecipato, le organizzazioni
libertarie fecero delle scelte e delle modalità sbagliate,
per quanto eroiche. I militanti più generosi e coraggiosi
si sacrificarono per portare a termine qualche azione di attacco
al franchismo e ai franchisti in una cornice assai sfavorevole.
Il contesto negativo era purtroppo insuperabile non solo per
la prevedibile repressione capillare del sistema dominante,
ma anche per la difficoltà di svolgere una propaganda
di più ampio respiro. In quella Spagna terrorizzata dal
regime era quasi impossibile far comprendere agli interlocutori
naturali - il popolo degli sfruttati e degli oppressi -, le
ragioni di fondo del movimento che – Antonia lo ricordava
spesso -, risiedevano sostanzialmente in un messaggio, pratico
e teorico, di uguaglianza nella libertà. Anche in questo
caso, i suoi dubbi non le impedirono di solidarizzare con chi
si trovava in prigione in seguito all'attività clandestina.
Basti ricordare che la giovane Antonia conobbe Diego Camacho
negli anni Cinquanta, quando il futuro Abel Paz era ristretto
in un carcere barcellonese. E va ricordato che lei continuò
a considerarlo, anche dopo la separazione, un “compagno
speciale” nelle lettere che scrisse fino a qualche mese
fa, l'estate scorsa.
Nel complesso l'eredità di Antonia, al di là di
ogni retorica e agiografia, ci mostra la dimensione individuale
di un impegno ideale e concreto. Questa esistenza fornisce un
esempio di come e quanto l'aspirazione ad un mondo denso di
alti valori etici possa resistere durante una lunga vita. In
quasi un secolo percorso, logicamente con i suoi alti e bassi,
Antonia ha partecipato senza riserve a un movimento che ha l'ambizione
utopistica di rendere libera l'umanità intera.
Claudio Venza
P.S. Il 30 dicembre 2014 a Barcellona, nella Biblioteca Arús,
si è svolto un Homenaje a Antonia Fontanillas curato
da Sonya Torres, storica dell'anarchismo e sua stretta collaboratrice.
In precedenza c'era stata una manifestazione pubblica con la
collocazione di una lapide in Calle Robador, nel popolare e
centrale rione del Raval (o Barrio Chino). Durante le tre ore
alla Arùs si sono susseguiti molti interventi dando vita
a una “memoria trasformata in esperienza vitale”.Si
sono recitati brani di e su Antonia, si è cantato, si
sono eseguiti numerosi brani musicali e teatrali. Inoltre era
visibile una ricca esposizione di documenti e immagini sulla
sua lunga militanza e si è presentato il volume postumo
con la biografia della militante di Mujeres Libres, Lucia Sánchez
Saornil, un obiettivo che finalmente si è realizzato,
anche se postumo.
Qualche
fiore per Antonia
Conobbi
Antonia Fontanillas e Pepita Carpena nell'incontro “Anarchica,
riflessioni sulla diseguaglianza sessuale” a Lyon
nel 1987.
Entrambe sono venute a Lussemburgo nel giugno del 97,
per partecipare ai dibattiti sui film “Libertarias”
e “De toda la vida”. Chi potrebbe dimenticare
queste due militanti e dirigenti libertarie, che non esitavano
ad esprimere il loro disaccordo su parecchi aspetti? Niente
a che vedere con i conferenzieri politici all'uso dovunque,
e ancora meno in un paese che allora non aveva nemmeno
l'università e dove tuttora la libertà d'espressione
è troppo timida. Durante i giorni lussemburghesi,
si sono consolidati gli affetti con tutte e due. Su Pepita
mi esprimerò in un'altra occasione. In questa mi
è stato chiesto di scrivere qualche riga in ricordo
di Antonia. Poco facile.
Oltre alla lucidità, cultura, vivacità ed
intelligenza di Antonia, tre cose mi rimarranno impresse
sempre: il suo coraggio di vivere, il suo amore per i
fiori e la sua voce chiara, con la quale cantava un vastissimo
repertorio messicano e catalano. Era sempre felice
quando le dicevo che ogni bel fiore che vedevo mi faceva
pensare a lei. E, infatti, se le mandavo qualche cartolina
con dei fiori, Antonia, che curava come nessuno gli scambi
epistolari, mi faceva arrivare una lettera con delle fotocopie
di fotografie di fiori fatte da lei.
In una delle ultime conversazioni telefoniche, mi fece
capire che era stanca, che si sentiva mancare le forze.
Continui a cantare? –mi chiese. Certo –risposi.
Allora abbiamo cantato insieme il passaggio di un bolero.
La sua voce era rimasta chiara e la sua memoria intatta.
Lei, però, non era soddisfatta. Vedi? –mi
disse. Questo mi dispiace, di non avere più tanta
forza per cantare, perché respiro male. Ma sai
cosa faccio? Quando mi corico, mi canto mentalmente le
canzoni che amo di più e così mi posso addormentare.
Bella, cara, dolce, energica, coraggiosa Antonia, grazie
dei fiori, delle canzoni, dell'esempio. Averti incontrata
ci aiuta a voler essere migliori.
Paca Rimbau Hernández |
Vita
di Antonia
Nata a Barcellona nel 1917, in una famiglia di militanti
anarchici, si trasferisce in Messico a otto anni restando
fino al 1933, quando suo padre viene espulso per ragioni
politiche. Nell'ambiente messicano effervescente e stimolante,
sviluppa la grande attenzione di tutta la vita verso i
libri, le riviste, la stampa di tipo sociale e letterario.
Tornata con i suoi a Barcellona, trova lavoro in una litografia
e si iscrive subito alla CNT e alle Juventudes Libertarias
dove è molto attiva. Nell'estate del 1936 (come
risulta anche dal suo racconto pubblicato sul numero speciale
di “Volontà” dal titolo “Spagna
1936. L'utopia è storia” del 1996) cerca
di partecipare allo sfortunato sbarco su Majorca caduta
in mano ai golpisti, ma è troppo giovane per un'impresa
di quel tipo. Partecipa alla gestione della litografia
Riusset dove spinge per la collettivizzazione che però
non è accettata dagli operai. Lavora nell'amministrazione
del quotidiano anarcosindacalista “Solidaridad Obrera”
che viene soppresso dai franchisti nel gennaio 1939, appena
conquistata la metropoli catalana.
Si dedica quindi alla stampa clandestina della “Soli”
e poi di “Ruta”, altro foglio libertario che
ospita i suoi primi articoli. Nell'impegno di solidarietà
verso i detenuti libertari conosce Diego Camacho, alias
Abel Paz, a cui si unisce per rifugiarsi nel 1953 in Francia.
Qui mantiene contatti stretti con il gruppo del guerrigliero
Quico Sabaté, ucciso dai franchisti nel 1960 e
si impegna intensamente nei campeggi internazionali promossi
dalla gioventù anarchica e in attività teatrali
e culturali di propaganda libertaria. Collabora alla rivista
“Frente Libertario”, una testata di lunga
durata, edita in Francia da esiliati, e su posizioni indipendenti
dalle grandi organizzazioni spagnole. Dopo la morte di
Franco è presente a tutti i congressi della CNT
ricostituita fino al 1983 e poi della CGT, sorta come
scissione dalla CNT. Partecipa a frequenti incontri culturali
e politici di carattere antiautoritario in Francia, Spagna
e Italia. A Torino, nel 1997, porta le critiche anarchiche
alla propaganda filosovietica che ancora è presente
in certe commemorazioni e ricostruzioni storiche antifasciste.
Per decenni sostiene il superamento delle divergenze tra
libertari e anarcosindacalisti di varie tendenze dando
più spazio, teorico e pratico, alle notevoli affinità
e meno alle indubbie differenziazioni.
Scrive, da sola o con altri, vari libri preferendo dar
corpo a biografie di importanti militanti, uomini e donne:
dalle promotrici di Mujeres Libres a Lola Iturbe, redattrice
di “Tierra y libertad”, da Germinal Gracia
(alias Victor García), conoscitore di molti movimenti
di rilievo internazionale, a Luce Fabbri. Anche grazie
ad Antonia si realizza, nel Maggio del 2007, un numero
eccezionale della “Soli” sia per gli articoli
sia per l'inedito spirito di collaborazione. Quell'edizione
della “Soli”, di notevole spessore e qualità,
viene curata e diffusa da entrambi i rami principali dell'anarcosindacalismo
spagnolo (CNT e CGT). Continua fino agli ultimi giorni
a mantenere positivi rapporti con giovani militanti ai
quali comunica un entusiasmo e una fraternità di
livello elevato.
c.v.
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Antonia Fontanillas (Barcellona 1917-Dreux 2014) |
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Naga 2014/
Stanno tutti bene
L'Associazione volontaria di assistenza socio-sanitaria
e per i diritti di cittadini stranieri, rom e sinti (Naga) ha
svolto un'indagine sulle condizioni socio-sanitarie ed economiche
della popolazione immigrata in Italia. L'analisi dei dati raccolti
dal Naga tra il 2009 e il 2013 permette di ricostruire la composizione
dell'immigrazione irregolare e di dare una lettura diversa degli
effetti della crisi economica.
I risultati della ricerca sono stati inseriti nel Rapporto Naga
2014, di cui pubblichiamo le conclusioni.
Il Naga offre da quasi trent'anni assistenza sanitaria gratuita
ai cittadini stranieri - non in regola con il permesso di soggiorno
o neocomunitari che non hanno accesso alle prestazioni del Servizio
Sanitario Nazionale. Data la peculiarità della sua utenza,
i dati Naga rappresentano una fonte di informazione originale
e privilegiata sul fenomeno dell'immigrazione a Milano. Essi
consentono di documentare l'evolversi nel tempo delle caratteristiche
demografiche e socio-economiche di una popolazione che sfugge
sostanzialmente alle rilevazioni statistiche ufficiali.
Questo rapporto ha analizzato i dati raccolti dal Naga sui circa
15.000 utenti che tra il 2009 e il 2013 si sono recati per la
prima volta al Naga (il numero totale di visite nel corso di
questi anni è stato circa 4 volte superiore, ma le informazioni
socio-demografiche sul migrante sono relative solo al momento
della prima visita). Particolare attenzione è stata prestata
ai 2.417 utenti che hanno raggiunto il Naga per la prima volta
nel 2013. Il Rapporto ha analizzato le caratteristiche del campione
Naga, con riferimento, in particolare, a nazionalità,
genere, situazione familiare, anzianità migratoria, livello
di istruzione, situazione abitativa e condizione lavorativa.
Lo studio ha anche considerato le interazioni più significative
fra queste variabili. [...]
Sebbene il profilo demografico dell'utenza Naga sia rimasto
relativamente stabile nel tempo, a partire dal 2008 si assiste
ad un fortissimo peggioramento degli esiti lavorativi del nostro
campione. Lo studio documenta infatti come la crisi economica
abbia sortito effetti molto pesanti sui tassi di occupazione
degli utenti Naga e sulla stabilità percepita del posto
di lavoro, per i pochi che ce I'hanno. In particolare, la percentuale
di occupati sugli attivi nel campione Naga è passata
dal 63% nel 2008 al 36% del 2013; la riduzione è stata
di oltre 10 punti percentuali per la componente femminile. Contestualmente,
la percentuale di coloro che percepisce come relativamente stabile
il proprio lavoro (occupazione permanente) è passata
dal 52% del 2008 a meno del 25% del 2013. È inoltre sensibilmente
peggiorata la condizione abitativa del campione, con un preoccupante
aumento dei senza fissa dimora.
L'interpretazione delle cause di questi fenomeni estremamente
complessi esula dagìi obiettivi del presente Rapporto,
che più modestamente intende offrire evidenza statistica
originale su un fenomeno altrimenti sconosciuto. Eppure, almeno
due conclusioni possono essere tratte dallo studio.
In primo luogo, il timore che l'immigrazione stia penalizzando
i lavoratori italiani dal mercato del lavoro non trova riscontro
empirico nei dati. Questo timore nasce dalla tesi secondo la
quale i lavoratori immigrati (soprattutto irregolari) esercitano
nel mercato del lavoro una concorrenza sleale “al ribasso”
nei confronti degli italiani. Di conseguenza, la loro presenza
spiazzerebbe la forza lavoro autoctona aumentandone la disoccupazione.
Da un punto di vista empirico, questa tesi implica andamenti
speculari nei tassi di occupazione nelle due popolazioni (immigrati
e nativi), il che è ampiamente smentito dai fatti. In
altre parole, non vi è evidenza di una riduzione dei
tassi di occupazione degli italiani cui corrisponde un aumento
(o una minore riduzione) dei tassi di occupazione dei lavoratori
immigrati. Al contrario, i dati relativi ai tassi di occupazione
di italiani, stranieri regolari e irregolari. provenienti da
tre differenti fonti statistiche ISTAT, ISMU e, appunto, Naga
puntano sulla crisi economica iniziata nel 2008 quale causa
dell'aumento della disoccupazione. La riduzione dei tassi di
occupazione ha colpito tutti i tre gruppi, ma si è abbattuta
con particolare virulenza sulla popolazione irregolarmente presente
in Italia.
ln secondo luogo, i risultati dello studio suggeriscono con
forza la necessità di appropriati interventi pubblici.
I dati non consentono di distinguere fra due possibili cause
fra loro complementari della maggiore vulnerabilità alla
crisi del campione Naga. La prima vede gli immigrati del campione
inseriti in un segmento del mercato del lavoro particolarmente
fragile e maggiormente esposto alle conseguenze occupazionali
della crisi economica. La seconda spiegazione rimanda al processo
di autoselezione degli immigrati che si rivolgono al Naga: come
ampiamente discusso nel rapporto, lo status occupazionale degli
immigrati influenza sia la possibilità di avere il permesso
di soggiorno che quella di accedere pienamente al Servizio Sanitario
Nazionale. Di conseguenza, nell'utenza Naga sarebbero sovrarappresentati
gli immigrati privi di (regolare) lavoro.
ll corto circuito tra mancanza di lavoro (regolare o meno),
difficoltà nell'ottenere (e mantenere) iregolari documenti
di soggiorno e le limitazioni all'accesso alle cure attraverso
il servizio sanitario pubblico è acuito dalla crisi e
alimenta una condizione di rischio per la salute e in generale
per le condizioni di vita delle persone che si trovano in questa
morsa. Una situazione che richiede un'attenta riflessione e
interventi mirati in termini di salute, legislativi - slegando
il permesso di soggiorno dal contratto di lavoro - e di tutela
dei diritti in specifici segmenti del mercato del lavoro.
Associazione Volontaria di Assistenza Socio-Sanitaria
e per i Diritti di Cittadini Stranieri, Rom e Sinti
Via Zamenhof 7/A, 20136 Milano
Tel: 0258102599 - Fax: 028392927
naga@naga.it
Chi
siamo
Il
Naga è un'associazione di volontariato laica e
apartitica che si è costituita a Milano nel 1987
allo scopo di promuovere e di tutelare i diritti di tutti
i cittadini stranieri, rom e sinti senza discriminazione
alcuna. Il Naga riconosce nella salute un diritto inalienabile
dell'individuo. Il contatto diretto e quotidiano con stranieri
irregolari e non, rom e sinti permette di interpretarne
i bisogni e di individuare risposte concrete, nonché
di avanzare proposte, richieste, rivendicazioni nei confronti
di strutture sanitarie e istituzioni politiche. Gli oltre
300 volontari del Naga garantiscono assistenza sanitaria,
legale e sociale gratuita a cittadini stranieri irregolari
e non, a rom, sinti, richiedenti asilo, rifugiati e vittime
della tortura oltre a portare avanti attività di
formazione, documentazione e lobbying sulle istituzioni.
L'associazione non si pone in alternativa o in concorrenza
con i servizi sanitari pubblici, né desidera deleghe
nell'ambito di un settore che rientra tra le funzioni
preminenti dello Stato sociale; si propone, anzi, di estinguersi
come inevitabile conseguenza dell'assunzione concreta
e diretta del “problema” da parte degli organismi
pubblici preposti.
In un anno, vengono svolte dal Naga più di 15.000
visite ambulatoriali, oltre 800 persone che vivono nelle
aree dismesse della città vengono contattate dal
servizio di Medicina di Strada, centinaia sono i lavoratori
di strada cui i volontari dell'unità di strada
Cabiria offrono un servizio di prevenzione e riduzione
del danno sanitario, centinaia sono i soggetti cui l'associazione
offre tutela legale gratuita. Dal 2001, inoltre, i volontari
del Centro Naga Har prestano assistenza legale e sociale
a richiedenti asilo, rifugiati e vittime della tortura.
Associazione Volontaria di Assistenza Socio-Sanitaria
e per i Diritti di Cittadini Stranieri, Rom e Sinti
Via Zamenhof 7/A, 20136 Milano
Tel: 0258102599 - Fax: 028392927
naga@naga.it |
Argentina/
Bicimacchine in Patagonia
Il progetto di costruire bicimacchine in Patagonia è
nato con l'idea di aiutare la comunità/casa ecologica
autosostenibile Kalewche, situata nel villaggio di Cholila (Chubut,
Argentina). In quel momento a Kalewche il sistema per pompare
l'acqua dal lago sottostante fino a casa, generato da un motore
eolico, smise di funzionare. Così la casa restò
senz'acqua mettendo in difficoltà i suoi abitanti e fondatori:
Darìo Calfunao e Laura Volentini, attivisti mapuche e
permacultori. Questa ci è sembrata una buona occasione
per diffondere la tecnologia delle bicimacchine in questo territorio,
e aiutare al tempo stesso Darìo e Laura.
Abbiamo cominciato a pianificare e costruire un prototipo di
bici pompa d'acqua della tipologia “da pozzo”, che
secondo noi poteva permettere di pompare l'acqua dal lago (Mosquito)
fino alla casa Kalewche (elevando l'acqua per un dislivello
di 60 metri e per una distanza di 120 metri circa). Nel frattempo
iniziò anche la ricerca di vecchie bici abbandonate,
parti di bici e di macchinari (pompe, alternatori, frullatori,
macine, ecc.) e tutto ciò che poteva servire per fare
delle bicimacchine.
Si cominciò anche a preparare lo spazio di lavoro nell'abitato
di Cholila, all'ostello Piuke Mapu dove c'era disponibilità
di energia elettrica, che a Kalewche mancava. Il progetto di
costruire la bici pompa da pozzo restò in disparte, dopo
aver parlato con Darìo e Laura che non vedevano così
necessaria la possibilità di riuscire a pompare l'acqua
dal lago fino alla casa con una o più bicimacchine, poiché
avevano già preso misure per soluzioni convenzionali.
Così abbiamo deciso di comune accordo di costruire altri
tipi di bicimacchine per diffondere questa tecnologia nella
regione, attraverso corsi e esposizioni.
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Esposizione
di bicimacchine e offerta di bici-frullati a un evento
per i desaparecidos di Cholila |
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All'ostello Piuke Mapu vennero realizzate nel giro di una
settimana una bici pompa mobile e un bici-frullatore. Questo
utilizzando delle bici trovate nella discarica di Cholila, una
pompa elettrica fuori uso regalata da alcuni amici di Lago Puelo
e un vecchio frullatore semi-rottto che Laura aveva a Kalewche.
Queste due bicimacchine vennero esposte ad un evento organizzato
dai Vicini Autoconvocati di Cholila per il primo anniversario
della scomparsa di due persone a Cholila.
In questa presentazione abbiamo fatto bici-frullati e li abbiamo
regalati ai partecipanti all'evento. La nostra azione richiamò
molto l'attenzione e presto abbiamo preso contatto con varie
persone che ci hanno offerto interviste alla radio e esposizioni
nelle scuole. Ci è stato poi anche offerto di organizzare
un corso nella Centrale di Trattamento di Esquel.
Tre corsi, una tecnica
Furono presenti al corso di Cholila 20 persone, tra gente del
posto, della regione e viaggiatori che parteciparono portando
bici, macchinari, strumenti e alcuni accessori. Altri solo prestarono
il loro aiuto volontario. Il corso cominciò con una esposizione
delle due bicimacchine che già avevamo costruito. I partecipanti
poterono provare il bici-frullatore e per volontà di
Darìo si provò anche la bici-pompa-mobile installando
le tubazioni idrauliche e misurando i litri pompati al minuto.
Dopo la tappa del primo corso abbiamo continuato a lavorare
alcuni giorni per terminare la bici-macina e questo artefatto
chiamò molto l'attenzione degli abitanti. Venne realizzato
un secondo corso, promosso da alcune ragazze di un villaggio
localizzato al limite tra le regioni di Rio Negro e Chubut.
Questo corso fu molto particolare; abbiamo conosciuto gli abitanti
del luogo che avevano molto interesse per le bicimacchine perché
già avevano una macina per mele e un estrattore di sugo
fatti di legno e adattati a un motore elettrico.
Alcune persone del posto organizzarono la raccolta di materiali
e noi abbiamo contribuito diffondendo il corso con mezzi digitali,
nella gestione degli strumenti e con tre bicimacchine da esporre.
Il corso andò molto bene, parteciparono persone che portarono
banchi da lavoro e pezzi da adattare.
Rientrati a Cholila, dopo alcune settimane di lavoro tra l'ostello
e Kalewche, abbiamo realizzato diverse esposizioni nelle scuole
della zona. Abbiamo partecipato a un'esposizione e ad un incontro
nella scuola superiore di Cholila, una lezione nella Scuola
d'arte di Lago Puelo e abbiamo fatto un'altra esposizione nella
scuola elementare di Rio Blanco, un piccolo villaggio vicino.
Avevamo già in programma un ultimo corso prima del nostro
ritorno, quello all'impianto di trattamento rifiuti di Esquel.
Durante questo corso siamo riusciti a terminare una bici-lavatrice
e abbiamo cominciato la costruzione di un bici-frullatore con
la partecipazione di varie persone di Esquel interessate alla
tematica della tecnologia sostenibile.
Il giorno seguente siamo andati alla comunità mapuche
di Santa Rosa a Leleque, dove vive la famiglia Curiñanco
nel territorio ancestrale recuperato all'usurpazione capitalista
di Benetton e della Compañia de Tierras. Qui abbiamo
consegnato la bici-lavatrice terminata durante il corso di Esquel
alla comunità Santa Rosa. La bicimacchina venne accolta
bene da questa famiglia e restò qualcosa in più
del nostro passaggio per quelle terre. Lì a Santa Rosa
abbiamo salutato Darìo che ritornò a Esquel, mentre
noi ci siamo fermati per passare un po' di tempo nella comunità
mapuche.
È così che è terminato il progetto bicimacchine
in Patagonia, un po' a malincuore perché ci sono state
offerte possibilità di continuare a tenere corsi in altre
parti della Patagonia, ma soddisfatti per quanto realizzato.
Un documento video dal titolo “Bicimaquinas en Patagonia”
è disponibile su YouTube.
Questo scritto è dedicato alla piccola
Wanda, che ha tragicamente lasciato sola sua madre Maga, nostra
amica e compagna.
“La saggezza consiste nell'arte di scoprire la speranza
dietro al dolore.”
Subcomandante Marcos
Michele Salsi, Miguel Alberto Hidalgo
del Collettivo Jaguar de Madera - Biocostruzioni e bicimacchine
ark-michele@riseup.net
Michele Salsi si è già occupato delle bicimacchine
in “A”
386 (febbraio 2014) con un articolo dal titolo “Teoria
e pratica della tecnologia appropriata”
Marco Camenisch/
Nuovo rifiuto della libertà condizionale
Dopo oltre un anno di temporeggiamento, il Tribunale Federale
di Losanna ha rifiutato il rilascio condizionale di Marco. Come
per le precedenti decisioni, anche a questo giro le motivazioni
sono politiche: Marco non si distanzia dalle sue posizioni politiche,
pertanto la libertà condizionale va rifiutata.
Un breve riepilogo rispetto alla storia di questa richiesta
per una liberazione condizionale da parte di Marco.
Dal 2012 Marco dovrebbe beneficiare della libertà condizionale,
dal momento che ha compiuto i 2/3 della pena inflittagli. La
richiesta in questo senso inoltrata all'Ufficio delle Misure
Detentive di Zurigo venne rifiutata il 13 aprile del 2012. Da
qui il ricorso.
In un primo momento, la Direzione del Dipartimento di Giustizia
e degli Interni del Canton Zurigo aveva rifiutato l'ammissibilità
del ricorso, e solo in seguito alla rivalutazione da parte del
tribunale amministrativo, il tutto è ritornato nelle
mani dell'Ufficio delle Misure Detentive, aka Feldstrasse di
Zurigo.
Venne dunque rinnovata l'audizione a Marco, ma ciò nonostante,
nel febbraio 2013, il rilascio condizionale venne nuovamente
rifiutato. Come motivazione a questo rifiuto fu: “una
visione delinquenziale del mondo, nonchè una predisposizione
cronica alla violenza” da parte di Marco - una motivazione
che si squaglia da sola, mettendo ulteriormente in risalto il
carattere politico della decisione di non-rilascio. Per tanto
così avrebbero potuto evitare giri di parole e affermare
chiaramente che se Marco non lo rilasciano è perché,
oggi come ieri, rimane un anarchico rivoluzionario.
Nella riformulazione data dal Tribunale Federale le parole sono
diverse ma il significato è lo stesso: Marco non viene
rilasciato in quanto “tuttora manca un credibile allontanamento
dalla predisposizione alla violenza e una presa di distanza
dall'utilizzo di questa come strumento per un confronto politico”.
Ora, data la globale realtà contrassegnata da un acuirsi
della crisi e della tendenza alla guerra, si ha a che fare con
una disarmante ingenuità se si vuol considerare la violenza
come estranea agli strumenti della politica. Non ci rimane dunque
che constatare come al Tribunale Federale non solo vi siedano
giudici assolutamente naive, ma che pure non rimanga che l'argomentazione
politica.
Marco non esce perché mantiene una posizione integra
e diretta contro la violenza del dominio. Ovvio come questo
non piaccia alla giustizia di classe, ovvio come vogliano continuare
a vederlo dietro le sbarre.
In un punto però si mostrano le contraddizioni interne
tra i responsabili della detenzione di Zurigo ed i controllori
della giustizia borghese di Losanna. Secondo i giudici federali,
infatti, Marco deve da subito poter disporre degli alleggerimenti
nella detenzione. Il Tribunale Federale scrive che entro maggio
2018 al massimo è da considerare il rilascio, cosa che
corrisponderebbe al termine definitivo della pena di Marco.
Ciò nonostante questo non è stato un motivo sufficiente
per concedere già ora un rilascio condizionale.
Lo scopo della detenzione in Svizzera è che ogni detenuto/a,
al termine della pena, sappia vivere senza più commettere
reati. Secondo i giudici, per poter rendere possibile questo
percorso verso una vita al di fuori del carcere, devono venir
concessi i necessari alleggerimenti affinché possa esserne
provata l'attuabilità. L'ufficio delle Misure Detentive,
responsabile per questi alleggerimenti, ha finora sempre impedito
ogni alleggerimento: dunque si vedrà se questa sentenza
potrà influire sulle condizioni di detenzione di Marco.
MARCO LIBERO!
indirizzo:
Marco Camenisch, PF 38, CH -
6313 Menzingen, Svizzera
Soccorso Rosso Svizzera
No Expo/
L'università chiude per “motivi di sicurezza”
Tutto era pronto per venerdì 16 e sabato 17 gennaio.
A ridosso dell'imminente esposizione universale, la Rete No
Expo aveva deciso di organizzare alcuni eventi culturali presso
la sede di via Festa del Perdono dell'università statale
di Milano. Agli appuntamenti del venerdì sarebbe poi
seguita l'assemblea nazionale, prevista per il giorno seguente,
convocata per fare il punto della situazione sulla resistenza
ad Expo.
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Milano, sabato 17 gennaio - fuori dall'ex sede Anpi occupata |
Proprio nel periodo in cui, a seguito degli avvenimenti di
Parigi, comuni cittadini e istituzioni si sono scoperti Charlie,
strenui difensori della libertà di espressione, stampa
e pensiero, l'università ha letteralmente chiuso le sue
porte per fermare un evento No Expo.
Senza precedenti avvisi, istituzionali o informali, il portone
di entrata della sede di via Festa del Perdono è rimasto
serrato. Su di esso, due fogli affissi comunicavano che ''per
motivi di sicurezza'' l'università avrebbe riaperto il
lunedì seguente, rimanendo chiusa nei giorni 16-17-18.
Bloccate quindi le attività didattiche, lezioni, ricevimenti,
richiesta e consegna di libri di testo, con tre esami spostati
nella sede di via Mercalli.
La decisione, presa dal rettore Vago e dal prefetto Tronca,
appoggiata dal Comitato provinciale per l'ordine e la sicurezza,
è stata giustificata da motivi di ordine pubblico. Già
da qualche giorno circolavano voci sulla presunta pericolosità
della due giorni No Expo; con articoli apparsi anche su quotidiani
nazionali si è cercato di spargere il seme della paura
e della tensione per quello che era un appuntamento culturale,
un momento di confronto e dibattito politico. Ecco il calendario
che ha spaventato procura e rettorato: venerdì 16 gennaio
- spettacolo teatrale, aperitivo bio, concerti hip hop, raggae
e balkan; sabato 17 gennaio - workshop tematici in mattinata
e assemblea plenaria prevista per il pomeriggio. Vista la chiusura
degli spazi universitari, gli organizzatori dell'evento hanno
ripiegato sull'area occupata di via Mascagni 6, ex Anpi, dove
tutti gli appuntamenti hanno avuto luogo come da calendario.
Più che una questione di ordine pubblico, la decisione
sembra essere stata principalmente politica, un tentativo di
impedire la diffusione delle ragioni di chi si dice contrario
all'esposizione universale di Milano, con strategia di criminalizzazione
nei confronti di chi per quelle idee si sta battendo. Quella
dell'università, poi, è stata una chiara presa
di distanza dalle critiche al mega-evento; tra le sue mura sono
permessi corsi e conferenze ''in vista di Expo'', ma niente
che sia critico con esso.
Come denunciato già da un comunicato apparso sul sito
No Expo, sembra che la costruzione di un nemico pubblico da
combattere e la creazione di un clima di tensione vengano preferiti
al confronto e al dibattito e la chiusura di un luogo come l'università
rende questa idea molto più di un sospetto.
Carlotta Pedrazzini
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